Ai Colonos di Villacaccia di Lestizza, per Musica in Villa 019, si è compiuto un rito collettivo tra i più arcaici e suggestivi: si è cantato, tutti insieme, al sole che muore nel tramonto, salutando la notte e sperando nella luce del mattino. Niente di più antico, primitivo e naturale; niente di più magico e misterioso.

Luisa Cottifogli (voce) e Gabriele Bombardini (chitarre) hanno presentato il loro lavoro ispirato a “Rumì d’Santa Mareja”(Romeo di Santa Maria) un vagabondo di fine ‘800 che viveva di elemosine girando per i paesi della Romagna intonando la sua orazione alla Madonna e che era uno di quei tanti personaggi diventati leggendari così tipici delle culture della Valle Padana.

Vecchi contadini arguti o girovaghi scansafatiche; scaltri venditori ambulanti, spacconi di vario genere con la lingua lunga che con i loro racconti e le loro cantilene trasmettevano oralmente una cultura antichissima della quale sono stati spesso i veri, unici interpreti. Pier Paolo Pasolini, proprio in relazione alla grande pianura tra le Alpi e gli Appennini, li aveva interpretati assimilandoli agli antichi aedi greci portatori della memoria di mondi lontanissimi e orizzonti perduti: “perché solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico” (Medea 1969).

Di questi personaggi, a proprio modo mitici, ogni paese ne ha almeno uno, la storia del folclore friulano ne è piena. Giusto per non andare troppo a zonzo con la fantasia, il Progetto integrato cultura, anima della rassegna Musica in Villa, nel 2007 ha promosso uno splendido libro per bambini a cura di Daniela Morgante, Giuliana Rossi e con le splendide illustrazioni di Paola Moretti, basato sul personaggio di Jacum dai zeis celeberrimo venditore ambulante, furfante e ribelle che nutre le vecchie storie del Medio Friuli.

Jacum, venditore di ceste in vimini e mestoli di legno, girava i paesi con il suo carro trainato da asini, raccogliendo e raccontando storie, più o meno inventate, e intrattenendo la gente dei mercati e dei borghi più sperduti con le sue smargiassate.

Rumì se non era un suo parente stretto certo era fatto della stessa pasta d’uomo. Grazie alla poesia, alle villotte e alla musica che questi personaggi hanno ispirato, non è impossibile calarsi in quell’immaginario dal quale ci ha separato, sono da pochi decenni, l’industrializzazione e il consumismo che ha omologato i nostri sogni e desideri a quelli del marketing. Una sassata ci distanzia da quel mondo che i nostri padri avevano ancora ben vivo davanti agli occhi, Ai Colonos, fucina di nuova cultura e specchio dell’arborescente identità friulana, la prossimità e il contrasto tra questi due universi apparentemente così lontani sono perfettamente evidenti.

Luisa Cottifogli è una vocalist straordinariamente dotata che dimostra una solida formazione di canto Jazz e d’improvvisazione, tanto quanto eccezionali qualità nello scat e nelle performance vocali rumoristiche. Come recita un verso di una sua canzone, sembrava una usignolo innamorato delle stelle. Una voce limpida come acqua di sorgente che sa bene essere tonante e potente, così come melodiosa o appena sussurrata. A questo aggiunge tanto vocalese e un pieno gioco di loop e pedaliera, una vera professionista della voce che è lo strumento più difficile e affascinante che esista.

Gabriele Bombardini chitarrista dai tempi dilatati e dagli spazi orizzontali e vibranti, tutto echi, risonanze e lontane reminiscenze, era perfettamente intonato all’ambiente in cui si era calato fatto di pannocchie, di sassi e di stracci; sembrava accompagnare il sole che scompariva via via dentro i campi, come tenendo per mano un bambino che vede avvicinarsi le prime ombre e la tenebra e le teme. Scoprendo, invece, le prime luci della sera che abitano la campagna che in musica fa meno paura anche se conserva le sue profondità scure e misteriose. Il suo è stato quasi un sound design, senza asprezze ne spigoli, morbido e lento proprio come una strada di pianura nel sole d’agosto che si snoda placida tra fossi e campi di grano a perdita d’occhio.

Entrambi i musicisti hanno intelligentemente rielaborato la poetica di vecchie filastrocche, poesie e cantate in dialetto romagnolo in chiave Jazz fusion, con venature progressive e di sperimentazione elettronica con largo uso di effetti sonori, in una particolarissima, intelligente e ben riuscita commistione di sonorità antiche e moderne; non una rielaborazione del passato ma un suo riaffiorare nelle acque lustrali del presente.

Il concerto si è svolto davanti al Tempio vegetale di Gabriele Mauri sul prato delimitato da un campo di granoturco. L’installazione artistica di Mauri è una struttura in legno concepita e realizzata nel 2004 per trasformarsi e vivere insieme alla vegetazione che la innerva e, nel corso degli anni, l’ha fagocitata inglobandola. Un’opera d’arte viva e mutevole che è di per se un inno alla vita e alle sue trasformazioni. Il tempio vegetale era in perfetto dialogo anche con una delle opere d’arte più importanti del secondo novecento, La Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto allestita sull’aia dell’edificio principale dell’agriturismo nel contesto della mostra “Contro_Verso”.

L’arte antica nella sua versione neoclassica (la meravigliosa Venere con mela del danese Berel Thorvaldsen, 1805) incontra, in quest’ultima, la contemporaneità fatta di un grande cumulo di vestiti dismessi e buttati. Un incontro dissacrante e sacrilego tra un’idea dell’arte come purezza e bellezza assoluta e quella vertigine della discarica così tipica del nostro mondo, nel quale la coabitazione con i nostri rifiuti non è più un’emergenza ma uno status, un modo di vivere, come aveva ben capito Pier Paolo Pasolini abbozzando i suoi Appunti per un romanzo sull’immondezza, versi di un incompiuto documentario su di uno sciopero dei netturbini a Roma nel 1970. E’ cambiato molto poco da allora.

Nell’opera di Pistoletto, variamente interpretabile e interpretata c’è anche un senso di speranza e un anelito verso il futuro; l’artista nel 2016 realizzando l’ennesima fortunato allestimento significativamente a Lampedusa dichiarò: “Cinquant’anni fa ho realizzato la Venere degli stracci. Gli stracci rappresentano il passaggio delle persone dentro tutti questi vestiti, questi vestiti ormai degradati. La Venere venendo dal passato come simbolo di bellezza e di speranza, ridà vita, rigenera questi stracci”.

Il concerto è stato scandito dal dialogo pungente, interessante e coinvolgente della Cottifogli con il pubblico che introducendo e traducendo i brani nelle parlate della Romagna ha evocato quel mondo così lontano, così vicino senza la solita retorica parolaia degli antichi valori perduti. Come dice un bel libro di Guido Sut e Otto D’Angelo: Nuie al è pierdût (Chiandetti 2014) Niente si perde, tutto si trasforma, la tradizione è una cosa che si costruisce nel tempo, non un dato ossificato nel passato; è qualcosa, al contrario, che certo precede il nostro presente ma che può compiersi solo nel futuro. Le esperienze, le illusioni e le speranze dei nostri avi sono radicate dentro di noi anche se non lo sappiamo o non lo vogliamo.

Lo possiamo scoprire, per esempio, attraverso la lingua che parliamo, quella, come diceva il dolce padre Dante che abbiamo succhiato con il latte di nostra madre. Ecco che la parlata dialettale o la lingua delle terre cui apparteniamo, ci permette di riscoprire quelle antiche emozioni anche se non fanno parte integrante della nostra realtà quotidiana. I suoni, le onomatopee, le nenie, le filastrocche, i non sensi conservano un potere elementare in grado di suscitare in noi reminiscenze arcaiche e lontanissime nel tempo anche se non ne capiamo il significato. È questa la forza della poesia che se è vera e pura oltrepassa il tempo lo spazio e i significati per restituirci il senso più profondo e primordiale dell’esistere; non a caso nel prologo del Vangelo di Giovanni si dice: In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. (Gv 1,1)

Così la Cottifogli ha ricordato al pubblico cosa vuol dire cantare sotto il cielo, nell’incedere lento dei buoi che tirando il carro, salendo lentamente dal fondovalle, mentre sale la Luna e la stella di Venere saluta i viandanti con i suoi sospiri di desiderio e le sue gentili promesse di rado mantenute.

Insieme a Bombardini ognuno dei presenti ha provato l’emozione di una serenata sotto la pioggia mentre lei è a letto; alla felicità basta un attimo, giusto un volto intravisto alla finestra e anche: Guarda la Luna come la cammina, va oltre le montagne e il mare. Come diceva Matteo Salvatore: “La Luna gira il mondo e voi dormite”.

Molto coinvolgente il momento nel quale la cantante ha cominciato a spiegare il significato di un’antica filastrocca che i nonni romagnoli cantavano ai nipoti facendoli rimbalzare sulle ginocchia. Anche di queste tiritere è piena ogni tradizione contadina tanto che un signore del pubblico ha intonato alcuni versi della filastrocca celeberrima e ambigua Ursule Parusule: “Ce fàstu su che vit? O mangi pan e coculis o spieti mio marit! To marit al è làt in France a comprà une bilance…”

Queste divertenti teorie di non sensi sono tutt’altro che prive di importanza antropologica e folclorica e spesso conservano tracce di riti e credenze che altrimenti sarebbero inattingibili.

Per l’appunto, come ha spiegato la Cottifogli, nel finale della Dirindena su una stufa si canta di Pulcinella che, stranamente, va sui coppi a mostrare a tutti le sue pudenda. Secondo gli studiosi di tradizioni popolari sarebbe il ricordo di un rito di fertilità tutto al maschile che attiene al mondo arcaico e che è di antichissima origine. Nel mese di marzo, quando cominciano a spuntare i primi germogli che daranno le messi, il sole si fa più feroce e rischia di bruciarli. Anticamente il padrone del campo saliva sul tetto di casa e denudandosi il deretano lo rivolgeva verso il sole dicendo: Cuci questo, ma non cuocere nient’altro, che in dialetto romagnolo diventa un gioco di parole piuttosto divertente ma di certo scurrile.

Mostrare le terga è uno dei gesti più autenticamente popolari della tradizione italiana ad ogni livello dalla Divina Commedia fino alla Commedia dell’arte e non serve ricordare il comune sgraziato invito diventato in tempi recenti, perfino il motto di un partito politico che con esso si qualifica. Per restare a cose più serie e fare ancora un richiamo all’arte contemporanea, si pensi alla performance artistica di Marina Abramović; Balkan Erotic Epic: “Gli atti osceni e i genitali maschili e femminili avevano una funzione molto importante nei riti di fertilità e l’agricoltura dei contadini dei Balcani. Se ne faceva un uso assolutamente esplicito per un’infinità di scopi”.

La cantante romagnola ha ricordato che la propria madre era originaria di Pulfero e conservava gelosamente il proprio retaggio slavo delle valli del Natisone. Le radici delle nostre culture sono ramificate ed estese in modo davvero imprevedibile. Tutto si tiene basta solo volerlo.

A questo proposito, veramente affascinante e ricco uno degli ultimi brani nel quale si è cantato, anche con l’aiuto di sgraziati versi del pubblico, della Borda, un orribile mostro del folklore lombardo-emiliano che si aggirava d’inverno tra le vigne e che grattava alle porte delle case, un po’ come la Fantasima di tante novelle e leggende medievali. Portava con se una corda con la quale impiccava i bambini cattivi. E’ forse un antico ricordo di sacrifici umani alle divinità celtiche; le vittime erano legate e calate nelle polle d’acqua sorgiva fino all’annegamento. Di certo anche le risorgive del Medio Friuli conoscono storie del genere.

A sole ormai calato c’è stato il tempo per una ninna nanna delle mondine di Medicina e per una splendida canzone su uno dei fenomeni invernali più tipici e inquietanti dell’intera pianura padana; i versi tradotti dicevano: La nebbia è venuta giù, non so dove mi trovo, si sentono solo dei rintocchi lontani. E sembrava di vedere il vecchio nonno di Titta in Amarcord di Federico Fellini, anche lui un po’ parente di Rumì e di Jacum dai zeis: Ma dov’è che sono? Mi sembra di non stare in nessun posto. Mo se la morte è così…non è mica un bel lavoro. Sparito tutto: la gente gli alberi, gli uccellini per aria, il vino. Tè Cul!

Qualche maleducato che non sa rinunciare all’automobile nemmeno per un attimo, ha disturbato un po’ l’incanto dell’esibizione soprattutto nel finale, ma forse l’ha anche resa più realistica, precipitando di nuovo tutti nella brutale realtà in cui siamo calati fatta di lamiere e ossido di carbonio. Tè Cul!

© Flaviano Bosco per instArt