Il più grande pregio della kermesse sul cinema orientale di Udine è, fin dalla prima edizione, fornire agli appassionati un ventaglio quanto più ampio possibile su quelle cinematografie con discernimento ma senza pregiudizi di sorta.
Per grande fortuna degli spettatori non è mai stata contemplata alcuna forma di spocchioso intellettualismo, in cartellone trovano sempre posto i classici d’autore così come i film di cassetta più commerciali, i blockbuster milionari così come le produzioni indipendenti, o ancora gli sparatutto fracassoni accanto alle commedie romantiche, agli horror più disturbanti o alle pellicole soft-core più conturbanti e seducenti.
In questo modo, anche i cinefili più ossessivi e ossificati nel loro elitarismo sono quasi costretti ad uscire dalla loro comfort zone e gustare “pietanze” che normalmente avrebbero persino vergogna di approcciare, e al contrario, anche gli spettatori occasionali possono provare un’esperienza visiva insolita.
Nelle poltroncine del Teatro Nuovo Giovanni da Udine o in quelle stilose di Sonego del Visionario trovano così posto, gli uni accanto agli altri, i “giovinastri” nerd K-pop e le signore della buona borghesia cittadina; i ragazzini invasati di Manga e i signori dai radi capelli argentati; i critici delle testate internazionali e gli studenti delle scuole di cinema con la loro aria dinoccolata e borgatara.
Insomma, il Feff è sempre una festa della quale tutti possono godere appieno tra sorprese e meraviglia. E’ chiaro che, in un contesto del genere, emergono spesso anche insanabili contraddizioni e spesso alcuni film diventano incomprensibili per alcuni e allo stesso tempo scontati e banali per altri.
In linea generale, le “pellicole” che vengono presentate a Udine non sono omologabili al mercato italiano che normalmente esclude i prodotti considerati indigesti o poco appetibili e presenta una gamma di varianti limitata alla visione ristretta e spesso provinciale dei distributori del nostro paese che, per non infastidire o disorientare i consumatori potenziali, gli forniscono sempre la solita scodella di sbobba insipida e riscaldata.
Non è certo così al Feff che regala sempre attimi di cinema autentico e non massificato, in grado davvero di mettere lo spettatore occidentale in contatto con culture Altre, facendolo riflettere sulle differenze linguistiche e culturali senza troppe mediazioni.
Capita spesso di deliziarsi ma anche di indignarsi per visioni del mondo che generano perfino repulsione, oppure spavento. Si sono voluti scegliere, in questa occasione, alcuni film della rassegna, in aperta contraddizione tra loro, che rappresentano punti di vista radicalmente diversi da quelli occidentali e che ci spingono a riflettere e a riconsiderare aspetti dell’arte cinematografica e addirittura dell’esistenza che troppo spesso diamo per scontati.
Audition di Miike Takashi (1999) Dice Silvia Gallerano nel suo “La Merda” interpretando una corrosiva e disperata aspirante attrice ad un’audizione: “Vado là e gliela faccio vedere io, chi sono. Si, io vado là, dico la mia battuta, e anche se non mi prendono vuoi che non ci sia qualcuno tipo al bar. Si, qualcuno al bar che non conosce qualcun altro che poi. Si, è così che funziona. Lo so. Entro dentro, nello studio cinque o sei o anche sette e mi sparano le luci in faccia, dico la mia battuta e loro mi dicono può andare signorina, le faremo sapere grazie. E a quel punto li mi gioco tutto, scoppio a piangere…”
In uno delle più intense e significative performance attoriali che si siano viste negli ultimi anni sui palcoscenici italiani, la Gallerano da corpo a tutte le discriminazioni, le umiliazioni, la rabbia, la frustrazione cui è sottoposta una donna in certe situazioni; vittima di pregiudizi, soprusi, e autentiche violenze fisiche e psicologiche; trattata come carne da macello, come una merce sul bancone di un supermercato, come un animale al mercato.
Il medesimo orizzonte è quello esplorato da Miike nel suo inquietante “Audition” del 1999 riproposto al Feff in versione restaurata. Il lungometraggio, che davvero fece epoca al momento della sua uscita, è chirurgicamente diviso in due parti. Nella prima sembra non succedere niente: un uomo di mezza età, che ha perso da qualche anno l’amatissima prima moglie, decide di risposarsi.
Lavorando nel mondo del cinema decide, insieme ad un collega, di fare dei finti provini a delle attrici alle prime armi per scegliere tra loro la più adatta e la più appetibile. Sono esattamente come due bovari al mercato delle vacche, oppure il gatto e la volpe di Collodi, però molto perbene e upper class. La loro, anche se il regista, volutamente e per contrasto, la ritrae come un innocuo gioco di seduzione, è un’azione di violentissimo maschilismo di chi si approfitta della propria presunta autorevolezza e posizione per circuire le “anime belle” e soddisfare i propri lombi.
I due però non hanno però tenuto conto del destino beffardo e crudele che li fa incappare in una specie di “angelo caduto” che ha il solo scopo di vendicarsi di tutte le violenze subite con luciferina perfidia. La trappola finisce per catturare i cacciatori e la preda diventa carnefice in un gioco perverso di una violenza inaudita, una nemesi da cupa tragedia antica.
Raramente si è vista al cinema una tale efferatezza che deflagra improvvisamente nella seconda parte del film e non è certo per i particolari splatter. Al cinema si sono viste immagini ben più cariche di effetti “grandguignoleschi”, perfino Miike ha fatto vedere orrori più espliciti e sadici.
Ma non gli era riuscito mai così bene di penetrare la psiche di un’autentica predatrice, una mantide assassina del tutto amorale che si comporta come uno dei tanti insetti crudeli o come un ragno che tesse la propria tela per poi straziare le proprie malcapitate vittime.
La vera violenza del film, in ogni caso, è quella della prima parte del lungometraggio che sembra così placida e pacificata; sotto le convenzioni della buona società giapponese si celano un intento discriminatorio maschilista e vizi inconfessabili.
Davvero straziante la sequenza finale durante la quale la torturatrice morente che da piccola era stata vittima degli abusi di un pedofilo ripete come una bambola rotta, le frasi che ogni “stupido maschio” vuole sentirsi dire dalle donne che pretende gli si sottomettano per gratificare il suo ego di fallocrate: “Ho aspettato a lungo la tua chiamata…Scusami se sono così infantile…E’ difficile vivere da sola, non ho mai nessuno con cui parlare…Sei il primo a farmi sentire compresa…abbracciami forte, cerca di capirmi”.
Sono parole cui le donne sono costrette, anche solo per convenzione o convenienza, che fanno sentire gli uomini importanti, forti, dominanti, giulivi nella propria tracotanza e sicumera; condannare ed educare le donne ad incarnare lo stereotipo della bambina indifesa da proteggere e violare è il vero orrore che molte società nel mondo continuano a perpetrare impunite.
Scriveva Simone de Beauvoir ne “Il secondo sesso”: “L’ideale dell’uomo medio occidentale è una donna che subisca liberamente la sua egemonia, che non accetti le sue idee senza discuterle, ma finisca per accedere alle sue ragioni, che gli resista con intelligenza per farsi convincere alla fine. Più l’orgoglio maschile diventa ardito, più desidera che l’avventura sia pericolosa: è più bello domare Pentesilea che sposare Cenerentola ossequiente.”
Twelve Days di Aubrey Lam (HK 2021, 89’) proprio a proposito, è stata la proiezione di questo straniante lungometraggio alla presenza dell’attrice protagonista Stephy Tang. Con il suo tubino di paillettes e un sorrisone a 32 denti è salita sul palco per le presentazioni di rito dicendosi, naturalmente, entusiasta del festival, rivelandosi poi davvero pessima davanti alla cinepresa.
E’ stato decisamente blasfemo e insensato dichiarare, come è stato fatto, questo film e il suo precedente, come ispirati da “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman. Tanto stratificato, complesso, profondo e difficile il film del regista svedese, tanto insulso e stracolmo di stereotipi maschilisti e misogini quello della cinese.
La storia riassume, in modo mellifluo e iperglicemico, i dodici giorni fatidici nella storia d’amore di una coppia di cinesi piccolo-borghesi, che in realtà sembrano le stazioni di una via crucis durante la quale una donna viene condannata e crocefissa, quasi inchiodata ai fornelli.
Da ragazzi si amano in modo idilliaco e, in sostanza, si sposano e prendono casa perché non hanno un posto dove fare all’amore. Mano a mano che il tempo passa il lui della situazione rivela la propria vera essenza di “razza padrona” trascurando del tutto la moglie per i suoi sempre più stringenti impegni d’ufficio.
“Se ti annoi possiamo fare un bambino” sembra essere una paventata soluzione messa alla pari con la ricerca di una carta igienica più morbida che non irriti le emorroidi di lui. La moglie fa un tentativo di separazione che sembra destinarla solo verso la solitudine e un inevitabile suicidio, quasi che la regista non contemplasse la possibilità che una donna abbia sempre la possibilità di ricominciare e di trovarsi un’alternativa; tanto che dopo qualche tempo finisce per chinare il capo e tornare dall’ex marito.
In questa prospettiva la donna viene rappresentata come un mero strumento del desiderio maschile, la sua volontà non è tenuta in alcun conto ma scambiata con un benessere economico tanto fasullo quanto insensato e piccolo borghese.
Nel lungometraggio la donna è quella che passa tutto il tempo in cucina a spadellare nell’attesa che ritorni il maritino cui fare le fusa, sopportandone i rimbrotti e subendone i sbrigativi sfoghi genitali.
Seppur la confezione esterna del film è del tutto contemporanea, con un’ottima fotografia e un altrettanto valido montaggio, i contenuti sono davvero oscurantisti e retrivi, cancellando decenni di tentativi d’emancipazione femminile. E’ un film che colpevolizza le donne descrivendole come rassegnate alla loro sottomissione, e per di più, a questo grado di abiezione sembrano perfino anelare per risolvere le complesse dinamiche sociali e relazionali cui sono costrette. “L’amore non esiste, c’è solo l’abitudine” si dice sconsolatamente alla fine del film lasciando lo spettatore a rimuginare sul femminismo e la violenza di genere sempre più diffusa anche nel nostro paese. “Twelwe days” è l’esatto contrario di “Audition” di Miike di cui abbiamo parlato più sopra; con entrambi fa i conti idealmente, “Titane” di Julia Ducournau vincitore della Palma d’Oro al 74°Festival di Cannes.
Caught in Time di Lau Ho-leung (HK 2021, 94’) “Ogni anno la Cina mette a morte più persone rispetto al resto del mondo, anche se la cifra esatta non viene resa pubblica ed è considerata un segreto di stato. Secondo le stime della Dui Hua foundation, un’organizzazione non governativa per i diritti umani con sede negli Stati Uniti, nel 2016, il il paese ha eseguito circa 2000 condanne a morte, ed è probabile che lo stesso numero di esecuzioni si sia registrato nel 2017”(da www.nessunotocchicaino.it
Il serratissimo lungometraggio di Lau Ho-leung, pieno di sequenze d’azione davvero emozionanti, ispirate alla wave di Hong Kong più classica ma anche alla livida violenza dei crime coreani, risulta davvero scioccante per un particolare che a molti può essere passato inosservato. Nella trama si racconta della spietata sfida tra un gruppo criminale che mise a ferro e fuoco la Cina e la polizia che finì per catturarli.
La sceneggiatura è tutta basata su una storia vera ma è anche tradizionalmente crime & punishment che più classica non si può. Da una parte il detective duro ed integerrimo, fedelissimo, liguleo e rigido come un Javert dagli occhi a mandorla; dall’altra i criminali degenerati che non si fanno la minima remora morale a commettere i loro misfatti con tanto di bambini sacrificati e donne straziate dalle lacrime.
Niente di nuovo, insomma, tutto come da copione del genere. La cosa che turba davvero lo scafato spettatore occidentale, non sono tanto gli ammazzamenti, gli inseguimenti, il sangue e le mazzate, si è visto ben di peggio nel cinema “de menare” per non parlare dei vari Z movies exploitation concentrazionari, carcerari e torture oriented.
A lasciare senza fiato è il finale moralistico e brutalmente reazionario nel quale le didascalie esaltano la lungimirante politica di contrasto al crimine della Repubblica Popolare Cinese basata sulla pena di morte.
Si vede il cattivo del caso, ormai carcerato e legato come un salame, condotto sul greto del fiume dagli eroici militi cinesi, fatto inginocchiare e fucilato alle spalle. Grazie ai tanti atti di vera “giustizia” come questo, si dice ancora “la Cina è attualmente il paese più sicuro al mondo”. Tutto questo alla faccia dei diritti umani e in plateale disprezzo di ogni principio umanitario.
Quando pensiamo di vivere nel paradiso della democrazia e della giustizia sociale, comodi nelle poltroncine stilose dei nostri cinema, dovremmo pensare che queste cose succedono in continuazione e sono il vero orrore della nostra società. La Cina non sarà mai abbastanza lontana per lasciarci indifferenti davanti a questi crimini contro l’umanità.
Il Far East Film Festival è un’occasione eccezionale anche per riflettere attraverso il cinema sui grandi dilemmi del nostro tempo, non c’è ombra di dubbio.
A fondamento della moderna civiltà giuridica e dei diritti civili universalmente riconosciuti, le parole di Cesare Beccaria: “Parmi assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.”
(Continua)
Flaviano Bosco – instArt 2022 ©