Dedichiamo ancora qualche considerazione agli appuntamenti tra cinema e musica tenutisi ogni martedì d’inizio estate al Centro di Accoglienza e Promozione Culturale Ernesto Balducci ODV di Zugliano (UD) con il prezioso coordinamento del direttore Paolo Iannaccone. Il tema della migrazione e dell’accoglienza è centrale per la nostra società negli ultimi decenni. La sensazione è che la strategia che viene utilizzata a livello europeo per gestire l’evento epocale sia il più completo disinteresse per i diritti umani.

A livello politico sembra che la risposta generale sia che di fronte al problema “è meglio lasciare fare al mare e al deserto” nel senso che invece di attivare i corridoi umanitari che permetterebbero alle persone migranti di spostarsi con efficacia e sicurezza, lasciandosi alle spalle guerre, miseria e persecuzioni, si preferisce che affoghino a migliaia o che muoiano di stenti attraversando il Sahara così da non costituire più un fastidio per chi avrebbe il dovere di soccorrerli, aiutarli. In piena logica di genocidio, si lascia fare la decimazione a Madre Natura e per giunta non c’è nemmeno bisogno di utilizzare un qualche potente insetticida e di sbarazzarsi dei corpi.

In fondo, per i governi occidentali è una forma di risparmio. Si perdoni la lugubre ironia, ma la realtà a volte è perfino peggiore. I continui naufragi nel Mediterraneo avvengono sotto gli occhi di tutti; le capitanerie di porto, la guardia costiera e tutti quelli che monitorano il traffico marittimo sanno benissimo cosa sta succedendo e in tempo reale, è chiaro che non intervengono per ordini ben precisi della loro catena di comando che, a volte, arriva direttamente dagli esponenti dei vari governi, ministri e premier in testa. Per l’Italia non c’è bisogno di fare i soliti nomi perchè lo dicono ben chiaro alcuni processi in corso con accuse di sequestro di persona, rifiuto di atti d’ufficio, per esempio, per non aver autorizzato lo sbarco di 147 migranti salvati da sicuro naufragio dalla nave Open Arms.

Proprio nel giorno dell’incontro al Centro Balducci del 17 giugno si contavano 66 dispersi al largo della Calabria e 10 morti sulla spiaggia di Lampedusa. A Trieste si preparava lo sgombero del famigerato Silos senza alcun progetto di accoglienza e di cura per i migranti che vi erano accampati da anni.

Anche questo incontro di riflessione si è svolto come da programma in due parti. Nella prima la raffinata cantautrice genovese Giorgia D’Artizio assieme ai suoi musicisti (Marcon Gabriele, Freddy Frenzy, Camilla Collet, Max Ravanello, Dasy De Benedetti, Caterina De Biagio) ha presentato in concerto “Nomea”, il suo ultimo ispirato progetto musicale work in progress che abbiamo già recensito su questa rivista alla sua prima (Aspetti e atti d’esistenza 08/10/2023).

In questa occasione, è stata particolarmente emozionante l’esecuzione del brano “Terra Madre” cantata assieme al pubblico riunito sotto i due meravigliosi gelsi secolari della corte interna. E’ stato un momento di condivisione e di vera bellezza ritmato dalla batteria e dalla chitarra di Mr. Freddy Frenzy, molto evocativo nella pienezza della speranza che solo l’amore per gli altri possa essere l’orizzonte delle nostre migliori intenzioni. Qualche maligno nella sua xenofobia sarebbe arrivato perfino a dire: “I gelsi sono immigrati arrivati fino a qui dal lontano Oriente per rubare il lavoro dei nostri alberi e nutrire un insetto clandestino” e si perdoni l’ironia un po’ amara.

“Nomea” come ha ricordato la vocalist Dasy De Benedetti, sempre intensa nella sua espressività, è un microcosmo che vive nell’interazione di molti elementi ed è proprio da quella sinergia che trae la propria forza.

Un progetto originale che si prende il rischio di essere anacronistico e fuori dal tempo, proprio per questo merita attenzione

Le musiche sono essenzialmente in levare ma le tessiture ritmiche degli arrangiamenti evocano il funky con qualche goccia di jazz acido che non ubriaca e male non fa, in un’insolita allegria, come dice un brano.

Contiene anche un po’ di caos sonoro per esprimere il disagio, l’angoscia che la nostra società produce e ci fa subire, una free form di sonorità spinte fatta apposta per crearci disturbo, smarginando, uscendo con i colori fuori dalle linee marcate, fuori dai confini come solo la musica sa spingerci.

La struttura del vero e proprio concept è spesso teatrale e quasi circense e racconta di un mondo visto dalla prospettiva di un funambolo lassù in alto in equilibrio sulla fune, come nel brano che evoca “l’umile perso e la pendolare stanca” nella magia di un incontro con l’altro nell’imprevisto quotidiano; a ognuno di noi è capitato, come dice il poeta, di “incontrare uno sguardo con quel minimo ritardo che rende tutto più facile”.

Al concerto è seguito un delizioso rinfresco con le leccornie preparate dagli ospiti e dai volontari del Centro Balducci giusto in tempo per prepararsi alla visione del film “Centootto” di Pravati, Bellasalma, Lipori (Italia, 2021, 50′)

Il mediometraggio in stile documentaristico racconta di uno dei più recenti sequestri di un peschereccio italiano da parte della guardia costiera libica nel canale di Sicilia.

Le rotte tra la Libia e l’Italia attraverso le quali si muovono i migranti ma anche i pescherecci e le navi mercantili sono sotto lo stretto controllo delle milizie di Tripoli o della Cirenaica ufficialmente ancora alle prese con una sanguinosa guerra civile. Sappiamo bene che, in buona sostanza, è una guerra tra bande nella quale alcuni ricchi signori della guerra approfittano del disinteresse o peggio della complicità dell’Occidente per lucrare sul commercio di esseri umani e di armi. A farne le spese a volte ci sono delle persone completamente al di fuori di questi ignobili traffici. E’ il caso dell’equipaggio dei pescherecci di Mazzara del Vallo del film.

Il grande pregio di questo racconto cinematografico è quello di non drammatizzare la vicenda oltre il necessario e di mostrare senza troppi filtri la vita reale e quotidiana di persone che vorrebbero fosse rispettato il loro diritto sacrosanto a guadagnarsi la “Ghiotta” (zuppa povera del pescatore) da mettere sul tavolo per la cena dai propri figli.

La vicenda si srotola tra ricordi, interviste, paesaggi in un clima disteso molto diverso dal solito racconto criminale cronachistico cui i mezzi d’informazione ci hanno purtroppo abituato. Particolarmente intenso e carismatico il ritratto della famiglia di uno dei pescatori sequestrati di origine tunisina, naturalizzati in Italia e di fede mussulmana, fratelli tra fratelli. Commovente la sequenza nella quale si sente il muezzin che invita alla preghiera e la figlia del pescatore che prega in casa rivolta alla Mecca, sola nella sua stanza dopo essersi rivestita con il velo.

Come ha dichiarato Nicola Cristaldi, ex sindaco di Mazzara del Vallo, in una recente intervista a “Europa Today”: “Nella mia città dove i mussulmani sono circa il 20 per cento della popolazione, l’appello del muezzin fa parte ormai della nostra cultura. Chi, come me è cristiano, non si sente offeso dall’appello alla preghiera mussulmana. Sono ben altri i motivi del disturbo alla quiete pubblica”.

La disavventura del peschereccio “Medinea” (MV382) vuole renderci consapevoli del fatto che, al di là delle grandi disquisizioni geopolitiche, certe problematiche riguardano in primo luogo gli affetti, i desideri e le speranze delle persone “comuni” che amano e che lottano per vivere e tornare alla pace delle loro case.

A riflettere in modo corretto sul caso del film ha aiutato moltissimo la testimonianza di Danny Castiglione di “Mediterranea Saving Humans”, più volte capomissione della nave Jonio che soccorre e salva i migranti in difficoltà nel canale di Sicilia. Una persona che, in un mondo più giusto, sarebbe considerato un “Giusto della Storia” come per altro ingiunge la Legge dello Stato n. 212 del 20 dicembre 2017 che celebra coloro “i quali, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno fatto del bene salvando vite umane, battendosi in favore dei diritti umani durante i genocidi, difendendo la dignità della persona, rifiutando di piegarsi ai totalitarismi e alle discriminazioni tra esseri umani”.

Castiglione ha raccontato di quanto successo lo scorso 8 aprile. Mentre stavano recuperando 58 naufraghi, una motovedetta della famigerata guardia costiera libica li ha prima minacciati e poi ha fatto fuoco a scopo intimidatorio come spesso accade.

Se non bastasse questo, la nave, al rientro nel porto di Lampedusa, dopo aver sbarcato i naufraghi, ha subito un fermo giudiziario e una sanzione amministrativo. L’11 aprile il ministro Piantedosi rispondendo ad un’interrogazione in Senato ha fornito una versione dell’accaduto del tutto singolare facendo cadere la responsabilità della sparatoria sull’inerme nave soccorso. Il Ministro adducendo una serie di fatti pretestuosi ha dichiarato testualmente:

“E’ pertanto evidente che la nave privata Mare Jonio non sia mai stata incaricata dalle autorità competenti ad effettuare operazioni di soccorso in argomento all’interno della zona Sar ove si sono svolti i fatti. Della vicenda è stata informata l’autorità giudiziaria. La condotta appena descritta ha determinato l’applicazione delle sanzioni previste dal decreto legge 1 del 2023 e il consequenziale fermo della Mare Jonio”.

“Io sono Marzio e lui è Filippo vi suoniamo un po’ di musica e buon ascolto” è cominciato così l’ultimo incontro il giorno 27 di Giugno Migrante 2024 nella consueta condivisione di un momento musicale. E’ indubitabile che la musica possa avere un influsso assolutamente positivo su di noi e costituire lo strumento ideale per rendere più armonici i rapporti interpersonali. Funziona nelle piccole situazioni, ma può essere decisiva anche davanti alle problematiche più complesse. Perchè non sembri un discorso astratto e campato in aria, caliamolo nella realtà del territorio della città di Udine. Da anni è in corso una progressiva militarizzazione della città in un clima di cupo proibizionismo per motivi di sicurezza che ha portato anche nel pieno centro cittadino alla presenza continua di blindati dell’esercito con militari armati con equipaggiamento da guerra, che si sono sommati alle continue pattuglie di polizia, carabinieri, vigili urbani e, chi più ne ha più ne metta, “gorilla” di agenzie private di sicurezza per far rispettare il decoro urbano, quasi una contraddizione in termini. I quartieri più incriminati naturalmente sono quelli più multietnici di Borgo Stazione e Aurora, ritenuti veri e propri ghetti contro i quali si continuano a esercitare provvedimenti amministrativi discriminatori e apertamente xenofobi fino ad una sorta di coprifuoco con la solita, pretestuosa scusa delle minacce all’ordine pubblico.

Per rispondere a questo delirio repressivo le associazioni di quartiere hanno organizzato di recente due fine settimana di festeggiamenti per le strade dei quartieri con grande partecipazione degli abitanti.

Dal 5 al 7 luglio nel quartiere Di Giusto Aurora si è tenuta una festa popolare autogestita tra sport e inclusione con un torneo di calcio tra i giovanissimi della zona, proposte musicali e chioschi con cibi succulenti. A chi considera quel quartiere tradizionalmente disagiato si è risposto con il sorriso di tanti bambini felici che giocavano tutti insieme.

Il 27 luglio è stata la giornata di “Borgo Mondo”, un grande successo di pubblico, in pace e condivisione con le persone residenti nei pressi della stazione ferroviaria di Udine e le tante comunità e associazioni che hanno portato per le strade i loro banchetti stracolmi di delizie culinarie etniche, oggettistica e soprattutto tanta allegria, musica e voglia di stare insieme.

La militarizzazione dei quartieri non risolve assolutamente niente. La vera risposta ai problemi della città sono i momenti di aggregazione e condivisione negli spazi di libertà nei quali i cittadini possano guardarsi negli occhi, conoscersi, confrontarsi e discutere senza paure indotte, sospetti e diffidenza.

Uno di questi luoghi è certamente il Centro d’Accoglienza Balducci, per questo è il caso di ritornare all’ultimo incontro di Giugno Migrante cui accennavamo più sopra.

La chitarra di Filippo Ieraci è sempre sognante ed ha la capacità di creare atmosfere sospese in qualunque situazione già ai primi accordi, l’interazione con il contrabbasso di Marzio Tomada è immediata, improvvisata e spontanea. Il brano che ha aperto l’esibizione “Low Rider” dal primo album del chitarrista ha trasportato immediatamente tutti i presenti lungo le strade dell’estate in cerca di ampi orizzonti, spazi liquidi e luce solare.

Marzio Tomada sa essere istintivo, irruento e quasi sgraziato nell’approccio al proprio strumento con le corde che spesso battono sulla tastiera ma, in realtà, regala tutta una serie di meravigliose emozioni che un certo accademismo esecutivo escludono a priori.

Marzio e Filippo si conoscono dai tempi del conservatorio. Come hanno detto: “Per suonare è necessario iniziare bene e finire bene, quello che c’è in mezzo è tutta fantasia” e di certo ne hanno da vendere.

Oltre alle necessarie “affinità elettive” condividono una grande passione per i Beatles, Marzio dice che ha cominciato a suonare il basso proprio perchè affascinato dall’arte di Paul McCartney, universalmente considerato un maestro assoluto di quello strumento.

Per loro stessa ammissione, non avevano fatto prove per la serata e non sono abituati a suonare insieme, proprio per questo quello che hanno saputo creare nel breve spazio della loro esibizione è stata magia pura, vera e propria espressione di talento e passione.

Pochi minuti prima del concerto, si erano messi d’accordo su quale scaletta eseguire con gli spartiti sparsi sopra il cofano delle loro auto nel parcheggio. Tutto perciò è stato suonato all’impronta, ad orecchio, inseguendosi l’un l’altro sull’onda delle emozioni fino al porto sicuro del cuore. Nessuno sa di preciso cosa sia il jazz, ma una situazione di alchemiche armonie come questa lo fa intuire chiaramente.

La serata è proseguita con la proiezione del celebre e doloroso “Io Capitano” di Matteo Garrone alla presenza di Mamadou Kouassi che ha ispirato e collaborato alla sceneggiatura e alla realizzazione del lungometraggio candidato agli Oscar 2024 e premiato con il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia. Dopo i sentiti applausi del pubblico, alcune riflessioni hanno contestualizzato la vicenda se mai ce ne fosse stato bisogno. Particolarmente incisivi gli interventi di Gianfranco Schiavone, presidente dell’ICS – Consorzio Italiano di Solidarietà, ospite di riguardo della serata.

Riprendiamo un suo editoriale pubblicato su Unità.it il 20 giugno 2024 che meglio di tante altre parole può riassumere la drammatica situazione nella quale ci troviamo:

Nella prefazione a “Chiusi dentro. I campi di confinamento dell’Europa del XXI secolo”, Livio Pepino scrive: – Il concetto chiave per definire le politiche migratorie è racchiuso in un termine, solo all’apparenza opposto a quello che dà il titolo a questo volume: “fuori”. È questo il non luogo dove devono stare i migranti -.

C’è un mantra che percorre l’Unione Europea, un accordo ferreo che unisce, senza eccezioni, gli Stati che la compongono. Divisi su (quasi) tutto, essi si ritrovano su un punto: limitare al massimo gli ingressi di migranti nel territorio dell’Unione, chiudere e presidiare le frontiere. Alcune eccezioni, come quella dell’accoglienza degli ucraini in fuga dalla guerra, non fanno, con la loro unicità, che confermare la regola. Variano le modalità operative (più o meno stringenti e vessatorie) ma l’assunto non viene messo in dubbio: possono, e ancor più potranno, circolare le merci (salvo qualche balzello imposto dai nazionalisti più impenitenti), ma quel che vale per loro non vale per le persone. Le conseguenze sono drammatiche, come descritto nelle pagine che seguono. A tale descrizione può essere utile far precedere, come inquadramento generale, alcune considerazioni. Il concetto chiave per definire le politiche migratorie è racchiuso in un termine, solo all’apparenza opposto a quello che dà il titolo a questo volume: “fuori”. È questo il non luogo dove devono stare i migranti, ridotti a non persone: un territorio privo (in linea di principio) di riferimenti spaziali, non importa dove collocato, purché lontano e invisibile ai nostri occhi. Ed è un non luogo presidiato da divieti, muri, respingimenti, riammissioni e, a rinforzo, da luoghi – questi sì definiti – di contenimento, collocati oltre i confini (“fuori” appunto) o, comunque, funzionali all’allontanamento. Siamo di fronte al disprezzo, all’annientamento dei corpi dei migranti, da rendere invisibili. Come nelle politiche di colonizzazione, in cui i corpi dei colonizzati erano ridotti a cose, in patria o in un “fuori” dove erano deportati come schiavi. Lo strumento di questo annientamento è, oggi, il confine, fatto per disegnare la differenza tra noi e loro, di cui non ci importa né ci interessa nulla”.

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©