Udin&Jazz 2022 ha continuato a riscoprire con i suoi concerti e i suoi eventi collaterali altri angoli più o meno insoliti dell’estate udinese, forte del suo motto: “Play Jazz, No War!” assolutamente adeguato, visti i tempi.

Uno dei luoghi storici per il jazz della città è per antonomasia il Caffe Caucigh di via Gemona che in questi mesi è ancora più gradevole per le panche e i tavoli messi all’esterno che trasformano i consueti concerti in una meravigliosa festa di paese durante la quale sentire grande musica all’aperto bevendo e mangiando qualcosa in compagnia.

Vi è poi il Giardino Loris Fortuna anch’esso in pieno centro storico, nel quale, nel periodo estivo, si organizzano gradite proiezioni cinematografiche all’aperto.

Armando Battiston duo “Performance on fire” Armando Battiston (tastiere) Daniele Comuzzi (batteria).

È sempre un gran piacere assistere ad una performance di Battiston, pianista poliedrico e di lungo corso che sa essere intimista e allo stesso tempo estroverso e allegro, ultimamente sono doti molto rare.
Dopo qualche brano di riscaldamento il concerto del Caucigh ha preso il volo con “Ines” un seducente brano composto da Battiston che ha sempre una certa considerazione per l’universo femminile come fonte d’ispirazione e non gli si può certo dare torto.

Il pianista di Sesto al Reghena era accompagnato dalla batteria di Daniele Comuzzi, suo compagno di mille avventure, con il quale ha un’intesa straordinaria. Suonava un’enorme tastiera “Nord Stage” a tre livelli più una Melodica che regalava un piacevolissimo effetto Accordeon.

Infatti, il suo brano, molto morbido e ballabile, ricordava le cose migliori del Piazzolla più tardo con una punta di funky che risultava perfettamente in linea con la serata estiva, con le panche del bar in strada e la gran voglia di far festa con la musica e di disimpegno di cui tutti abbiamo assolutamente grande necessità. A ribadire la linea argentina e tangheira della serata, più tardi, Battiston ha per l’appunto, suonato anche la splendida “Oblivion”

Si è passati poi allo splendido “Speak Low” di Kurt Weil, naturalmente rielaborato alla maniera di Battiston, che non ama per nulla la nostalgia e si sente. Ci sarebbe davvero tanto bisogno di parlare con calma ma soprattutto di ascoltare e anche di fare silenzio di tanto in tanto. Come diceva Fellini: “Se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…”.

Udine in questi ultimi mesi sembra un miracolo, si suona ovunque e c’è una gran voglia di starsene all’aperto con qualcosa da bere e un buon sottofondo di note, sembra un paradiso ma a causa di alcuni provvedimenti comunali, lo è solo per qualcuno, per le vie “bene” del centro città e per i suoi “bravi, meritevoli” cittadini.

Nei cosiddetti “quartieri” e soprattutto nell’ingiustamente malfamato e denigrato “borgo stazione”, vige di fatto una situazione di apartheid con strettissimo coprifuoco alle ore 23,00. A quell’ora le serrande devono essere abbassate, tutto deve tacere e chiudere in nome dell’ordine e della pubblica sicurezza mentre a meno di cento metri tutto può continuare come prima.

In via Roma la musica e gli assembramenti disturbano la quiete dei residenti e vengono sanzionati e impediti mentre in centro non sembrano valere i medesimi regolamenti come, per esempio, quello sulla vendita degli alcolici.

Con appena un po’ di spirito di fraternità, comprensione e magari anche “silenzio” tutta Udine potrebbe essere una città che balla e si diverte in sicurezza; ma smettiamola con le polemiche, gli udinesi, come sempre, dimostrano con i fatti di essere molto più avanti e intelligenti dei propri amministratori, godendosi la vita, la musica e qualche buon “taglio” alla faccia di chi li vorrebbe sempre chiusi in casa e musoni.

Il pianista intanto intonava anche con la voce la classica ballad “Moonlight in Vermont”; non era proprio come sentire cantare Frank Sinatra ma si lasciava ascoltare piacevolmente.

Un altro brano a firma Battiston è stato “Libido Walk”, vagamente pop-fusion e allegrotto, come tutto il resto del repertorio della serata, piacevolissimo. Il pianista ha dimostrato per l’ennesima volta la propria straordinaria versatilità, passando dalla vertiginosa complessità di alcuni suoi lavori sperimentali e dadaisti al pianoforte, fino alla musica più divertente e scapigliata che si possa immaginare come quella del Caffè Caucigh, a questo si aggiunga la sua innata simpatia che lo rende ancora più gradevole nel dialogo con il pubblico.

Proseguendo ha suonato “Groovin’ Hight” di Dizzy Gillespie e finalmente si è sentita risuonare la musica del grandissimo trombettista, band leader e compositore sopraffino che, negli ultimi anni è stato davvero troppo trascurato, soprattutto per quanto riguarda la sua musica afro cubana che è ancora tutta da riscoprire, mentre non si vuole pensare nemmeno per un attimo che qualcuno si sia dimenticato tutta la sua rivoluzionaria genialità e importanza per il Be Bop.

Oltre a cantare in modo appropriato, Battiston non disdegna, di tanto in tanto, nemmeno di fare dello “Scat” e dei vocalizzi ritmici arricchendo ancora di più, se è possibile la sua gamma espressiva.

Comuzzi alla batteria gli fornisce sempre un ottimo accompagnamento ritmico, semplice, efficace e mai invadente in atmosfere lounge piacevolissime e mai supponenti.

Il clou della serata è stata l’esecuzione del brano “On Fire” di Michel Camilo da cui il duo prende anche il proprio nome. Battiston dice con riferimento all’arte del fantastico pianista domenicano, che forse nel nostro paese non apprezziamo nel modo adeguato le sonorità del Latin Jazz che ci sembrano sempre un po’ volgari e carnevalesche. Naturalmente, ci sbagliamo di grosso. In Sud America non c’è solo il famigerato Reggaeton ma tutta un autostrada di Jazz che congiunge tutto il continente da L’Havana, Rio de Janeiro, San Paolo e poi giù fino a Buenos Aires e poi ancora e ancora.

Battiston la conosce molto bene e sa percorrerla con le proprie dita a grande velocità tanto che è un vero piacere vederlo sfrecciare e soprattutto sentirlo.

“What is this thing called love” di Cole Porter è un brano divertente che ci pone una domanda talmente complessa da essere inarrivabile, la cui risposta dipende dal fatto che nessuno ci ha mai capito niente dai tempi di Ghilgamesh.

Ad un certo punto Battiston ha avvisato il proprio pubblico che lo avrebbe “perseguitato” ancora con un brano talmente famoso che non lo si suona quasi più ed è un vero peccato; così, dopo qualche accordo, è esplosa in tutto il suo splendore “Georgia on my mind” di Ray Charles ed è stato subito un sogno.

Molti brani ancora hanno deliziato la serata e non si può certo dire che Battiston sia uno che guarda l’orologio, non solo non lo vede, ma non lo tiene minimamente in considerazione. La sua esibizione è stata un fiume in piena, quasi inarrestabile di ben oltre due ore, passate in un battito di ciglia tanto è stato il divertimento da parte del pubblico.

Da ricordare il sentito omaggio al Patron della manifestazione, Giancarlo Velliscig con una splendida interpretazione del grande classico ‘Round Midnight”. Era proprio attorno a mezzanotte” che si è concluso il concerto dopo che Battiston aveva salutato tutti con un ultimo brano di Charlie Haden. Gli spettatori deliziati e “pasciuti” per tanta musica, sopra di se avevano solo il cielo stellato e qualche jet militare che volava altissimo nella notte con il suo carico di morte.

Gli Stati Uniti contro Billie Holiday di Lee Daniels (Usa 2022, 130’)

Pochi film sono riusciti a raccontare e rendere sul grande schermo la magia del jazz e le storie dei musicisti che l’hanno “estratto, lavorato e levigato” dalla cultura afro-americana rendendolo patrimonio prezioso dell’umanità, “The Us. Vs Billie Holiday” non è certo uno di quelli.

Le sequenze iniziali dell’incipit della pellicola mostrano, in un dettaglio di una vecchia foto, i volti sorridenti e soddisfatti di una ventina di uomini bianchi; lo sguardo della macchina da presa lentamente s’allarga e s’abbassa mostrando ciò che giace ai loro piedi. E’ lui il vero protagonista del film. Si chiamava Will Brown e fu linciato durante i disordini razziali di Omaha, Nebraska tra il 28 e il 29 settembre 1919.

Nella foto, oltre ai volti ghignanti dei suoi assassini, si vede il suo corpo carbonizzato mentre ancora arde. Will Brown prima di essere bruciato vivo era stato torturato e mutilato dei genitali.

La didascalia dice: “Nel 1937 un documento concernente il bando del linciaggio degli afro-americani fu finalmente discusso al senato degli Stati Uniti. Non passò.

La fama di Billie Holiday fu dovuta in parte alla sua canzone “Strange Fruit” una descrizione lirica e terrificante di un linciaggio.”

Nello specifico: “Gli alberi del sud danno strani frutti. Sangue sulle foglie e sangue sulle radici. Corpi neri oscillano nella brezza del sud. Strani frutti appesi ai pioppi. Scena pastorale del galante sud. Gli occhi sporgenti e la bocca contorta. Profumo di Magnolia, dolce e fresco. Poi l’improvviso odore di carne bruciata. Ecco un frutto da cogliere per i corvi. Per la pioggia che lo dilavi e il vento lo succhi, per farlo marcire al sole, fino a farlo schiantare dall’albero. Ecco un amaro e strano raccolto.”

Prima dei titoli di coda e dopo una foto che mostra il volto della vera Billie Holiday com’era nei suoi ultimi anni, un’altra didascalia, questa volta su schermo nero a modi explicit forse ancora più spaventoso, dice: “Nel febbraio 2020, la proposta di legge di Emmett Till contro il linciaggio (The Emmett Till Anti-Lynching Act) fu discusso al Senato degli Stati Uniti. Non è ancora passato.”

Le cose davvero considerevoli del film di Lee Daniels sono, in buona sostanza, solo queste, il resto è un mediocre biopic sugli stereotipi del Jazz che non aggiungono e nemmeno tolgono niente alla solita becera narrativa sull’artista complessato e drogato con un magnifico talento sprecato venuto dal nulla.

Anche se, in questo caso, si sfrutta a piene mani la corrente cinematografica “All Black” che va tanto di moda a Hollywood, non si fa altro che confermare, con l’aggiunta di parecchia morbosità, i soliti luoghi comuni sugli afroamericani. Tutto nel film è assolutamente caricaturale a partire dall’interprete principale Andra Day che, nonostante sia stata premiata con un Golden Globe e una nomination all’Oscar, incarna Billie Holiday come ad un ballo in maschera, costantemente sguaiata e sopra le righe. La vera “Lady Day”, anche nei momenti peggiori, aveva un’innata, inarrivabile eleganza e un fascino immortale cui Andra Day non potrà mai aspirare.

Guardando il film, il cuore degli appassionati sanguina anche nel vedere com’è rappresentato uno dei più grandi musicisti della sua epoca e di ogni tempo: Lester “The President” Young detto familiarmente “Prez”, senza il suono del suo sassofono non si parlerebbe nemmeno di Billie Holliday e nemmeno di quei tempi eroici.

Altra pecca gravissima è la reinterpretazione dei capolavori della Holiday con la voce gracchiante di Andra Day che ne fa l’imitazione come in un qualsiasi talent show con arrangiamenti davvero miseri e inadeguati al periodo storico. Anche se, nel corso della pellicola, si citano Bessie Smith, Sister Rosetta Tharpe, un attore interpreta Louis Armstrong, si vedono appesi manifesti di concerti di Duke Ellington, è tutto poco più che decorativo. Paradossalmente, quello che manca al film è proprio il jazz e un’idea, anche vaga, del suo sviluppo, dei suoi contenuti e della sua importanza culturale e sociale.

Tutta la sceneggiatura si concentra su “Strange Fruit” e sulla persecuzione cui fu sottoposta la cantante esclusivamente per quel brano. Si semplifica così brutalmente un’operazione di repressione su larga scala atenata contro i diritti civili degli afro-americani durata decenni che ha coinvolto tutti i vertici delle forze di sicurezza americane e che, a volte, non sembra essere nemmeno conclusa, nell’accanimento da parte del solo Harry Anslinger, capo dell’Ufficio narcotici dell’FBI verso Billie Holliday.

Sia chiaro che la cantante fu davvero perseguitata e subì ogni forma di discriminazione, ma il film non riesce a tematizzarne minimamente le motivazioni e le cause. Certo l’obiettivo è puntato su di lei ma non si alza mai lo sguardo contestualizzando la situazione mostrando, per esempio, come le politiche della ghettizzazione e dell’emarginazione di etnie e classi non siano un’accidente della società americana ma un suo fondamento.

È vero che l’agente infiltrato di colore Jimmy Fletcher (Trevante Rhodes) ad un certo punto riconosce che la guerra contro i narcotici, in realtà, è una battaglia di repressione contro i neri ma tutto finisce in una frase mentre la pellicola arranca nel mostrarci la Holiday che passa il proprio tempo tra eroina, cagnolini, amanti più o meno violenti e infinite chiacchiere sul proprio abbigliamento.

Sui costumi, la scenografia e gli altri interpreti si può solo dire che appaiono fasulli e da serie tv, con il cinema c’entrano poco. Per avere una pietra di paragone, sullo stesso argomento e sullo stesso periodo, basti vedere il magnifico “Bird” di Clint Eastwood (1988) dedicato a Charlie Parker, immenso sassofonista, praticamente coetaneo della Holiday morto pochi anni prima.

Per quanto riguarda, invece, la questione linciaggi si consiglia vivamente la visione di Blackkklansman di Spike Lee (2018) che non fa sconti a nessuno e poi una visita al sito, in continuo aggiornamento, https://lynchinginamerica.eji.org.

La prospettiva del film, la spiega perfettamente una gag, quasi un “easter egg”, nei titoli di coda nella quale si vedono Andra Day/Billie Holiday con un lussuoso abito da sera con lunga gonna e Trevante Rhodes/Jimmy Fletcher che provano a ballare il valzer in una sorta di fasullo backstage. Lei stizzita, più volte gli dice di prestare attenzione ai passi e di non pestarle sempre l’abito Prada fino a quando lui risponde che ai tempi della Holiday, Prada non esisteva ancora.

È una battuta, in fondo, innocua ma detta dopo le didascalie sui linciaggi abbassa di parecchio il tono del film quasi a renderlo, nel suo insieme, una disgustosa trovata di marketing.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©