Penultimo appuntamento di Musica in Villa 2021 in un luogo assolutamente suggestivo che a chi non lo conosce sembra un semplice spazio vuoto in mezzo al paese. Piazza della seta a Bertiolo, ancora in via di sistemazione, è stata ricavata dopo la demolizione dell’edificio centrale della vecchia filanda che diventerà l’agorà del paese, luogo di cultura, d’incontro, di socialità dove prima trovavano posto le allora modernissime macchine automatiche giapponesi per la lavorazione della seta a partire dai bachi, com’era tipico di molte realtà friulane. Alcuni imprenditori lombardi avevano deciso di stabilire il loro stabilimento proprio a Bertiolo anche perché era nota la solerzia e la dedizione degli operai friulani che chiedevano poco, non protestavano, né scioperavano mai.
Sul sito del comune di Bertiolo una serie di interessanti interviste agli ultimi operai dell’opificio ne ricostruiscono la storia in un’autentica operazione di archeologia industriale. Musica in Villa, attraverso la sua direttrice artistica Gabriella Cecotti, ci fa scoprire da decenni luoghi pieni di fascino, suggestioni e storia che spesso sono dietro l’angolo e che pur appartenendoci non conosciamo a sufficienza. E’ questo il vero senso della locuzione tanto abusata: “valorizzare il territorio” che non deve più essere solo un’astrazione o uno slogan elettorale ma una pratica quotidiana di riappropriazione del nostro abitare la terra in cui viviamo, proprio come il Progetto Integrato Cultura (P.I.C.) ci ha insegnato in tutti questi anni.
Quella di Claudio Cojaniz e del suo quartetto Second Time è un’Africa che non ti aspetti e che ti prende di sorpresa, ti ghermisce e non ti lascia andar via; potrebbe succedere ovunque, è successo in Piazza della seta a Bertiolo in una serata di fine estate con i lampi di un temporale all’orizzonte a ribadire lo stadio terminale della bella stagione e l’approssimarsi della solita routine casa-lavoro-casa. Come dice Carlo H. De’Medici nel suo Gomòria: “L’ora triste del Vespro, l’ora uggiosa in cui pare che la natura s’immobilizzi e trattenga il suo respiro”. Ogni anno, il periodo estivo sembra interminabile con l’afa dei suoi pomeriggi e la noia del suo oziare e poi, puntualmente, finisce troppo presto.
Ma non era il momento dei rimpianti ed era ancora possibile illudersi nel “tempo che restava”. All’imbrunire le aspettative, si sa, sono sempre tante e la musica ci aiuta a sognare e a pensare guidandoci verso i mondi dell’im-possibile.
L’inno Sud Africano con cui Cojaniz e soci hanno aperto il concerto ha una storia davvero significativa e in buona parte tragica, è infatti l’unione di due inni che per quasi un secolo sono stati il simbolo delle atroci condizioni di vita in quel paese. Die Stem van Suid Afrika era l’inno afrikaans dello stato colonialista che praticava la forma più feroce di apartheid.
Nkosì Sikelel’ iAfrika, al contrario era quello dell’African National Congress che ha avuto in Nelson Mandela il suo eroe più luminoso. Il processo di pacificazione nazionale ha portato alla fusione dei due inni in uno nuovo che ora riporta versi in lingua Xhosa, Zulu, Sesotho, Afrikaas e Inglese proprio per simboleggiare il fatto che la nazione è un ordito sottile e ricco, composto da tante trame di diversa origine tutte con eguale diritto di rappresentazione. Più facile a dirlo che a metterlo in pratica ma l’ideale è buono e solo per l’utopia vale la pena di impegnarsi, il resto è della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni esattamente come noi.
L’interpretazione di Cojaniz è altrettanto ricca e variopinta, solenne nella prima parte al pianoforte, quasi istituzionale e poi gioiosa e divertente quando entrano gli altri strumenti in un gioco molto afro-pop di commistioni tra la parte più seriosa e paludata attribuibile alla tradizione occidentale ed europea e quella più disinibita e libera delle radici africane.
Si srotolano poi placidi gli altri brani tratti dal repertorio del quartetto con alcuni preziosi inediti che fanno parte del nuovo album fresco di stampa. Cojaniz giunge alla musica di matrice africana dopo un lungo lavorio alla scoperta delle radici del blues in una rilettura degli standards che ha come baricentro Thelonious Monk anche se il pianismo del friulano è molto meno meditabondo e circolare, preferendo atmosfere più morbide e luminose. Il sound complessivo del quartetto è di certo brillante e stratificato con solo qualche sbilanciamento eccessivo sulle ritmiche che appaiono sovrabbondanti; d’altronde, a pensarci bene, quelli che utilizzano sono tutti strumenti a percussione a parte il contrabbasso che però è per definizione il baricentro ritmico di ogni ensemble.
Molto scenografico ma a volte sul filo del pleonasmo il lavoro di Luca Rizzo e delle sue infinite bizzarre percussioni e “aggeggi” che di certo sono curiosi ma che non si ha proprio il tempo di apprezzare, tanto si accavallano tra loro in una fantasmagoria sonora di tintinnii, fruscii, sfregamenti, richiami d’uccelli, gong, handpan, cembali Tingsha, sonagli andini, Shekere, tamburi e vari idiofoni etnici, tubi corrugati sonori, archetto di violino, spatole, Ocean Wave drum, bonghi, udu nigeriani e molto altro ancora. Come dicono i giovani d’oggi: “Tanta roba!”; al loro replicano i vecchi dicendo: “ Pure troppa”.
Come dimostra Carl Gustav Jung (I simboli e l’interpretazione dei sogni, B.B. 2015), le percussioni e i tamburi africani in particolare possono avere un effetto devastante sulla nostra psiche. Lui stesso lo provò durante un viaggio in Africa cui tanti anni dopo s’ispirò Peter Gabriel per il suo “The Rhythm of the Heat”.
Nonostante tutto questo, il duetto tra il batterista Colussi e Rizzo ad un certo punto del concerto di Bertiolo è stato di grandissima suggestione e del tutto ipnotico. Molto apprezzabili gli interventi del contrabbassista Turchet che con l’archetto faceva cantare le sue corde insistendo soprattutto sui registri più acuti donandogli quasi la voce di un violoncello. Molto efficaci anche i suoi interventi di corde pizzicate, dimenticati per un attimo i furori hard rock del progetto dell’ottimo Bearzatti di cui fa parte, è sembrato classicamente jazz. Come dicevamo, è parso sacrificato e fin troppo essenziale l’ottimo drumming di Luca Colussi, messo in secondo piano dal percussionista e bisognoso forse di una maggiore valorizzazione.
Claudio Cojaniz, pur avendo una grandissima sensibilità e un animo dolcissimo che esprime nelle sue composizioni , non è certo un grande oratore. Così come d’aspetto anche nel parlare appare ruvido, elusivo e di poche parole. Con il suo modo forse un po’ brusco, rivolgendosi al pubblico ha sottolineato la sua incapacità di comprendere l’ingarbugliata, drammatica situazione internazionale degli ultimi tempi (chi potrebbe dire il contrario?) ma dal suo punto di vista d’artista si è detto certo di una sola cosa, è necessario continuare a fare poesia, letteratura e musica.
Anche se nella pratica “non è mai servito a niente” non possiamo farne a meno, è l’unico modo di conservare la nostra umanità provando a sostituire all’assurda crudele cacofonia della nostra cupidigia, l’armonia della pace e della fratellanza. E’ proprio questa l’utopia della musica, in piena evidenza in un progetto come quello di Cojaniz che tiene insieme la memoria delle diaspore africane che è possibile leggere attraverso la storia del blues e del jazz.
Come ogni inno nazionale anche quello Sudafricano, di cui accennavamo all’inizio, è pieno di retorica e di prosopopea con vana ricerca di effetti trionfalistici; ognuno, allo sventolare del proprio “bandierone”, vuole sentire quel “friccichio” nel cuore che spesso è solo una manifestazione della più bieca ipocrisia e più sconcia ignavia, come diceva il nostro Vate: “E io, che riguardai, vidi una ‘nsegna / che girando correva tanto ratta, / che d’ogne posa mi parea indegna; / e dietro le venia si lunga tratta / di gente, ch’i non avrei creduto / che la morte tanta n’avesse disfatta.” (Inf. III, 52-57). Per una volta però facciamo finta di crederci, dobbiamo farlo perché se perdiamo anche quella volontà allora siamo davvero perduti.
“Dio benedica l’Africa, possa la sua gloria innalzarsi. Ascolta la nostra richiesta, Dio benedici noi, i tuoi figli. Dio, ti chiediamo di proteggere il nostro paese, intervieni e poni fine a tutti i conflitti, proteggici, proteggi il nostro paese, proteggi il Sudafrica, Sudafrica. Dal blu dei nostri cieli, dalle profondità dei nostri oceani, sulle nostre eterne montagne, dove risuona l’eco fra le rocce, risuona il richiamo a unirci, e uniti siamo forti. Lasciaci vivere e combattere per la libertà in Sudafrica, nella nostra terra.”
Flaviano Bosco © instArt