È un pugno allo stomaco del Potere e dei benpensanti, il film che documenta il tour omonimo di Roger Waters che tra il 2017 e il 2018, in 156 date attorno al mondo ha visto partecipare 2,5 milioni di persone. È stato presentato alla 76 Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nel giorno in cui l’artista compiva proprio 76 anni e a poche ore dal fallito allunaggio della sonda indiana Chandrayaan 2 ancora sulla Dark Side of the Moon.

Il film è stato girato durante le quattro date consecutive di Amsterdam (Ziggo Dome 18/19/22 e 23 giugno 2018), la scaletta, le canzoni e l’intero show non lasciano spazio ad interpretazioni di sorta, l’artista chiede esplicitamente ai propri spettatori e fan di schierarsi politicamente per la libertà e i diritti civili di ognuno: Stay Human or Die! Dice proprio così una scritta in più lingue sull’enorme dirigibile a forma di maiale che ad un certo punto galleggia sugli spettatori.

Non ci sono mezze misure, ogni brano è uno slogan da urlare contro “chi vuole distruggere il nostro meraviglioso e fragile pianeta” per sete di profitto e brama di potere.

Stupefacenti le luci e le scenografie del concerto che la sapiente regia di Sean Evans ha saputo perfettamente cogliere come nel precedente The Wall (2014) che raccontava del tour dell’artista. Non c’è più bisogno di dire quanto coinvolgenti e meravigliose siano i brani tratti da The Wall, Animals, The Dark Side of the Moon, Meddle, Wish you were Here, e dal lavoro solista Is this the Life We Really Want? Ormai fanno parte integrante del nostro immaginario musicale. Meglio concentrarsi sul significato profondo del messaggio che Waters ha voluto lanciare.

Momento centrale dello spettacolo, la scenografia che ricrea nel bel mezzo dello stadio, sopra le teste degli spettatori la colossale centrale di Battersea Power Station di Londra che campeggia, in un’iconica immagine, sulla copertina dell’album dei Pink Floyd, Animals le cui metafore e canzoni sono la vera spina dorsale dell’esibizione. A formare il simulacro dell’enorme edificio sono degli smisurati teloni sui quali vengono proiettate, di volta in volta, disegni, filmati e varie immagini relative ai brani. Un enorme schermo fa da sfondo anche alla band che suona.

Delle proiezioni fanno parte integrante anche due cortometraggi che, divisi in più parti e montati alternativamente e in modo non consequenziale, raccontano, quasi in presa diretta, la tragica quotidiana esistenza di due donne particolarmente sfortunate solo perché nate dalla parte più sofferente e sfruttata del pianeta.

Una è, verosimilmente, una donna palestinese che, poveramente, vive felice nella propria casa con la figlia fino a quando un carro armato israeliano non apre il fuoco su di loro dilaniando le loro vite. Intelligentemente, il film non vuole rappresentare le ragioni dell’uno e dell’altro. Quando le vittime sono i più deboli, gli esseri umani di buona volontà sanno già automaticamente da che parte schierarsi, non c’è bisogno di alcuna pseudo dialettica quando sono i bambini a morire. La seconda storia è quella di un’altra donna che nelle prime immagini del film sola e sconsolata, seduta su una spiaggia osserva uno spaventoso temporale all’orizzonte le cui nubi, tra lampi e tuoni, stanno per scatenarsi come una guerra sul mare e su tutta la Terra.

Capiamo, in seguito, che su quel mare la donna ha dovuto lasciare la propria piccola bambina su un canotto insieme ad altri profughi disperati. Il mare le aveva poi restituito solo la bambola di pezza della piccola lasciando intendere la tragedia avvenuta. Anche qui non servono spiegazioni. Chi non prova dolore e compassione per i propri fratelli più sfortunati che affogano a migliaia in cerca di una vita migliore non merita nemmeno la propria.

Ancora un’altra storia si interseca alle altre, quella di un aviatore americano che placido si sveglia nella sua casa di un ordinato e ricco quartiere residenziale della provincia americana, si lava, si mette la divisa, fa colazione con degli psicofarmaci e poi si reca al lavoro dove lo aspetta una postazione di computer con un joystick che comanda un drone da combattimento in un qualche remoto paese islamico in guerra. Il lavoro dell’aviatore è quello di colpire inesorabilmente gli obiettivi che gli vengono via via indicati e poi tornarsene al proprio alloggio. Combattenti, civili, donne, bambini, anziani poco importa, basta centrare l’obiettivo; finito il suo lavoro di assassino a distanza, pigia il tasto off, arresta il sistema e mentre dall’altra parte del mondo persone inermi sono state fatte a pezzi dai suoi missili, non trova di meglio da fare che rilassarsi con una bella canna.

Intanto si srotolano potenti le composizioni di Waters sia dei tempi dei Pink Floyd, sia del suo ultimo album solista, come già ricordavamo. Le meravigliose canzoni, non c’è nemmeno bisogno di ricordarlo, sono perfettamente eseguite dalla fantastica band con solidi arrangiamenti a volte persino violenti ma efficacissimi anche per le coreografie; tutte insieme, costruiscono un unico discorso e tutto lo show è assolutamente concepito al servizio del messaggio che l’artista ha voluto lanciare, il cui significato, in sintesi, ruota attorno a due canzoni dell’album Animals: Dogs e Pigs (Three Different one). “Alcuni animali sembrano più uguali degli altri, come i maiali e i cani, per esempio”.

Nella trasparente metafora i maiali sono i neoliberisti accecati dalla loro ingordigia e i cani, loro amici e sodali, sono i neofascisti di ogni paese con la loro ferocia e crudeltà. Violentissima e diretta l’accusa di Waters nei confronti di Donald Trump che viene sbeffeggiato e indicato come un pazzo criminale, razzista, xenofobo e sessista, assetato di sangue e di denaro. Come dargli torto?

Ma ce n’è per i maiali di tutto il mondo, scorrono sui megaschermi le immagini dei capi di stato di tutto il grasso Occidente capitalista e oltre. Naturalmente, ce n’è anche per i suini italiani: fanno bella mostra di se, per qualche istante, anche i poco rassicuranti volti di Berlusconi e di Salvini. Quest’ultimo che si è sentito offeso, ha “grugnito” in un tweet che Waters si servirebbe della sua immagine per desiderio di notorietà. Un’affermazione talmente ridicola da apparire grottesca e che si commenta da sola.

Fin dagli inizi della sua carriera con i Pink Floyd e sicuramente dopo l’abbandono forzato di Syd Barret, il bassista è sempre stato l’anima più politica e schierata di quel gruppo che ora tutti sembrano adorare ma che per un periodo è stato considerato, anche da certa critica italiana, come pretenzioso, troppo snob, distaccato ma commerciale. Basti pensare a tutta l’epoca del Punk e della New Wave che nasceva musicalmente e dichiaratamente in contrasto con il loro stile.

Ogni lavoro dei Pink Floyd, al contrario, è sempre stato profondamente politico e impegnato nel senso più alto del termine, sempre in linea con il proprio tempo ma proiettato verso il futuro. Lo possiamo comprendere proprio oggi che come si dice nel film: “Siamo intrappolati in un incubo distopico e chiediamo aiuto”, perché ci siamo accorti che nessuno è più schiavo di chi si crede falsamente libero”.

Alla conferenza stampa di presentazione alla Mostra di Venezia, il geniale ex-bassista dei Pink Floyd ha dichiarato che “Il suo è un film politico e che non stiamo facendo molto nel nome della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948” È in questo senso che va inteso il suo lavoro non solo negli ultimi anni.

È il caso allora di citare per esteso il primo articolo della dichiarazione che l’artista ha declinato in vari modi ma che gli è servito da grande fonte di ispirazione come i restanti ventinove.

Art.1 Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Proprio in questo senso che va inteso il cambio della congiunzione nel titolo della canzone che ha ispirato tutto il tour. Non più Us and Them com’era in origine cioè Noi e loro quasi una surrettizia, criminale, pretesa e presunta separazione tra noi e gli altri che presuppone già a livello sintattico e semantico una netta divisione, una distanza. La frattura si sana solo trasformando la congiunzione nel simbolo dell’addizione, Us+Them, noi insieme agli altri. La distanza si può colmare solo se cominciamo a considerarci tutti come fratelli. Questo nella dichiarazione di Parigi del ‘48 rimanda direttamente allo Spirito del 1789, quello che aveva portato, 200 anni prima, alla prima grande Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, durante la Rivoluzione francese proprio nella medesima città

A quegli anni tumultuosi e formidabili, Roger Waters dedicò un’opera lirica in tre atti nella quale, oltre a lodare gli eterni principi di Uguaglianza, Libertà e Fraternità non si dimenticava di ricordare che nel 1789 il Papa condannò come blasfema la Dichiarazione con varie minacce di scomunica (atto 2, scena 4).

D’altro canto, Waters che non è un ingenuo velleitario, sottolinea come una rivoluzione molto facilmente possa degenerare passando senza soluzione di continuità da giustificabili tumulti per il pane al terrore della ghigliottina.

La sua opera lirica Ça Ira prendeva il titolo da una delle canzoni più famose del tempo della Rivoluzione, intonata fin dalla presa della Bastiglia, che nei primi versi esortava ad impiccare ai lampioni tutti i nobili e altre efferatezze. Waters però ragiona anche sulla brutalità, sui pericoli e sulle contraddizioni di quegli eventi e si conclude con i versi: “Ci saranno diritti umani per tutti gli uomini sotto il sole…Questa è la promessa della Repubblica e così sarà”. Dovranno esserci diritti, afferma nel film, anche per i nostri fratelli e sorelle Palestinesi e per quella bambina araba, simbolo di altre migliaia di vittime innocenti, che è stata crivellata di colpi sparati dai cecchini ad un ceckpoint solo perché aveva delle forbici in mano.

Waters insiste molto sui fatti di Palestina mostrando immagini del vergognoso muro che si incide come una profonda ferita quelle terre martoriate e delle proteste a ridosso della frontiera abusiva in Cisgiordania.

Us+Them, sia il tour, sia il film sono in diretta continuità con la splendida opera lirica e solo chi ne tiene conto può capire l’intensità dello sforzo del musicista.

All’inizio della celeberrima canzone Money si sente la voce tronfia di Trump che proclama la propria vittoria: “Ho vinto perché sono il migliore e perché sono un vincente”. Risponde Waters a caratteri cubitari sui megaschermi che nel nostro mondo, agendo in modo sconsiderato, nessuno potrà mai vincere, se ci comportiamo in quel modo ci si può solo perdere, saremo tutti loosers.

Nel finale del concerto un incredibile gioco di luci ricrea, all’interno dello stadio, l’immensa piramide prismatica di The Dark Side of the Moon regalando ancora ultime incredibili emozioni. Molti critici si sono stupiti nel vedere tante inquadrature di giovani ragazzi che cantano a memoria le canzoni dei Pink Floyd che non appartengono alla loro epoca. Waters sa bene che i ragazzi di ogni età cantano, ballano, piangono con le sue canzoni ma soprattutto capiscono profondamente il suo messaggio e perciò urla mostrando il dito medio: “Fuck the Pigs!”

© Flaviano Bosco per instArt