Quello che colpisce di più, in linea generale, di un’esibizione di Angelo Branduardi come quella nella piazza d’armi del castello di Udine, oltre all’indiscutibile carisma e talento, è la grande autoironia e affabilità che il musicista comunica rivolgendosi al pubblico. Il suo è un umorismo leggero, garbato, ironicamente elegante che in poche battute conquista il pubblico. Attraverso le sue canzoni “impegnate” e la sua poesia a volte dolente ci si è fatti di lui nei decenni un’idea di artista ieratico e misticheggiante, perfino serioso e compassato. Al contrario, Branduardi come i veri sapienti sa ridere di se stesso, guardando nella giusta prospettiva la propria esistenza di mortale e l’effimera bellezza della propria arte transeunte. Cantava in una splendida canzone degli anni ‘70 rifacendosi alla sublimi altezze dell’Ecclesiaste: “Tutto vanità, solo vanità. Vivete con gioia e semplicità. State buoni se potete…Tutto il resto è vanità.”

A vederlo sul palco di Udine, dall’alto dei suoi settantun’anni, si percepiva nettamente un senso di illuminata umiltà che è di quegli spiriti magni come il suo, vagamente malinconico e nostalgico della divinità ma pieno di gioia e sapienza e conscio della propria funzione.

Esprime proprio questo quando recita e canta con voce commossa la poesia di W.B.Yeats, Il violinista di Dooney (The Fiddler of Dooney): “Quando alla fine dei tempi, noi ci presenteremo a Pietro, andremo da lui seduto in maestà, allora lui sorriderà ai nostri tre vecchi spiriti, ma chiamerà me per primo oltre il cancello. Perché sempre allegri sono i buoni, salvo che per la cattiva sorte, e la gente allegra ama il violino, la gente allegra ama ballare”.

Rifiutando tutte le etichette, tranne quella di musicista, a Branduardi piace accostarsi alle figure un po’ romantiche dei trovatori medievali, dice di se ad apertura di ogni concerto negli ultimi anni: “Io sono il trovatore, vado per terre e città e ora che sono giunto in questa, lasciate che prima di partire io canti”.

In queste parole c’è il senso della musica come incontro e come itinerario di chi sa di non potersi dire altro che errante nelle sconfinate pianure dell’esistenza. Il canto è sempre un trovarsi ed un dirsi addio nello stesso momento, è un’effimera esperienza che svanisce nel momento in cui si da.

La musica è un’epifania dell’essere che da senso al nostro peregrinare ma che allo stesso tempo ci chiede di continuare il nostro cammino.

Il violino di Branduardi sembra sussurrare proprio questa intima essenza nomade del nostro spirito. “In principio era il suono, e il suono era presso Dio, e il Verbo era Dio”. Questa diversa accezione del testo biblico da alcuni interpreti è ritenuta più “autentica” se è ancora possibile utilizzare questo termine in questo contesto.

Proprio da questa prospettiva è comprensibile la tensione spirituale nell’inesausta ricerca musicale di Branduardi che nei suoi brani si fa sciamano, interprete di quel suono primordiale, di quella vibrazione primigenia che avrebbe creato ciò che si manifesta e tutto ciò che si nasconde.

E’ questa una delle interpretazioni possibili dell’ermetico testo di John Dowland interpretato magistralmente da Branduardi che apparentemente pala della morte e dello strazio degli amanti ma che in realtà sembra indicare il nostro stato di perenne tensione e insoddisfazione esistenziale che ci fa cantori di una bellezza necessaria, intangibile e tragica che si da solo nell’assenza: “Ora, ora devo separarmi anche se non piango un assente. L’assenza non può dare gioia, la gioia una volta fuggita, non può tornare. Mentre vivo devo amare, l’amore non vive quando la speranza ci ha lasciato. Ora alla fine la disperazione dimostra: amore diviso non ama nessuno.”

Al concerto di Udine in principio sono state le percussioni, maracas e legni e poi semplici accordi di chitarra e fisarmonica mandati in loop per accumulo fino a creare l’atmosfera sonora di una processione immaginaria di musici e il suo incedere. Al suono della chitarra di Fabio Valdemarin fa il suo ingresso Branduardi, imbraccia il suo violino all’ombra della sua capigliatura ormai candida.

E’ il preludio di un viaggio eterno e circolare in musica che inizia e finisce sempre là dov’è cominciato. In questo caso dalla Laude alto medievale: “Polorum regina omnium nostra. Stella matutina, dele scelera.” Dal Libro rosso conservato presso l’abazia di Monserrat in Catalogna. La vergine fatta gravida, feconda, fatta madre di dio rappresenta simbolicamente la grande energia del femminile. Per capire quanto la questione sia un tema cardine della poetica del cantante, basti pensare che nel 2019 insieme al suo fido multistrumentista Fabio Valdemarin, il cantante ha pubblicato un lavoro interamente basato su testi della mistica medievale Ildegarda di Bingen, quella che lui stesso ha definito una proto-femminista. Era un personaggio molto complesso nel panorama dell’XI sec. che in alcun modo può essere chiuso da un’unica definizione; certo è che pensando a quell’epoca e alla storia del pensiero umano è davvero necessario cominciare a confrontarsi con lei e con le sue opere che hanno inciso profondamente nel nostro immaginario. Un buon punto di partenza è proprio il disco di Branduardi. Senza dimenticare mai che la vera musica nasce dal silenzio e da un’istanza interiore di equilibrio e di armonia.

Introducendo un meraviglioso madrigale di Claudio Monteverdi (Si’ dolce è ‘l tormento) Branduardi è tornato a riflettere in modo allegro con il suo pubblico di un tema musicologico, in realtà, molto serio che gli sta davvero a cuore, sul quale ritorna molto spesso. E’ la nota questione del cosiddetto “Accordo di Tristano” (Tristan akord) di Richard Wagner. In sintesi, all’inizio del preludio al primo atto dell’opera Tristano e Isotta vi è un accordo inconcepibile per la musica occidentale fino a quel momento che sconvolge tutte le logiche dell’armonia aprendo le porte alla dissonanza e alla musica contemporanea. L’immane costruzione matematica e algida di quella che viene chiamata musica verticale crollò in un attimo sotto la spallata di quel singolo accordo, si scoprirono d’un tratto tutte le infinite possibilità della musica anche delle altre culture che riescono ad esprimere molte più emozioni e in modalità molto eterogenee di quelle incatenate dallo spartito e dalla notazione. Sono considerazioni molto alte e difficili nello specifico ma che Branduardi ha la rara capacità di divulgare in modo semplice e comprensibile senza però svilirle con bamboleggiamenti televisivi. Un suo concerto è anche una piacevolissima e anti-accademica lezione di musica.

Per stemperare, infatti, niente di meglio di un scherzo musicale del 1607 sempre di Monteverdi con il testo di Gabriello Chiabrera che inneggia alla bellezza sensuale femminile, al desiderio della carne e al vino: “Damigella tutta bella, versa quel bel vino, fa che cada la rugiada distillata di rubino.”

E poi “All’improvviso la luna si stancò di guardare il mondo di lassù”, la voce di Branduardi è appena incrinata nel cantare questo lontano successo del 1975 (La Luna) ma alcune piccole comprensibili incertezze d’intonazione non fanno che aumentare il fascino di un brano tra i più struggenti e delicati della sua carriera.

Così è anche per “Il dono del cervo” e “Sotto il tiglio” che diventano ancora più intime e sacrificali “Piango il mio destino, io presto morirò ed in dono allora a te offrirò queste ampie corna mio buon signore”.

Rivolgendosi nuovamente al pubblico per presentare la storia sconsolata di amore e morte di Barbrie Allen, Branduardi ha fatto un riferimento ad una divertentissima gag di Peter Sellers nel film Hollywood Party, quando il suo personaggio interpreta un soldato ferito gravemente che non si decide a morire. Riuscire a strappare grasse risate al pubblico in un contesto del genere è solo dei grandi istrioni e gliene va dato assolutamente merito.

Nel 2013 il suo album “Il rovo e la rosa-Ballate di amore e di morte” comprendeva anche la ballata dedicata a “Lord Franklin” già cantata da Joan Baez e dai Pentangle. Nel 1845 il protagonista che, con la sua nave cercava il mitico passaggio a nord ovest nelle acque gelide del polo, svanì con tutti i 128 membri del suo equipaggio. Solo nel 2016 “The Terror”, la sua nave, venne trovata intatta sotto i ghiacci dell’Artico. Una canzone bellissima per una misteriosa storia che recentemente ha dato vita anche ad un’avvincente serie televisiva (The Terror, 2018, due stagioni, 20 episodi).

Nello stesso album era compresa anche l’antica ballata britannica del XVI sec. “Geordie” che De Andrè riprese in versione italiana sempre da Joan Baez e che Branduardi reinterpreta in modo straordinario da par suo.

La sorpresa che tutti aspettavano era però “Schiarazula Marazula” da “Il primo libro dei balli accomodati per cantar et sonar d’ogni sorte de instromenti di Giorgio Mainerio Parmeggiano maestro di Cappella della Santa chiesa d’Aquilegia” (1576) che Branduardi utilizzò come tema musicale del suo celeberrimo “Ballo in Fa diesis minore”. Faceva davvero effetto sentirla cantare in lingua friulana, in castello a Udine, sotto la luna e il bandierone con lo stemma dei Savorgnan che garriva nel vento. Non poteva esserci migliore omaggio alla più autentica cultura della Piccola Patria.

Nel ventennale dell’assassinio del Comandante Ernesto Guevara de la Serna, el Che, il Corriere della Sera pubblicò per la prima volta in italiano una lettera di commiato che scrisse ai familiari il primo aprile 1965:

“Cari vecchi, una volta ancora sento i miei talloni contro il costato di Ronzinante, mi rimetto in cammino con il mio scudo al braccio. Sono passati quasi dieci anni da quando vi scrissi un’altra lettera di commiato.

A quanto mi lamentavo di non essere un miglior soldato e un miglior medico. Nulla è cambiato essenzialmente , salvo il fatto che sono molto più cosciente, il mio marxismo si è radicato e depurato. Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi, e sono coerente con quello che credo.

Molti mi diranno avventuriero, e lo sono; soltanto che io sono di un tipo differente di quelli che rischiano la pellaccia per dimostrare la loro verità. Può darsi che questa sia l’ultima volta, la definitiva. Non cerco la morte ma rientra nel calcolo logico delle probabilità. Se così fosse, eccovi un ultimo abbraccio.

Vi ho molto amato, ma non ho saputo esprimere il mio affetto; sono nelle mie azioni, estremamente drastico e credo che a volte non abbiate capito. Non era facile capirmi, d’altra parte, credetemi almeno oggi. Ora una volontà che ho educato con amore di artista sosterrà due gambe molli e due polmoni stanchi. Riuscirò.

Ricordatevi ogni tanto, di questo piccolo condottiero del secolo XX. A voi un grande abbraccio di figliol prodigo e ostinato.”

Queste “parole alate” ispirarono ad Angelo Branduardi, uomo di pace ma non pacifista, una delle sue composizioni più intense e profonde che incise e pubblicò nel suo album del 1988 “Pane e Rose”.

L’esecuzione del brano in versione acustica sul piazzale del castello di Udine è stato uno dei momenti più intensi di un concerto che ha toccato il cuore di tutti gli spettatori. Il “Che” nelle prime righe della lettera si paragona a Don Chisciotte che, seppur vecchio e stanco, non può fare a meno di continuare la sua battaglia contro i mulini a vento. “Fino alla fine andrò dietro le mie verità” canta Branduardi riferendosi sicuramente anche a se stesso.

Conclude il concerto un lungo incantevole, spericolato strumentale al violino sul tema de “La pulce d’acqua” e dopo gli applausi una ripresa di “Stella Mattutina” che chiude il cerchio e prepara già la nostalgia di ciò che è appena stato.

Come ha detto il Trovatore: “Per la serie, niente vi sarà risparmiato”, il bis più atteso dell’estate udinese è stato “Alla fiera dell’est” che il pubblico ha intonato all’unisono con palpabile emozione diretto da Branduardi. Il quale dice sempre che quello è il brano che gli ha regalato un pizzico di immortalità perché ormai è diventato talmente popolare da non appartenergli più. I bambini sicuramente non sanno chi è Branduardi ma sanno cantare, magari a proprio modo, del “Signore, sull’angelo della morte, sul macellaio, che uccise il toro, che bevve l’acqua, che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò.”

Non è mancato nemmeno un aforisma della buonanotte: “Non è mai troppo tardi per vivere un’infanzia felice”. Una frase del fondatore della Psicologia Neurolinguistica, Richard Bandler, certamente discutibile nei contenuti, ma di sicuro effetto che il pubblico, già estasiato per il concerto, ha gradito molto. “Troppa grazia, sant’Antonio!”

Flaviano Bosco © instArt