Ci sono alcune tematiche che ciclicamente ritornano nelle proposte del teatro Miela. Ad esempio, il famoso “instabile” triestino ha sempre dedicato ampio spazio alla musica che -con termine forse restrittivo- spesso viene definita “etnica” ma che più propriamente si fa manifesto di culture e sonorità lontane, diverse da quelle cui siamo abituati. Allo stesso modo ha sempre cercato di mettere in luce quella che nel mondo della musica è purtroppo ancora una minoranza: la figura femminile.
L’ultimo appuntamento del percorso “Miela musicLive” rappresenta un’ottima somma di questi elementi: abbiamo infatti potuto apprezzare tutta l’energia di Dobet Gnahoré, cantante/danzatrice/percussionista di origini ivoriane, in quello che non è stato solo un concerto quanto un vero e proprio spettacolo. Che la forte fisicità e presenza scenica di Dobet sono in grado di trasformare quasi in un rituale, una cerimonia ancestrale da seguire con attenzione.
Non a caso l’artista ivoriana è stata più volte definita “la guerriera”: avvolta in un vestito di pelle nero che ne esalta la fisicità, sembra quasi un personaggio appena uscito da un film ambientato in un lontano futuro post-apocalittico. Perfettamente a suo agio sul palco, ne sfrutta ogni centimetro per trasmettere la propria energia: quando canta, quando si esibisce alle percussioni o quando si scatena in danze dal sapore tipicamente africano. Un’ottima teatralità che continua anche nei gesti e nei movimenti e che Dobet utilizza anche nei momenti quasi rituali in cui is prepara tra un brano e l’altro, quando -su un sottofondo musicale estremamente rarefetto- sposta con gesti lentissimi il calabash (percussione africana ricavata da una zucca svuotata) o quando alza al cielo (quasi per offrirle a un immaginario altare) delle banconote per poi lasciarle cadere una ad una.
Altrettanto d’impatto la sua musica, dalla tinte fortemente tribali ma che sa sfociare con intelligenza in generi a noi più vicini, come alcuni momenti molto rockeggianti (con tanto di assoli alla chitarra elettrica). Senza dimenticare venature elettroniche a volte piuttosto marcate, soprattutto nei brani tratti dal suo ultimo lavoro “Miziki”, uscito quest’anno e di conseguenza molto presente nella scaletta.
Una simile concentrazione di fisicità, potenza, teatralità e impatto scenico può far pensare che anche i testi seguano questa linea e risultino fortemente impegnati e crudi. Ciò però è vero solo in parte: non mancano infatti brani che parlano di mencipazione femminile (“Education”) o di ribellione (“Akissi”). Eppure ciò che traspare maggiormente, ciò che sembra essere per Dobet il fulcro di tutto è l’amore. Come lei stessa ha precisato in molte interviste, più di tutto vorrebe riuscire a trasmettere l’amore per il prossimo, visto come unica cosa che ci può permettere di rimanere umani.
Concetto che inizialmente può cozzare un pò con l’immagine di guerriera “tosta” mostrato sul palco ma che pian piano si rivela quando, dopo un pò di brani, Dobet inizia a prendere confidenza e a dialogare col pubblico, presentando i propri brani e spiegandone il significato. Insomma, nel complesso un bel mix di potenza e sensibilità che brano dopo brano sa conquistare il pubblico e coinvolgerlo sempre più nel “rituale”: prima con un semplice battito di mani, poi trasformando la platea in coro durante i ritornelli e infine chimando sul palco alcune spettatrici per dei duetti di danza improvvisati. E chi conosce la proverbiale (e piuttosto azzeccata) freddezza delle platee triestine sa quanto questo rappresenti un enorme successo.
©Luca Valenta / Instart