Mentre è già stata presentata la prossima edizione che si aprirà il 5 ottobre p.v. con il fantastico western “3 bad Men” di John Ford e l’accompagnamento dell’Orchestra da camera di Pordenone diretta da Timothy Brock, a noi resta il tempo di fare ancora qualche riflessione sulla rassegna dello scorso ottobre.

Fin dalla prima edizione, nel lontano 1982, la rassegna pordenonese si distingue da tutti gli altri festival cinematografici per una sua caratteristica intrinseca che colpisce immediatamente chiunque lo frequenti. Alle Giornate ci si sente a casa e in famiglia, l’accoglienza e la cordialità dello staff è sempre eccellente e non è cambiata per niente in tutti questi anni anche se nel frattempo la manifestazione è cresciuta da evento locale per poche decine di persone a fenomeno globale che porta a Pordenone migliaia di appassionati e studiosi da tutto il mondo. Più di vent’anni fa il critico cinematografico Mark Le Fanu faceva un bilancio sui primi decenni del festival e fortunatamente rispetto ad oggi non c’è da cambiare una virgola.

“C’è da chiedersi da dove venga tutta quella energia, perchè ne serve davvero molta per organizzare eventi di questa portata, così come sono necessarie grandi abilità logistiche per la loro piena riuscita. Prima i film devono essere trovati e selezionati, poi trasportati – e quanti ce ne sono per ogni edizione (molti di più, data la loro brevità, che nei festival di cinema contemporaneo, e per di più, tutti in condizione di particolare fragilità). Deve essere quindi misurata l’esatta durata dei film scelti, per poterli inserire in un calendario sempre organizzato con la massima attenzione. Poi il programma dev’essere stampato, i pianisti contattati, gli sponsor invogliati a continuare nella loro opera di sostegno al festival, gli ospiti invitati e sistemati. Tutto questo implica un grande e paziente lavoro, eppure sembrano relativamente poche le persone che se ne fanno carico. Di fronte alla moltitudine dei partecipanti e alle loro richieste talvolta importune, sarebbe facile per lo staff spazientirsi, ma in tutti questi anni non mi è mai capitato di assistere ad episodi di scortesia. Dubito che noi frequentatori di festival dimostriamo altrettanto rispetto, anche se quell’atteggiamento aggressivo talvolta adottato per poter sopravvivere nei grandi festival, è praticamente assente alle Giornate, dove prevale un’allegra cordialità…alla superba organizzazione del festival fa riscontro il gran numero di frequentatori: certamente le due cose sono collegate”.

(Mark Le Fanu, Le Giornate del cinema muto. Uno sguardo retrospettivo, Griffithiana, la rivista della Cineteca del Friuli Anno XXIV, n°71-2001, pag. 12-14).

Concentriamoci ora su alcune pellicole viste lo scorso ottobre che hanno riservato più di una sorpresa.

Circe la Maga (Circe the Enchantress) di Robert Z. Leonard (Us 1924, 66′) incompleto

A lungo considerato perduto, da quando è stato ritrovato incompleto è oggetto di continui studi e scoperte. Per esempio, la protagonista Mae Murray, in una celebre scena del film, balla accompagnata da quella che appare senza dubbio come una vera jazz band d’epoca.

Nessuno però ne aveva individuato con sicurezza i musicisti fino a questa edizione delle Giornate grazie alle quali è stato possibile dire con certezza che si tratta di Buster Wilson (pianoforte) Clarence Williams (contrabbasso) Ben Borders (batteria) Jesse Smith (sax tenore) e probabilmente, Wade Whaley (sax soprano).

A qualcuno potranno sembrare dettagli da iper-cinefili, ma in realtà la storia del cinema e della musica passano anche di qui.

Nel film, la Murray, bellissima maga e maliarda, con le sue seduzioni, trasforma gli uomini in maiali come i compagni di Ulisse. Il film rappresenta il mito greco, con i maiali che grufolano, per poi arrivare al presente.

La didascalia spiega che anche oggi esistono donne del genere che trasformano debosciati, nullafacenti e parassiti dell’alta società nei porci che sono davvero.

Alcune sequenze mostrano una delle cene eleganti a casa della moderna Circe dove “riccastri” con le loro eteree gozzovigliano lascivi tra volute di fumo e champagne. Lei, sempre stupenda, inavvicinabile e algida, si prende gioco di tutti i pretendenti facendoli cadere ai suoi piedi, illudendoli per poi non concedersi mai. E’ un gioco di società al quale solo qualche sprovveduto finisce per credere davvero, pagandone a caro prezzo le terribili conseguenze.

Mae Murray interpreta magnificamente una delle tante vamp dalla crudeltà transilvana, così in voga nel cinema dell’epoca. Per umiliarli davanti a tutti spinge i propri spasimanti perfino a sguazzare nella piscina con fontana della sua villa.

E’ molto fiera del proprio potere sui maiali-umani, gode nell’umiliarli e forse loro provano altrettanto piacere nel grufolare ai suoi piedi. Capricciosa, bizzosa, insoddisfatta e crudele, lo diventa ancor di più nei confronti di un dottorino che la evita e quasi la respinge per paura delle sue arti “magiche” di ammaliatrice.

Nel film si alternano i vecchi ricordi dell’infanzia povera e violata della protagonista, alle crapule del presente. Lei cerca di dimenticare le violenze e gli stenti subiti quando era ragazza.

Assolutamente eccezionale la sequenza di ballo con l’orchestra jazz in primo piano di cui già dicevamo. Il batterista con le spazzole indiavolato e il sax soprano, lei scatenata e irrefrenabile en travesti con bombetta e bastone. Il dottorino geloso la vorrebbe per se, ma lei è annoiata e ubriaca.

Gli ospiti giocano d’azzardo e a dadi cifre spropositate. Il sassofonista nero è tentato di scommettere i suoi pochi dollari, arriva un riccastro che scommette mille dollari e lui si dispera perchè le cifre delle scommesse continuano a salire e lui inevitabilmente perde sempre, tanto non paga mai.

Lei si gioca anche la casa, la fortuna è solo una bolla di sapone appena tirata che il vento fa scoppiare; dalla rabbia si ferisce a sangue con un bicchiere rotto. Il dottorino la cura. Gli uomini per lei si picchiano, sparano, ammazzano, tradiscono. “Che colpa ne ho io se sono fatta così”, fa intenzionalmente appello ai loro più bassi istinti. Le donne del suo genere rovinano tutto quello che toccano; cosa vuole saperne dell’amore che non è una cosa per persone così superficiali.

Lei sembra pentirsi per amore del dottore. Lui se la sogna come una dea greca danzante tra l’erba e i fiori. Dopo una notte di tormenti decide di cambiare vita e farsi finalmente monaca nel convento di Sant’Agata a New Orleans.

Sentiva la vocazione anche quando era ragazza, ma pur nel suo abito e nelle sue preghiere di novizia non riesce a dimenticare l’amore. Si occupa delle bambine dell’asilo. Per salvarne una finisce sotto l’auto e in seguito rimane paralizzata. Viene operata e con un miracolo e per amore sempre del dottorino, riprede a camminare. L’amore vince, ma il film non si conclude. Nel futuro forse emergeranno i frammenti mancanti altrimenti non ci resta che immaginarli.

Die Strasse di Karl Grune (1923)

Classico film della Germania di Weimar che risente del clima cupo e minaccioso che preludeva allo spaventoso baratro del nazismo e della II Guerra Mondiale.

Ha un’ambientazione del tutto urbana nella quale la città viene rappresentata come luogo pericoloso, seduttivo e tentacolare dove si può perdere se stessi e la propria anima. Lo stile di ripresa e montaggio si indirizzava verso un cinema come storia d’immagini, per questo meno didascalie e racconto scritto e molte più situazioni di montaggio narrativo.

Le suggestioni artistiche provengono anche dai due stretti collaboratori del regista, il pittore espressionista Ludwig Meider e l’illustratore Erich Godal che firmarono il manifesto e le scenografie del film in stile tardo-espressionista. Grande attenzione è dedicata anche alle insegne pubblicitarie al neon, novità dell’epoca di ogni sorta e forma che spesso sottolineano l’azione quasi fossero dei bizzarri animali notturni appollaiati fuori dagli edifici.

Quando il racconto si sposta in interni si vede il protagonista: un uomo annoiato, steso sul divano mentre la moglie si affanna in cucina; una scena di quotidiana vita familiare proletaria nella quale ormai le ore sono spese con lentezza senza nessuno scopo, solamente in attesa della falce della trista signora.

Le ombre sul soffitto sembrano mostruosi, inquietanti ricordi; oltre la finestra vive la frenetica città con il suo traffico e i suoi divertimenti. Si vedono un pagliaccio, una donna, un organetto che suona, confusi in un montaggio nervoso di immagini iper-dinamiche.

La moglie guardando vede solamente traffico e disordine, ma lui sogna e rimpiange fantasiose avventure e gozzoviglie. Ad un certo punto non può più resistere ed esce lasciandola scornata e scontenta davanti alla zuppa appena scodellata. È un’immagine di una tristezza unica.

Lui felice si immerge nel caos vivificante della metropoli, tutta vizio e illusione, una donna che gli sembra attraente, in realtà ha la faccia di un teschio.

La moglie rassegnata, rimasta sola in casa, ripone la zuppa e riassetta ciò che lo è già, lui vaga in cerca di avventura.

A questo punto il film ci presenta un’altra storia che viene narrata parallelamente alla prima e con la quale finisce tragicamente per intersecarsi. Nell’appartamento di fianco a quello dei due coniugi, il nonno cieco sta con la nipotina mentre il papà se ne esce, con un complice, in cerca di guai e di polli da spennare visto che è un truffatore. Individua il primo personaggio che non teme di mostrare i propri soldi in pubblico per strada.

Un’adescatrice approccia l’ingenuo protagonista dicendogli che le hanno rubato il borsello, lui da prode cittadino fa per accompagnarla dalla polizia, ma in realtà vuole concupirla e lei lo ha capito benissimo.

Intanto il vecchio e la piccolina si aggirano per le miserrime vie della città per inseguire il loro cagnolino scappato di casa. La piccola finisce sola e abbandonata al centro del grande traffico. Un vigile se ne accorge e ferma tutto, la riaccompagna sul marciapiede e poi alla stazione di polizia. Il traffico riprende come una bolgia infernale, ad essere rimasto davvero solo sul marciapiede adesso è il vecchio cieco.

Intanto il maritino cerca di approcciare una prostituta su di una panchina ma è disturbato e non riesce nel suo intento.

Un vecchio riccastro volgare si reca in un locale da ballo con spettacolini lascivi e donnine d’ogni categoria.

Anche il nostro protagonista finisce al locale inseguendo la prostituta. Per un attimo si ricorda di essere un buon padre di famiglia ed esita ad entrare, ma poi si lascia facilmente convincere dai propri desideri, tanto a lungo repressi.

E’ il tipico locale da ballo d’epoca: pista in basso e orchestrina sul soppalco. La musica e il luogo gli fanno letteralmente girare la testa, le immagini ruotano vorticosamente a significare il suo stordimento. Intanto la scaltra seduttrice si trucca e continua a tessere la sua trappola di mantide nella quale lui è destinato a cadere. Il suo ruffiano e un amico gli tengono bordone e lui nemmeno se ne accorge, anche il vecchio sporcaccione è destinato a rimanere gabbato nel locale. Loro non se ne accorgono o non vogliono, forse preferiscono così pur di non restare soli nella loro vita anonima e insignificante. Nella fede nuziale vedono l’antico amore cui la loro indolenza ha rinunciato.

Un gendarme riporta la bambinetta a casa ma il nonno cieco non c’è, è una vicina di casa che l’accudisce mentre il padre scriteriato e pappone continua a gozzovigliare al night a spese dei due babbei. La sala da ballo per quelli come loro è un’autentica trappola, finiscono perfino per litigare tra loro a causa della donnina.

I ruffiani ne approfittano convincendo il vecchio a giocare a carte per spennarlo ancora meglio, ci cascano tutti anche il vecchio. Nel frattempo, qualcuno riaccompagna a casa il vecchio cieco che per fortuna ritrova la piccola. Con grande scorno degli altri il vecchio è un fenomeno a carte e vince fino all’ultimo centesimo anche sui bari, lasciando il padre che si è giocato perfino la fede, senza niente. La partita a Chemin de fer prosegue e lui recupera.

Lascia il gioco, ma i ruffiani lo seguono per le vie della città nel pieno della notte. La sporcacciona se ne va con il vecchio che l’accompagna a casa con chiare intenzioni; lei furbissima fa salire nel suo squallido tugurio anche il suo compare.

Ad un certo punto, nell’appartamento in combutta con la prostituta, irrompono i due ruffiani; il vecchio estrae la pistola e si prende una coltellata. Si intersecano proprio qui le due narrazioni, infatti, la tresca e l’assassinio si svolgono in una delle stanze dell’appartamento dove abita la bambina, l’assassino è proprio suo padre che la piccola sconvolta finisce per seguire in strada mentre scappa con gli altri manigoldi.

Il buon padre di famiglia, invece, rimasto solo in casa con il vecchio cieco viene accusato dell’omicidio del vecchio satiro da un poliziotto che ha nuovamente “ripescato” la bambina in strada.

Il buon uomo incarcerato ingiustamente sta per impiccarsi alla grata in cella, ma viene salvato all’ultimo istante perchè la verità è venuta a galla. La prostituta che si scopre essere la madre della piccola bambina e il pappone che è il padre avevano attirato i due gonzi per rapinarli ed era finita male come abbiamo detto.

Il film molto moralista è ambientato tutto in una notte e finisce alle prime luci dell’alba nella città vuota che non si è ancora risvegliata; per le strade si vedono solo vecchi giornali che svolazzano nell’aria che non interessano più a nessuno, come dice quella canzone: “Who wants yesterdays papers? Who wants yesterday’s girl? Who wants yesterday’s papers? Nobody in the world”.

Il buon uomo torna a casetta propria, mesto, umiliato e sconsolato, la moglie fedele lo ha aspettato tutta la notte addormentata sul tavolo. Lei che non sa ma immagina rimette in tavola la minestra che aveva serbato e si riconciliano.

9 ½ a cura di Anna Briggs, Michele Manzolini, Mirco Santi, (Italia 2022)

Nel 1923 la Pellicola in formato 9 1/2 permise la commercializzazione della Cinecamera amatoriale Pathé Baby e del proiettore Pathé Lux per la fruizione casalinga delle pellicole. Così le Giornate hanno pensato di proiettare un montaggio di ingenui filmini di famiglia senza troppe pretese di professionalità ma con tanto “cuore” da tutto il mondo dal 1923 al 1960.

La didascalia delle prime immagini pubblicitarie della cinepresa portatile recitava: “Diventate tutti cineasti grazie alla camera prise de vues pathé baby e avrete dei ricordi vividi, viventi e indimenticabili, come quelli che vedremo su questo schermo”.

“Documentare” il proprio quotidiano e la vita familiare è stata una rivoluzione sociale e culturale, vera e propria che continua tutt’ora con l’immensa quantità di materiali filmici presenti nei nostri smartphone e on line. Oggi ci sembra quasi impensabile affidarci solamente alla memoria per gestire un ricordo, ogni momento della nostra giornata è immortalato, ripreso e, in fondo, condannato a durare per sempre. Naturalmente non è sempre stato così, la tecnologia ce lo ha permesso e gli effetti sono controversi. Molto interessante è anche vedere come ha avuto origine, si è evoluto e imposto nel corso dei decenni un certo tipo di linguaggio visivo che ormai abbiamo del tutto introiettato.

E’ questo ormai un autentico genere cinematografico e in tutto il mondo sono presenti archivi che preservano, restaurano e rendono accessibile l’immenso patrimonio di immagini che i privati concedono loro. Alcuni di questi lavori raggiungono spesso anche le sale cinematografiche o le piattaforme streaming. Viene in mente il recente mediometraggio della premio nobel per la letteratura Annie Ernaux “Les Années-Super 8” che racconta un lungo periodo della sua vita familiare, tra gioie e dolori, attraverso un montaggio delle sue personali pellicole in Super 8.

Nel film delle Giornate, sono stati montati, a cura dell’Archivio Nazionale del Film di Famiglia di Bologna, 41 cortometraggi tutti di grande interesse per la diffusione della “civiltà dell’immagine in movimento”. Le storie di instagram, in effetti, sono solo un’evoluzione di questo concetto.

Il numero 9 1/2 presente nel titolo è di certo riferito al formato della pellicola, ma anche un simbolico omaggio al genio di Fellini di 8 1/2.

Le prime immagini del film sono quelle di una famigliola che sta provando la nuova macchina da presa in casa. In realtà, come si realizza dopo poco, la scenetta è il risultato delle riprese di un’altra camera di un familiare e un altro ancora ha filmato tutti insieme che si guardano, alla fine, il filmino della prova con il proiettore sullo schermo in salotto. Era già metacinema e probabilmente la famigliola di cineasti in erba se ne rendeva perfettamente conto.

A volte, invece, sono solo dei goffi tentativi d’imitazione di filmati professionali, ma sono tutti animati da un autentico desiderio di documentare l’emozione di un viaggio, un ricordo, il tempo che passa e condividerlo. Sono finestre, come sono i nostri stessi occhi, attraverso le quali la realtà si vede attraverso miliardi di prospettive diverse.

Guardando queste sequenze ci si sorprende a spiare istanti che sembrano autentici e che l’occhio meccanico ha saputo cogliere al di là di ogni verosimiglianza: ragazzini che pattinano su ghiaccio spinti da una vela improvvisata, un bambino che non sorride tanto all’occhio della cinepresa, ma al papà che la tiene in mano. Oggi forse sarebbe il contrario.

Ci sono Margaret che ride, Vera che tiene il broncio e poi ancora tante immagini con primi piani di nonne, zie, cugini in un ritratto borghese di molte famiglie nei loro interni. In uno di questi le didascalie sono scritte con il gesso su di una lavagnetta che viene inquadrata al momento opportuno, un bel trucco, semplice ed efficace.

A tavola, in camera da letto, in cucina, in giardino per le vie della città a zonzo per i campi ovunque ci sia la vita, un fotogramma è in grado di regalare la felicità, lo scopo di quel momento è solo conservare un ricordo, bloccare l’attimo che vale esclusivamente per coloro che lo hanno vissuto, ma dal quale alla fine ci sentiamo coinvolti.

Non importa se sono dei bambini giapponesi che sbucciano un’arancia sotto gli occhi del nonno o l’orizzonte dei flutti marini ripreso da un traghetto tra le isole dei mari del nord, povere imbarcazioni sul fiume Giallo o le gondole nei canali di Venezia, monaci che suonano il flauto sotto i ciliegi in fiore o la risacca su di una spiaggia del Mediterraneo; ogni singola immagine ci fa intuire e sospirare la meravigliosa straziante bellezza del creato.

Quelle sequenze sanno anche farci riflettere sull’intima bellezza della banalità del nostro quotidiano, come un ballo indiavolato scomposto o un valzer tenendo ferma una mela tra le due fronti, qualche esperimento artistico alla Man Ray con i bicchiere da cucina, giocando con i riflessi, le forme e le ombre.

Ci fa ridere qualche candido e fiducioso accostamento surrealista tra il lavaggio dei panni, il fritto di cucina e la pendola in soggiorno e l’uso della stop motion che da vita a pupazzi orientali e soldatini, fuochi d’artificio sul terrazzo a capodanno tra girandole e sorrisi fino all’incendio delle sterpaglie attorno a casa.

Almeno un cenno merita anche l’ottima colonna sonora tra minimalismo e raffinata elettronica eseguita dal vivo dai compositori e musicisti del corso di composizione per il cinema diretto dal Maestro Simonluca Laitempergher.

Arrivederci alla Giornate del Cinema Muto di Pordenone, edizione 43 tra il 5 e il 12 ottobre 2024.

Flaviano Bosco per instArt 2024 ©