Nel 1989 crollò il muro di Berlino, famoso e famigerato baricentro della cortina di ferro che ha lasciato le sue cicatrici profonde nel cuore di tutti gli europei che non smettono di sanguinare per questo e per altro. Contemporaneamente a Trieste si spalancavano gli occhi attenti di un festival dedicato alla cinematografia della vecchia e nuova Europa dell’Est che ha fatto dell’abbattimento dei confini la propria bandiera e vessillo. Un continente intero appariva allora misterioso, seducente e impenetrabile.

Un mondo di grande complessità culturale che aveva fame di cinema e voglia di rappresentarsi e di essere visto, di guardare a se stesso in modo del tutto nuovo rispetto alla grande tradizione che già possedeva. Naturalmente, la cinematografia di quelli che, per semplificare, definiamo “paesi dell’est” oppure, con un pizzico di snobismo retrò “Oltrecortina”, non cominciava con il finire dei regimi comunisti o con il dissolversi della grande Unione Sovietica anzi aveva una piena maturità ben prima della rivoluzione d’Ottobre, possedeva radici molto profonde ed estese con opere d’arte immortali (Eisenstein, Vertov, ecc) Ma i tempi erano decisamente cambiati e il cinema con loro.

Al di fuori della ristretta cerchia degli appassionati, nessuno ne sapeva niente in Occidente e nel nostro paese meno che altrove. Nei circuiti commerciali delle sale cinematografiche che allora dettavano legge, era quasi impensabile vedere quelle pellicole. Fu geniale quindi e di completo azzardo l’idea di un festival su quella nuova realtà in divenire così intrigante.

Arrivati oggi alla 33 edizione cos’è cambiato? A guardare gli ultimi bollettini sugli incassi e sulle presenze nelle sale italiane, la prima cosa che salta agli occhi è che il grande schermo dei cinema tradizionali è ormai lacerato e crollato come il muro di Berlino sotto le picconate delle piattaforme streaming on line.

In realtà, a parte i soliti catastrofismi, la cosa da dire è che la fruizione dell’audiovisivo è decisamente cambiata così come la sua produzione a Oriente come ad Occidente. Nessuna tragedia o rimpianto, è ormai possibilr si tratta solo di prenderne atto. Come dimostra il festival triestino i paesi dell’ex blocco sovietico dimostrano una straordinaria vitalità artistica e sembrano aver affrontato le nuove sfide con grandissimo coraggio e creatività, a vedere le loro nuove produzioni è facilmente comprensibile che se la cinematografia dell’Europa occidentale, già da almeno un decennio arranca alla ricerca di un nuovo orizzonte dopo la morte dei grandi maestri del recente passato, tutt’altro vento soffia da est e a Trieste, città della Bora, si sente davvero un aria nuova frizzante di tramontana.

Prima di passare alla disanima di alcuni film della rassegna che sono sembrati significativi anche se non sono stati premiati dal concorso, per conservare quel minimo di ironia necessaria e non prendersi troppo sul serio con l’umiltà e la lucidità sempre necessarie, si vuole fare un riferimento estemporaneo alle considerazioni di Giorgio Manganelli sulla sostanza delle recensioni:
«Non v’è nulla di più futile della recensione; gesto miserabile, irresponsabile, ritaglio di chiacchiera, gomitolo di inutili aggettivi, di frivoli avverbi, di risibili sentenze. Ma appunto questa fatuità insolente può fare della recensione un ‘genere’ letterario più infimo che minore, una ciancia da angiporti, un berlingare senile; e dunque anche alla recensione può spettare una qualche accoglienza nella disordinata, chiassosa piazza dei mestieri letterari, tra il poema epico e l’epigramma, il sonetto caudato e il capitolo in rima. Diverte pensare l’articolo letterario come imparentato all’Elogio dell’anguilla-pesce nobilmente lubrico – o dell’orinale – oggetto intimo, tristo e irrinunciabile, materia di riso e cruccio. Appunto, un che di ambiguo, di esiguo, di esile ed elusivo, e insieme di futile e povero, e tuttavia costante, una cosa sciocca e inquietante come l’ombra.” (Manganelli, Altre concupiscenze, Adelphi 2022)

Cosparso il capo di cenere possiamo ora chiudere gli occhi e riandare con la memoria alle emozioni che ci hanno regalato alcune pellicole mentre le dita battono sulla tastiera.

Strahihja Banović (As far as I can walk) di Stefan Arsenijević, Rs/Lu/Fr/Bg/Lt 2021, 92 min. L’idea “meravigliosa” nella testa del regista è stata quella di riandare alla tradizione letteraria balcanica e vedere cosa può ancora insegnarci se le sue tematiche vengono paragonate all’attualità più scottante.

Quindi il progetto è stato quello di sostituire gli eroi nazionali dell’epopea cavalleresca serba con migranti africani nel 2016. Il poema medievale serbo cui si è fatto principalmente riferimento (Strahihja Banović) racconta di un eroe che si mette alla “perigliosa” ricerca dell’amata rapita da un brigante turco razziatore di villaggi.

Una mattina Strahinja eroe del poema si svegliò e disse ai propri servi di sellargli il suo migliore cavallo, “Voglio stancare il cavallo e viaggiare lontano.”

Una dimenticabile versione cinematografica di produzione Yugoslava portò già sugli schermi il poema serbo. L’eroe in costume allora fu interpretato dal nostro Franco Nero. Ne “Il Falcone” di Vatroslav Mimica (1982) si racconta che mentre Strahinja è a caccia con il proprio falcone nel medioevo serbo, una banda di briganti turchi capitanata dal terribile Abdulah, assale il villaggio della sua promessa sposa e la rapisce. Tornato dalla caccia il furibondo eroe intraprende un lungo pericoloso inseguimento per salvare la pulzella. Quest’ultima destinata all’harem del sultano, per salvare la pelle si concede per una volta al turco rapitore. Strahinja dopo averlo sconfitto in duello libera la ragazza che gli confessa la notte d’amore estortale. Per la legge avita lui dovrebbe accecarla per punizione ma lui, dal cuore puro come la neve, la perdona. E’ un gesto d’umanità straordinario per quanto riguarda la letteratura medievale che s’inserisce perfettamente nel filone europeo della crisi e scardinamento dei modelli narrativi cortesi.

Nell’attuale Belgrado, Strahinja è un immigrato africano dal Mali che si arrabatta come può vivendo in un misero campo d’accoglienza per migranti con Ababuo la propria compagna del Ghana. Il suo sogno è di ottenere i documenti definitivi e giocare da calciatore professionista in una squadra locale.

Lei, quando tutto sembra andare per il meglio, sparisce con alcuni profughi siriani. Il nostro eroe, promesso calciatore, lascia tutto per mettersi sulle sue tracce. Attraversa gli accampamenti dei disperati che vogliono varcare il confine ungherese per entrare clandestinamente nell’Unione europea, per raggiungere infine l’Inghilterra. Quello che vede è l’abbrutimento e la desolazione cui sono abbandonate tante persone in cerca di speranza e di futuro alle nostre frontiere

Come raccontano, per esempio, anche le cronache, le guardie di frontiera ungheresi praticano letteralmente, la caccia al profugo con fucili e cani.

Strahihja, dopo molte traversie, riesce a ritrovare l’amata in un campo profughi austriaco. Lei però rifiuta di seguirlo e gli dice d’aver bisogno di un’illusione più grande, vuole provare a farcela da sola, non le basta un tetto e di che sfamarsi. Il suo sogno è quello di fare l’attrice in Inghilterra e non la maestrina nel campo profughi serbo, non vuole rinunciare alla propria fantasia, la sua è “necessità di un’illusione”.

Fanno l’amore l’ultima volta nel dormitorio affollato e disumanizzante del campo profughi e poi lei prende la propria strada, sarà più facile ottenere veri documenti d’asilo seguendo i siriani che hanno la priorità sui profughi economici come gli africani.

Strahihja la denuncia alle autorità del campo e potrebbe, in un attimo, far svanire tutte le sue speranze ma poi ci ripensa e la disconosce in modo che lei se ne possa andare libera. Si condanna ad essere di nuovo respinto in Serbia con ancora meno possibilità di prima di ottenere asilo. Quando gli chiedono perché si è complicato la vita in quel modo lui risponde: “Dovevo Farlo!” a volte la nostra dignità di uomini vale molto di più del nostro tornaconto del nostro utile.

Un film di silenzi, crudo in alcuni momenti ma senza enfasi o pietismi, quasi neorealista come impianto generale. Tutto il contrario dello spot tutto droni e prosopopea trionfalistica targato Turismo FVG che seguiva la pellicola. Dopo la cronaca di quello che succede quotidianamente a pochi chilometri dalle nostre frontiere tra il filo spinato, i respingimenti e il ringhiare dei cani, tanta magniloquente pubblicità al nostro territorio è sembrata davvero fuori luogo, sopra le righe e del tutto irrispettosa. Povera Piccola Patria…”Quanti perfetti inutili buffoni, questo paese devastato dal dolore. Ma non vi danno un po’ di dispiacere, quei corpi in terra senza più calore?”

Odpuščanje (Riconciliazione) di Marija Zdar Si/Rs/Me/Rks 2021, 82 min.
“Il Kanun è l’antico codice di faida albanese…La riconciliazione è possibile quando la famiglia della persona uccisa perdona e si rifiuta di prendere vendetta sulla famiglia che ha un debito di sangue. Il processo può iniziare un anno dopo l’omicidio. Preti amici e conoscenti intercedono presso la famiglia della vittima per la riconciliazione del sangue.” Questo è l’incipit del film che ne traccia in soldoni tutto lo sviluppo come la rubrica di una novella medievale.

Le prime immagini mostrano il territorio montuoso, aspro e arcaico del nord del paese delle aquile di una bellezza d’altri tempi. Gli abitanti praticano un’agricoltura molto povera ai limiti della sussistenza com’era nelle zone più miserabili del nostro paese un secolo fa. Piccoli insediamenti, case sparse abbarbicate sui pendii, muri a secco per i terrazzamenti e preghiere al Signore che garantisca un minimo di raccolto. Visi tirati, scarni e rovinati dalla fatica nei campi: “Bambini che il vento ha ridotto già a vecchi”. Il racconto documentaristico del film prende avvio un anno dopo la morte di Gjyste, ragazzina adolescente assassinata a fucilate in un’assurda disputa tra contadini per ragioni di confine.

La famiglia della vittima è al centro del racconto che mette in scena tutti i tentativi che varie personalità locali (prelati, piccoli politicanti, amici, ecc.) fanno per far desistere il pater familias dal prendersi la propria vendetta sull’assassino e su i suoi parenti. La cinepresa spia in modo discreto la disperazione e la rabbia della famiglia, le indecisioni e l’amarezza di un’umanità piagata dalla miseria in un paesaggio ruvido e dolcissimo, propriamente una terra di sangue e miele, incatenata ad una forma di cattolicesimo di stampo medievale in un contesto che non deve essere cambiato molto dai tempi di Scanderbeg. La regista sa cogliere perfettamente nella tragedia, con un’aderenza straordinaria ai fatti, i momenti involontariamente autoironici, grotteschi e surreali. Ad un tratto nella minuscola casupola in mezzo alle colline della famiglia in lutto appare il cardinale della diocesi in perfetto abito talare con tanto di porpora, che percorre le mulattiere con un enorme SUV dicendo che attraverso di lui è dio stesso a parlare ai disgraziati.

Gli viene risposto “Qui la gente è cristiana ma nel profondo del loro cuore risiedono le leggi del Kanun di Lekë Dukagjini” Il condottiero serbo (1410-1481) combattè gli ottomani assieme a Scanderbeg e fissò le lugubri leggi della vendetta balcanica, in buona sostanza, una legge del taglione di stampo pseudo-biblico che ha qualche assonanza con la Carta de Logu del codice della vendetta barbaricina, terribili vendette di “pecorai” che fanno parte delle culture del Mediterraneo fin dai tempi più remoti.

Molte sequenze sono dedicate agli sforzi del Comitato di riconciliazione nazionale che vorrebbe tramutare la povera vittima in una nuova Santa Maria Goretti da far venerare alle folle paganti, nemmeno Fellini forse avrebbe saputo rendere una situazione del genere in modo più vivido e auto-parodistico.

Infine, il pater familias sembra desistere dalla propria sete di vendetta ma il resto della famiglia, specialmente la madre non sembra così convinta che porgere l’altra guancia sia la soluzione migliore.

La regista ha avuto la mano ferma e la grande capacità di descrivere una vicenda al di fuori del tempo e come sospesa in un’eterna arcaicità. Splendida la fotografia e le riprese in esterno.

Techno, Mama di Saulius Baradinskas, Lituania 2021, 18 min. Una madre “castrante” lituana, divorziata e incattivita dal tempo e dalle difficoltà della vita, maltratta i propri figli riducendoli in uno stato di continua frustrazione. A soffrirne maggiormente il primogenito adolescente che assume comportamenti devianti rifugiandosi nel suo sogno fatto di violenta musica techno, droghe e di promiscuità sessuale con un adulto che si approfitta della sua disperazione per divertimento.

Le cose precipitano quando l’algida madre proibisce al ragazzo di andare in viaggio a Berlino capitale della musica che lui adora. Il ragazzo disperato anche da una lunga serie di vessazioni e violenze psicologiche, prende finalmente a schiaffi la genitrice-arpia e poi sconsolato scappa di casa. In una squallida periferia urbana lituana uguale per disperazione a quelle di tutta Europa, una vicenda familiare triste e dolorosa al ritmo ipnotico e lacerante della Thecno. Un piccolo prezioso film che vale un tesoro.

Fidibus (Abracadabra, sparisci) di Klara von Veegh, Austria 2021, 21 min. In modo molto delicato e sofferto la regista austriaca racconta la fuga attraverso boschi e campi di una giovane madre con il proprio bambino. Si capisce essere successo qualcosa di grave anche se la pellicola lo lascia solo intuire. La polizia vuole catturarla perché, forse al culmine di una lite, ha assassinato il marito che la maltrattava. Uno stile caldo e raffinato pervade tutta la pellicola in un gioco di colori tenui e gentili. Proprio emozionante vedere la madre con il suo piccolo nel bosco solitario, sembra emergere qualcosa di ancestrale e sacramentale. Infine, si capisce il perché della precipitosa fuga. La madre voleva consegnare il proprio piccolo alla sorella che vive in aperta campagna, prima di arrendersi alle forze dell’ordine. Pochi minuti di pellicola per un piccolo prezioso, gioiello cinematografico che sa commuovere ed emozionare. (continua)

Flaviano Bosco © instArt