Nel 1977, “God save the Queen”, risuonava beffarda e blasfema nelle orecchie degli inglesi nell’anno del Giubileo d’argento della regina Elisabetta II, mentre un’altra regina nera d’animo come il carbone, la futura Lady di ferro Margaret Tatcher, si affacciava torva sulla scena politica.
I Sex Pistols che, in sostanza, le avevano oltraggiate entrambe con la loro musica erano diventati il nemico pubblico n°1 tanto che il loro cantante, Johnny Rotten il Marcio, subì un tentativo d’omicidio in un vicolo di Londra che gli lasciò la lama di un machete conficcata in una tibia e una coltellata che gli squarciò il palmo di una mano.
Era la sanguinosa prova che i Punk erano odiati e perseguitati in tutto il Regno Unito, erano considerati i rifiuti della società, il marcio dei bassifondi, i veri colpevoli del disastro economico incombente. Il potere aveva trovato i colpevoli sui quali scaricare l’attenzione dell’opinione pubblica; i Sex Pistols, dal canto loro, avevano smascherato con la loro musica irriverente quella che era ed è la vera truffa del potere cui soggiaciamo e il Rock’n’roll c’entra ben poco. Non stavano sul palco per divertire e intrattenere ma per attaccare ed essere attaccati, distruggere e farsi distruggere, essere sprezzanti, indigesti e sgradevoli; in una parola: Punk!
Più di quarant’anni dopo, la stessa regina è ancora al proprio posto, salda al vertice di un regime fascista preconizzato dalla regina nera morta demente solo qualche anno fa, simbolo di un Europa fasulla e autoritaria; il punk continua a gridargli contro che non c’è alcun futuro per quelle come loro, come non ce n’è stato per nessuno in questi quattro decenni anche se qualcuno continua a credere il contrario.
Da quel lontano Giubileo d’argento per tutti noi non c’è stato davvero nessun futuro, ma solo un vile procrastinare, un disperato entr’acte di un’interminabile, spettrale tragedia. Sono stati decenni di genocidi, involuzione sociale, entropia culturale come non se n’era mai vista. Le mani dell’Occidente sono ancora più sporche di sangue di prima e tre quarti del mondo vive al limite o al di sotto della soglia della povertà.
La recente epidemia mondiale ha dimostrato l’abissale differenza tra chi, rubando le risorse ai più miseri, può permettersi le cure e le quarantene e chi come i paesi del sud del mondo non possono concedersi nemmeno il privilegio di ammalarsi ma, per risparmiare ed evitare il contagio, praticando la loro secolare profilassi contro tutte le malattie, se ne muoiono direttamente di fame a milioni.
Non è per niente retorica terzomondista, come si diceva una volta, sono fatti e sono soprattutto cadaveri. I flussi migratori dimostrano questo disastro, causato da una totale mancanza di prospettiva e futura programmazione a livello planetario e l’esponenziale crescita del divario tra immensamente ricchi e persone che non possiedono nemmeno il proprio corpo. Forse era una cosa del tutto inconsapevole ma è indubitabile che quei viziosi ragazzi della fine dei ‘70 ci avevano visto giusto: Nessun futuro e nessun futuro è stato.
Quello che c’è stato da allora è solo una sorta di tempo sospeso, non un futuro ma un tetro, immobile orizzonte di crudeltà e follia. Solo per restare al Regno Unito abbiamo visto la dittatura liberista del Tatcherismo e la creazione di milioni di nuovi poveri, la guerra imperialista della Falkland e il sostegno inglese a tutte le sconsiderate guerre degli Stati Uniti, dalla reiterata invasione del Kuwait, dalle mostruose guerre balcaniche, a quelle Africane (Somalia, Libia ecc.) e poi l’Afghanistan e via di seguito.
Ultimamente Chanel ha messo in vendita un ciondolo a forma di lucchetto in oro 12 carati a 200 euro che sembra essere di gran moda tra i ragazzi, così come quello analogo di Yves Saint Laurent che con collana/catena è venduto a 365 euro. Se però si chiede agli sciagurati figli e figlie di papà della generazione social, che li indossano sulle loro felpe stilose e griffatissime, della tragica storia drogata di Sid & Nancy, sigillata da un simile ninnolo molto meno prezioso, spalancano gli occhioni da veri “Pretty Vacant” e rimangono beotamente afasici.
Il termine Punk per gran parte di loro non significa più niente perché la società dei consumi li ha trasformati in carne da macello per i tritacarne della produzione che sono pronti a fagocitarli, digerirli e defecarli senza nemmeno che se ne accorgano; consumati dalla società dei consumi come siamo diventati tutti, consapevoli o meno.
Forse era un destino già scritto quando Malcom McLaren, stilista dell’assurdo e farabutto di gran croce, pensava al futuro della sua band da dietro le vetrine della sua boutique di abbigliamento per feticisti; in fondo sempre di merda si trattava e anche se ora è all’essenza di Chanel n° 5, molto poco è cambiato, semmai peggiorato.
Il recente successo della serie tv The Crown ideata Peter Morgan (2016-in corso) sembra paradossale e beffardo. Il telefilm osannato dalla critica e adorato da milioni di telespettatori è una celebrazione del potere monarchico inglese assoluto di origine divina. Elisabetta II viene osannata televisivamente nella sua gloria luminosa, in realtà, costruita dagli squallidi rotocalchi e sostenuta dalle scariche di cannone. Non si muove alcuna critica alla monarchia nemmeno lontanamente, al contrario viene presentata come uno dei fondamenti nascosti dell’unità e della grandezza europea.
Sappiamo bene che i media sono un’arma nelle mani della propaganda più becera ma sembra che ogni tanto ognuno di noi non ci faccia più caso credendosi davvero libero, “un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente” come diceva quel vecchio poeta inglese. La nostra mente sembra intorpidita dalle puerili favole di principi e regine che ci propinano perché evidentemente ci ritengono dei babbei.
Il punk serve ancora, in questo senso, a tenerci svegli e a farci capire che dietro quel sorriso pacioso e indecifrabile da monarca si nasconde un abisso d’ipocrisia e di protervia, simbolo del potere autoritario delle false democrazie ultra-capitalistiche che ci rendono schiavi del mercato e del consumo.
Quarant’anni fa, i media servi sciocchi del potere, la facevano apparire come una dolce signora che intratteneva gli ospiti all’ora del tè. Oggi viene dipinta come una arzilla nonnina tutta cagnolini e cappelletti dagli improbabili tailleurs.
Solo i punk seppero vedere i denti guasti e marci dietro quel ghigno da vecchia megera e ad urlargli contro tutta la rabbia e la frustrazione degli sfruttati e dei miserabili che, pur sconfitti e vinti, non si arrendono e non lo faranno mai.
“Il punk è un momento della cultura popolare capace di dare un volto della ribellione a soggettività e a gruppi storicamente e geograficamente distanti nel tempo. Pur avendo un’estetica, dei simboli e un sound riconoscibili a livello internazionale ha assunto forme differenti e specificità in base ai luoghi e alle culture locali e nazionali nelle quali si è radicato. Ogni qualvolta facciamo uso della parola punk dovremmo collocarlo nel tempo e nello spazio, perché fin dal 1976 ha assunto significati diversi e ha generato molti miti”. (Alessia Masini, Siamo nati soli, Pisa 2020 pag.279)
Bandiere nere e Balordi senza futuro USA:
dai Black Flag ai Dead Kennedys
Nel mito delle origini del Punk un posto di primo piano lo ha di certo il viaggio di Malcom McLaren negli Stati Uniti e poi a Parigi che gli fornì le idee e il pretesto per ideare la più grande truffa del Rock’n’Roll. A dare fuoco alle polveri di quella rivoluzione c’era stato di certo la fascinazione degli europei per tutto ciò che veniva dagli Usa. McLaren volò a New York con gli abiti rockabilly confezionati nel suo negozio Too fast to live, too young to die di King’s Road che prima si chiamava Let it rock e che si sarebbe trasformato in seguito nel celeberrimo Sex. Non era solamente una boutique stravagante ma anche il luogo di ritrovo prima dei Teddy boys della città e poi di giovinastri di varia estrazione che potremmo definire con un eufemismo come semplicemente degli sbandati.
Tra questi c’erano alcuni ragazzi che suonavano in una band che McLaren in qualche modo sosteneva. Tra questi, il chitarrista Steve Jones non era solo un teppista della sei corde ma aveva anche grandi doti di ladro. Leggenda vuole che nel 1973 rubò microfoni e amplificatori all’Hammersmith Odeon mentre David Bowie e i suoi Spiders from Mars davano l’ultimo definitivo show di quella memorabile tournée.
Ziggy Stardust si suicidava sul palcoscenico in uno dei momenti più drammatici e alti della storia del rock e i ladroni sotto il suo patibolo di Messia lebbroso si fregavano i microfoni facendo nascere una rivoluzione in musica senza paragoni.
E’ una situazione dal vago sentore mistico e biblico; sentendola Johnny il Marcio (Rotten) il cantante che si sarebbe da lì a poco aggiunto alla band di “graffignoni”, avrebbe risposto con un grugnito ed uno sputo e potrebbe farlo ancora adesso. Johnny Beverly, il futuro Sid Vicious, prima di cominciare a frequentare la boutique per feticisti al 403 di King’s road, era un fan sfegatato di Bowie. Quando finalmente i Sex Pistols riuscirono a suonare la prima volta in pubblico (06/11/1975) il brano primo in classifica era ancora una volta Space Oditty uscito più di sei anni prima; tutto questo vorrà pur dire qualcosa.
Questa e molte altre storie, tra serio e faceto, sono alla base della leggenda e del mito del punk. E’ certo che i Cazzi del Sesso, le pistole del negozio Sex, insomma, i Sex Pistols ne sono stati i degenerati demiurghi. Ma c’è molto, molto altro.
Dal punto di vista musicale negli Stati Uniti da più di un decennio, almeno dalla fine dei ‘60, si era cominciato a suonare una rozza, volgare e potente variante del classico Rock’n’Roll; personaggi marci e selvaggi da un pezzo terrorizzavano i palcoscenici, almeno da quando una band di teppisti chiamati The Stooges aveva cominciato a girare per le strade di Chicago.
Dalla fine degli anni ‘60 e per il primo scorcio dei ‘70, la città di New York, degradata e sporca, era diventata il centro di molte nuove forme d’arte. Luoghi simbolicamente primari d’aggregazione creativa, per quanto riguarda la scena musicale, erano, lo sanno tutti, due locali di Manhattan, il CBGB’s e il Max’s Kansas City; meno citati sono altri due luoghi mitici a pochi passi: The Factory di Andy Warhol e il The Bunker di William S. Burroughs.
Al classico giornalismo musicale fa buon gioco occuparsi solo di quello che definiscono il Punk ignorante, stradaiolo e straccione, completamente anti-intellettuale ma mentono sapendo di mentire. Sanno bene che quella meravigliosa energia creativa non è nata solo dall’immondizia ma da precise scelte artistiche del tutto anticonvenzionali.
Senza Warhol niente Velvet Underground, senza Burroughs niente controcultura. Il soprannome Vicious del bassista Johnny Beverly viene dalla canzone di Lou Reed, il nome Sid dal vizioso cricieto di Johnny Lydon. La stessa definizione del movimento viene da una rivista fondata nel 1975 dal fumettista John Holmstrom e dal critico musicale Legs McNeil. Il primo numero di Punk era dedicato all’uscita dell’album di Lou Reed, Metal Machine Music con tanto di intervista e caricatura in copertina. Il numero di febbraio 2021 della storica rivista Linus lo ricorda molto da vicino.
Una vecchia canzone di Alice Cooper fece idealmente da viatico, è il caso di dirlo, al movimento al ritornello di: “I love the dead before they’re cold, Their blueing flesh for me to hold, Cadaver eyes upon me see nothing”. E poi ci fu la furia circense, Burlesque e anticonvenzionale dei New York Dolls che furono da modello per molte band d’oltreoceano. Una delle loro Grupies che dichiaratamente ballava nuda nei locali e per vocazione artistica faceva lavori di mano e di bocca per pochi spiccioli, era Nancy Spungen, proprio quella che, una volta scavalcato l’Atlantico, portò la follia e l’eroina nella vita di Sid Vicious come se non ne avesse abbastanza di stravizi.
Di certo a fissare il primo standard estetico e musicale del movimento, partendo dagli USA nel 1974 furono i Ramones, con la loro musica grezza e fulminante che sapeva però anche essere disimpegnata, divertente e coinvolgente, pura energia. Era la musica dei Freaks autentici quelli che la società americana emarginava e considerava human garbage.
Nelle prime canzoni del gruppo l’impegno politico e civile sembrava essere il loro ultimo pensiero. In esse appariva un totale disimpegno e spregiudicatezza, un tono adolescenziale e strafottente che raccontava, per esempio, della groupie Jakie la ranocchia e della sua amica pazza, oppure ragazzini del Queens che sniffavano colla senza nessuna logica o costrutto. Per inciso dal titolo della canzone prese spunto la fondamentale fanzine del punk UK: Sniffin Glue.
Purtroppo dietro questa apparente distanza dall’impegno politico si celava ben altro. Il gruppo era politicamente spezzato in due. Da una parte la militanza politica radicalmente progressista di Joey Ramone (Jeffrey Ross Hyman) e dall’altra quella stolida e volgare di Johnny Ramone (John Cummings), anticomunista viscerale e reganiano ultraortodosso con venature razziste da redneck. E’ una condanna del Punk fin dagli inizi di essere sempre in bilico tra l’estrema sinistra e le derive autoritarie del neonazismo. Imbarazzanti e irripetibili anche a fine carriera le dichiarazioni di Johnny a favore dell’amministrazione dei due Bush e delle loro peggiori porcate in politica internazionale. Sniffare colla fa male. Hei ho let’s Go!
(segue)
Flaviano Bosco © instArt