Pieno successo anche nella città del Noncello per la ripresa dello spettacolo che ha consacrato l’attore bulgaro-milanese, “errante” per definizione, alla gloria dei palcoscenici italiani.

Una generazione intera di spettatori ha imparato a ridere e a pensare in Yiddish attraverso le interpretazioni di Moni Ovadia proprio a partire da “Oylem Goylem” andato in scena la prima volta tre decadi fa. Da allora la cultura ebraica, che costituisce una delle colonne portanti della nostra identità di italiani e di europei, ha avuto una nuova visibilità.

Il nostro paese ha sempre avuto un problema nei confronti di quella che indiscutibilmente è una radice profonda del nostro essere; è chiaro a tutti il fatto che la religione cattolica abbia storicamente favorito il permanere di un profondo sentimento anti-giudaico nella nostra società, l’accusa di deicidio ha pesato per secoli ed ha creato grandi discriminazioni e favorito un atteggiamento xenofobo e razzista diffuso e persistente che è presente in modo tutt’altro che larvato anche oggi. A poco sono servite le sacrosante scuse e le richieste di perdono per gli orrori passati da parte delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche.

E’ vero che in Italia è sempre stato complicato parlare di antisemitismo, l’opportunismo e l’avidità hanno sempre prevalso sulla “ragion di stato”, tanto che anche oggi i nostalgici del fascismo tubano come tortore con il regime segregazionista di Tel-Aviv mentre misconoscono o apertamente disprezzano i valori più autentici dell’ebraismo e, in qualche caso, del senso di umanità tout court.

L’abbietto luogo comune di: “Italiani brava gente” serve a nascondere le nostre responsabilità presenti e passate nei più spaventosi genocidi dell’ultimo secolo; l’Italia non ha ancora davvero fatto i conti con il proprio passato coloniale, con l’infamia delle leggi razziali, con la pulizia etnica e culturale perpetrata nei Balcani, con la connivenza nell’orrore dell’olocausto degli ebrei e di tutti gli altri innocenti che abbiamo fatto “passare per il camino”.

Non serve nemmeno dire che continuiamo a respingere e negare le nostre enormi responsabilità nello scempio attuale di vite umane che il nostro mancato intervento sulle rotte mediterranee e balcaniche dei migranti sta causando senza che noi ce ne preoccupiamo minimamente.

La nostra falsa coscienza è davvero vergognosa. Probabilmente una buona parte delle persone che affollavano il Verdi di Pordenone per un meritatissimo sold out e che hanno riso a crepapelle per le battute di Ovadia e hanno goduto della musica Klezmer dei suoi eccellenti musicisti considera a volte con malcelato fastidio i migranti che a un centinaio di metri dal teatro affollano la zona dei “kebabbari” che a Pordenone gravita attorno a piazza Risorgimento.

Mentre Moni Ovadia faceva riferimenti più o meno scherzosi alla diaspora ebraica, allo sradicamento degli ebrei dall’est europeo, alla loro scellerata persecuzione e alla tragedia dell’esilio, solo a pochi saranno venuti in mente i tanti pakistani, bengalesi, nord africani ecc. che soffrono nei ghetti delle nostre città o nei campi di “prigionia” (CPR) che allestiamo per loro.

Nella sua lunga carriera di Errante del teatro e di militante, al contrario, Moni Ovadia si è spesso espresso in questo senso denunciando pubblicamente la nostra falsa coscienza e la nostra indifferenza pagandone le conseguenze anche a livello professionale; le sue prese di posizione rispetto all’assurda situazione del popolo palestinese, per esempio, gli hanno guadagnato parecchie antipatie.

Mentre si apriva il sipario, si spegnevano le luci degli ultimi telefonini tanto da generare una sorta di crepuscolo digitale che scandiva gli ultimi istanti d’esitazione prima che il palcoscenico si guadagnasse lo spazio delle menti e dei cuori.

Le scene e i costumi di “Oylem Goylem” sono significativamente scabri, al centro delle assi del palcoscenico solo una pedana dove prendono posto i cinque musicisti della Moni Ovadia Stage Orchestra autenticamente Klezmer (da Kley-zemer, strumento musicale, che indica la musica delle comunità ebraiche dell’Europa dell’est), su vecchie sedie di legno e in mezzo a loro il barbuto protagonista. Sono vestiti come dei poveri migranti di inizio secolo e sarebbero stati a loro agio sul ponte del bastimento di “The Immigrant” di Charlie Chaplin.

Ovadia, che anche trent’anni fa interpretava un anziano ebreo aschenazita Simcha Rabinowicz venditore d’ombre“, continua ancora oggi ad evocare, riportandoli dall’oblio alla vita, i vari personaggi del tipico “Shtetl”, il villaggio ebraico dell’est europeo, polacco o della Russia zarista. Come scrisse lo stesso attore, a forza di parlare “di rabbini, di commercianti, di scaccini, di cantori, di madri ebree, di figli vessati”, con l’età è diventato uno di loro; per il pubblico si è identificato con i suoi personaggi, ne è stato fagocitato; quel mondo perduto vive in lui e attraverso di lui.

Se prima il suo recitare appariva volutamente caricaturale, oggi la sua maestria e l’esperienza di tanti anni lo hanno reso definitivamente un “carattere” in grado di proiettare gli spettatori in uno spazio e in un tempo totalmente altri, un luogo d’ombre nel quale ogni straniero è cittadino e ogni cittadino può ritenersi straniero, il luogo delle poverissime comunità ebraiche Askenazite che la Shoah ha completamente inghiottito.

Le divertenti storielle che Ovadia racconta camuffando la propria voce e semplicemente modulando il proprio linguaggio non verbale, trasformandosi in un rabbino oppure in un mercante, o ancora in un poveraccio e perfino in una petulante mamma, riguardano i soliti luoghi comuni sui quali si ride da centinaia di anni, ma che nascondono profonde verità.

Il primo becero stereotipo sugli ebrei è che siano abili con la gestione dei denari e che abbiano una virtù speciale nell’amministrarlo. Per illustrarlo Ovadia racconta di due vecchi ebrei che si comprano e ricomprano, l’uno con l’altro, un quadro trovato da un rigattiere convincendosi, anzi autosuggestionandosi del suo incredibile valore; tutto bene fino a quando uno dei due decide di venderlo ad un estraneo, non ebreo ma “gentile”, per realizzare finalmente il suo grande valore con grande scorno dell’altro che vede tradito il gioco che si era instaurato tra i due.

Sono storielle paradossali e non-sense che ridendo “castigano” i vizi più comuni di quel popolo della diaspora, caleidoscopio di tutta l’umanità. Ognuno di noi può riconoscersi in quelle miserie e vertiginose altezze e recuperare quello spirito di fratellanza che dovrebbe guidare tutte le nostre relazioni interpersonali.

Come già dicevamo, a Moni Ovadia va di certo ascritto il grande merito di aver fatto accorgere gli italiani, non solo quelli necessariamente colti o radical chic, dell’importanza della cultura ebraica, che permea le nostre radici di italiani e di europei. Viviamo da sempre fianco a fianco ad un popolo del quale, nel migliore dei casi ignoriamo e che quotidianamente insultiamo prima di tutto distinguendolo generalmente dal “nostro”, quando si sottolinea il fatto che si parla di “ebrei italiani” anche inconsciamente s’intende che sono sempre un po’ più ebrei e un po’ meno italiani.

Così non ci vergogniamo nemmeno di continuare ad alludere ai più vieti stereotipi (avaro come un ebreo, brutto come un giudeo…), se ci riferiamo al popolo di Israele in generale è spesso solo per fare dell’inutile retorica sulla mostruosità delle persecuzioni, delle quali abbiamo nozioni poco più che televisive.

Anche se l’antisemitismo violento e omicida è meno presente nel nostro rispetto ad altri paesi, gli italiani però adottano altre forme d’emarginazione altrettanto gravi e non solo nei confronti degli ebrei: il completo disinteresse e rifiuto per ciò che è diverso da noi, la colpevole indifferenza più totale. Siamo un popolo costitutivamente ignorante quasi tutti compresi.

Ebbene Ovadia ha il potere di svegliarci almeno per qualche oretta, destandoci dall’infame torpore xenofobo nel quale ci siamo sprofondati, con le sue storielle e le sue canzoni trasportandoci in un mondo altro che “galleggia” tra memoria e fantasia fatto di ombre e di sogni; ci insegna a riflettere divertendoci o commuovendoci, sul nostro ipocrita presente fatto d’eurocentrismo e di colpevole oblio.

Nel corso degli anni, Ovadia ci ha abituato alle riflessioni “umoristiche”, in pieno senso pirandelliano, sui vari dolorosi luoghi comuni che riguardano il popolo eletto sviluppando in altrettanti spettacoli i tanti temi già presenti in Oylem Goylem che, in questo senso è una sorta di kaleidoscopio di caricature e di colori o meglio un fecondo zibaldone dei pensieri in grado di generare interesse, discussioni e volontà d’apprendimento.

In Regione, nel corso degli ultimi decenni i nostri teatri hanno visto la gioiosa messa in scena di tanti lavori di Ovadia: Il violinista sul tetto, Trieste…ebrei e dintorni, Cabaret Yddish, ecc. senza dimenticare la direzione di memorabili edizioni del Mittelfest dal 2003 al 2008.

Ma gli ebrei dei piccoli paesi dell’est europeo erano per la gran parte miserabili e condannati da una povertà atavica che però sapevano vivere con grande dignità e in grazia di dio. Molto divertente l’accenno di Ovadia alla “varietà” della loro alimentazione che, aggiungiamo noi, condividevano con molti poveri friulani della stessa epoca, cresciuti si fa per dire a polenta ripiena di polenta e tanta fantasia per companatico.

Per gli askenaziti cambiavano solo gli ingredienti nel corso della settimana, da lunedì a venerdì sempre patate ma poi finalmente, nella santità del sabato, si mangiava lo sformato di…patate e ce lo dice con grande rassegnata allegria una divertente canzone tradizionale Yiddish intonata da Moni Ovadia:

Poniedzialek, wtorek, sroda, czwartek,
Piatek, sobota, niedziela – bulbes!

Lunedi, Martedì, Mercoledì, Giovedi,
Venerdì, Sabato, Domenica –
patate!

© Flaviano Bosco – instArt 2023