Andata in scena per la prima volta nel 1982 a Londra, “Rumori fuori scena” è certamente una delle commedie teatrali più famose di tutti i tempi. Nel corso di questi quasi quarant’anni ha visto diversi registi e compagnie cimentarsi con i suoi ritmi comici (incluso un adattamento cinematografico nel 1992, tutto sommato dimenticabile), mettendo in scena versioni che pur differendo da un punto di vista puramente scenografico (scene, costumi) hanno quasi sempre approcciato il testo di Michael Frayn con riverenza quasi religiosa, senza particolari rivisitazioni.
Non fa eccezione la versione diretta da Valerio Binasco, regista certamente poliedrico che nella sua carriera ha saputo approcciare stili anche molti diversi tra loro (Dal “Porcile” di Pasolini” all’ “Amleto” di Shakespare per passare per l’Arlecchino di Goldoni, solo per citarne alcuni) e che quindi non manca del gusto e del tatto necessari per approcciare un’opera così già ben definita e piena di un “suo” carattere. Per farlo si è avvalso della compagnia dello Stabile di Torino, che ha saputo ben giocarsi tutto il suo affiatamento per rendere al meglio i tempi comici del testo.
Ma torneremo su tutto questo tra un attimo. Vista la personalità estremamente forte della commedia originale -che Binasco ha approcciato senza grossi cambi- ha infatti senso fare una piccola chiosa in merito ai suoi pregi e difetti, scorporando quindi il testo dalla versione che abbiamo potuto ammirare al Rossetti.
“Rumori fuori scena” è una commedia convincente, con ritmi che funzionano e permettono di intrattenere efficacemente lo spettatore nonostante la durata -davvero ragguardevole- di tre ore. Un aspetto interessante è che la comicità lungo questo tempo muta, mostrandosi in maniera diversa nel corso dei tre atti. Il primo è complessivamente il più brillante, quello che si dimostra più “intelligente” nel suo inserire elementi comici senza esagerare e portare all’esasperazione le situazioni. Tutta la vicenda (l’ultima prova generale degli attori prima di portare in scena il loro spettacolo) risulta ancora molto credibile e le gag comiche sono ben inserite in un contesto in cui i personaggi mostrano sì i loro vizi e virtù ma hanno ancora il controllo di sé stessi.
Nel secondo atto (la messa in scena dello spettacolo ma vista dal backstage) si cambia notevolmente, e dallo stile “sit-com americana” si passa a una comicità più esplicita, con gag più rozze e -complice il fatto che per buona parte dell’atto i personaggi non parlano se non sottovoce, essendo in backstage- più fisica, basata sulla gestualità e sugli oggetti scambiati.
Il terzo atto è quello più surreale: si ritorna a vedere la messa in scena dello spettacolo ma stavolta dopo alcuni mesi, tempi durante il quale diverbi e problemi tra gli attori hanno portato lo spettacolo allo sbando. Alcuni dei personaggi non si interessano nemmeno più della buona riuscita e recitano a caso, mentre gli altri si trovano a dover improvvisare in base ai comportamenti dei colleghi. Peccato che in questa parte si prema molto forte sul pedale della comicità, quasi un po’ troppo, in un fuoco di fila di battute e situazioni -a volte anche un po’ becere, va detto- così affollate da fagocitarsi l’una con l’altra. Si ride comunque di gusto ma è una risata più sguaiata di quella intelligente del primo atto.
Detto ciò, come si comportano Binasco e la compagnia dello Stabile di Torino in tutto questo? Bene, estremamente bene. Il primo atto è un piccolo gioiellino in cui tutto funziona a meraviglia: i personaggi sono credibili e buffi allo stesso tempo, ed è davvero difficile non affezionarsi a tutti loro in quanto ognuno, nessuno escluso, ha un suo momento per brillare. Lo stesso Binasco si mette in gioco come attore (ovviamente nel ruolo del regista) e dalla platea dirige la prova generale con un piglio tra il severo e il genitoriale che fa oscillare continuamente i sentimenti dello spettatore verso di lui. È nei momenti di pausa delle prove che i vari attori/personaggi si confrontano con lui e questo permette di iniziare a capire meglio sia le loro psicologie che i complicati rapporti tra di loro. I vari personaggi sono tutto sommato stereotipati (dall’attricetta dalla mente limitata all’attore che ha bisogno di capire il perché delle cose messe in scena per immedesimarsi, fino a quello in declino ormai vittima dell’alcool) ma è proprio per questo che funzionano e ispirano le simpatie della platea.
Il secondo atto, pur essendo più debole nel testo originale, è probabilmente quello in cui tutto il cast ha brillato maggiormente. Qui la comicità si fa non solo più fisica ma anche più “veloce” (ad esempio per il passaggio continuo e incrociato di diversi oggetti tra gli attori) e corale nei momenti più concitati, in cui diverse “scenette” accadono contemporaneamente tra i personaggi divisi in piccoli gruppi. Il tutto -ricordiamolo- con un uso molto limitato della parola, dovendo gli attori rispettare il silenzio del backstage. Qualcosa che complessivamente può funzionare solo quando l’affiatamento tra i membri della compagnia è davvero altissimo, perché anche un solo sbaglio/rallentamento in uno scambio di una battuta o oggetto può mandare a monte il ritmo dell’atto. Ma state tranquilli: questo non succede e anzi lo spettatore termina l’atto con addosso una sorta di adrenalinica energia dovuta all’escalation di azione visto sul palco.
Come già detto il terzo atto è quello più surreale, con battute a volte piuttosto banali che -a differenza del primo atto- stavolta vengono purtroppo percepite come tali. Il vero punto di forza di questa parte finale sono i comportamenti fortemente estremizzati dei personaggi, divisi tra le manie che li hanno ormai divorati e la lotta per cercare di far fronte a tutti gli imprevisti sul set. Tra questi due fronti, vince nettamente il primo: per quanto siano bravi Andrea Di Casa (Garry), Nicola Pannelli (Frederick), Elena Gigliotti (Belinda) e Fabrizio Contri (Selsdon) nella loro goffaggine di fronte all’inevitabile, a dare lustro al tutto sono soprattutto le altre due donne della compagnia: per prima la “svampita” Francesca Agostini (Brooke Ashton) che per l’intero atto continua a recitare le sue battute in ordine (“a pappagallo”, potremmo dire) incurante di ciò che le accade attorno. Sempre la stessa gag, vero, ma è proprio la sua ripetizione continua “senza se e senza ma” a renderla così esilarante. Ma soprattutto Milvia Marigliano, semplicemente strepitosa nel tratteggiare una Dotty Otley ormai completamente fuori di testa eppure quanto mai verace.
Peccato solo per la poca presenza in questa parte degli altri due protagonisti, Tim Allgood (Ivan Zerbinati) e Giordana Faggiano (Poppy Norton Taylor), che a ben vedere sono i due che maggiormente restituiscono un lato “umano”. Ma in effetti nel terzo atto di umano nei personaggi rimane ben poco, sostituito da un senso da “macchietta” di petroliniana memoria.
Riassumendo, questa nuova versione dell’opera di Frayn funziona? La risposta è senza un dubbio un “sì” convinto, come d’altronde hanno dimostrato le risate della platea durante tutte le tre ore dello spettacolo e il numero di volte in cui il cast è stato richiamato sul palco dagli applausi, alla fine. Risultato davvero notevole per una comicità originariamente dal sapore molto “british” e quindi potenzialmente lontana dalle corde della sensibilità nostrana all’umorismo.
Luca Valenta / ©Instart