Mentre giustamente ci si indigna e si protesta per la tragedia del popolo curdo che si vede negato, a forza di cannonate e bombardamenti, il proprio sacrosanto diritto ad uno stato e all’autodeterminazione, ci si dimentica colpevolmente o si fa finta di non ricordare, soprattutto a livello istituzionale, che da più di settant’anni un intero popolo è sottoposto alle peggiori angherie da chi contro ogni legge umana e divina vuole ridurlo all’impotenza.

Per fortuna, in Regione, da alcuni anni, a ricordarci la lotta e la resistenza del popolo palestinese contro le ingerenze e i soprusi dello stato d’Israele, c’è il gruppo Ibriq che, tra le tante iniziative volte a valorizzare la cultura di quel popolo e la sua lotta, organizza anche il Festival del Cinema palestinese a Udine in collaborazione con il cinema Visionario e a Trieste presso il cinema Ariston. L’iniziativa è sorella di quella che l’Associazione Amicizia Sardegna-Palestina allestisce annualmente a Cagliari, il Festival Internazionale del Cinema Documentario Palestinese e arabo (Al Ard Doc Film Festival).

La singolarità di quella cinematografia, spesso totalmente priva di mezzi ma straordinariamente creativa, è che volente o nolente deve essere innovativa e scaltra per trovare soluzioni che le permettano di raggiungere i risultati espressivi voluti. Nonostante tutto è un modo di fare cinema vivo e vitale sostenuto da una grande energia e volontà, a volte da rabbia e disdegno ma mai passivo e rassegnato.

Trasformare l’orrore in voglia di vivere, far germinare la volontà nelle situazioni più disperate, sorridere davanti ad un futuro negato, documentare la propria condizione, rivendicare i propri diritti, continuare a sperare nella pace sembrano essere questi i fondamenti estetici e narrativi di quell’arte che giunge fino a noi in modo spesso avventuroso. Purtroppo, nel nostro paese, sono rare le occasioni di vedere questi film come, in generale, quelli delle cinematografie diverse da quella mainstream hollywoodiana e anglosassone. Udine e Trieste hanno, al contrario, una lunga tradizione d’interessi multiculturali che permettono anche agli spettatori più distratti di farsi almeno un’idea.

  • Without wawes di Wisam Al Jafari 2017, 8’. Attraverso immagini, suoni, suggestioni sensoriali si esplora con grande delicatezza la terribile, monotona vita quotidiana di un campo profughi. A causa della densità abitativa, tra le più alte del mondo, in quegli inferni concentrazionari l’intimità è una pura chimera. Ogni cosa è assolutamente condivisa, il personale è davvero collettivo, per continuare con la metafora che abbiamo scelto. Bisogna anche aggiungere però che, come recita un frusto proverbio, “Mal comune mezzo gaudio”. Proprio per questo condividere il proprio dramma serve a sentirsi meno soli e abbandonati. Forse anche il cinema ha proprio questo scopo, lo schermo è una sorta di finestra sulla vita degli altri, sul loro cortile dalla quale noi sbirciamo.

  • The Sound of Alleys di Nedal Hassan 2018, 15’. I giovani vogliono danzare, sperare, costruire il proprio futuro anche nelle situazioni più estreme. Il cortometraggio indaga le vite di alcuni ragazzi che in un campo profughi, tra difficoltà indicibili, s’impegnano dal punto di vista sociale e personale per tenere vivo il sogno dei propri avi che volevano un paese libero e fecondo. Molto efficaci le immagini zenitali e sagittali sul fittissimo tessuto urbano del campo che drammatizzano ancora di più la narrazione, dimostrando che dal cosiddetto punto di vista di dio ogni differenza s’appiattisce e si compone e ogni contrasto tra noi sembra svanire.

  • Coffee Pot di Thaer Al Azzah, 2018, 10’. Un venditore ambulante di caffè per le strade di un campo profughi. La vita è stata molto dura con lui, ha perso tutto o forse non lo ha mai avuto, gli è rimasta però la dignità e l’integrità morale che lo sostengono in ogni momento della sua vita sconsolata. Non ha un lavoro fisso e gli tocca arrangiarsi a stare per tutta la notte in mezzo ad una strada trafficata con una specie di enorme cuccuma thermos piena di caffè destinato agli automobilisti in transito. Si accontenta di poco ma vive onestamente, benvoluto da tutti. Potrebbe adattarsi a fare lavori meno dignitosi come fanno tanti ma piuttosto che andare contro la propria morale e darla vinta a chi lo vorrebbe animale tra animali preferisce rinunciare al benessere e rimanere in miseria di beni materiali ma non in povertà di spirito. Nessuno riuscirà mai a rubargli la sua dignità e la sua libertà di uomo.

  • Exodus of a refugee di Mahmoud Farajallah, 2015, 11’. Raccontare i tentativi di fuga dalla striscia di Gaza dei palestinesi, alla ricerca di un futuro migliore mette in luce aspetti davvero particolari di quella situazione. Le persone che non se la sentono più di sopportare la prigione del muro e la vita di inauditi sacrifici cui la politica oppressiva dello stato d’Israele li condanna, diventano dei reietti anche da parte del proprio stesso popolo. Se vengono visti come potenziali terroristi dagli israeliani che li catturano come belve in fuga dalla rete, sono giudicati come dei traditori della causa palestinese dai loro compagni di sventura e discriminati dalla loro stessa comunità. Un dramma che si somma ad una tragedia che non sembra avere via d’uscita.

  • Five minutes di Ahamad Naseer Barghouthi, 2018, 26’. Di gran lunga il mediometraggio più coinvolgente e angosciante di tutta la rassegna. Il tema è quello indicato fin dal titolo: Cosa salvare quando si è certi che la propria casa sarà distrutta completamente nel breve lasso di cinque minuti? E’ proprio questo il ridicolo preavviso che i servizi segreti israeliani concedono agli obiettivi giudicati strategici a Gaza prima di colpirli con missili lanciati dai caccia a reazione o dai droni. Senza dare alcun altra spiegazione i militari chiamano al telefono uno degli abitanti del palazzo dove magari vivono centinaia di persone e intima l’evacuazione immediata. Il vergognoso pretesto è di solito quello che in quell’edificio si presume esserci il covo di qualche banda di terroristi o qualche deposito d’armi. Anche ammesso, per assurdo, che il sospetto avesse il minimo riscontro niente giustifica l’abbattimento di un edificio pieno di gente nel mezzo di una città con una densità abitativa tra le più alte del mondo. Il film, sfruttando riprese artigianali fatte con cellulari o telecamere di fortuna sapientemente montate, fotografa gli ultimi minuti della vita familiare di alcuni palestinesi che, ognuno a proprio modo, descrive quei veloci interminabili minuti di terrore e disperazione. Niente di più angosciante e ingiusto. E’ un puro atto di barbarie e terrorismo da parte dello stato d’Israele che infierisce sulla popolazione palestinese al solo scopo di spaventarla e di renderle la vita impossibile.

  • Journey of waves di Linda Paganelli, 2018, 6’. La regista è un’antropologa visiva che documenta da anni il fenomeno delle migrazioni e le sue implicazioni e conseguenze umane e sociali. Questo straziante e realistico corto documenta con immagini dal vero girate con mezzi di fortuna, il tragico tentativo di alcune persone di scappare da Gaza via mare. Arrivati in Egitto riescono ad imbarcarsi su una delle tante carrette del mare che trasportano tutta quella disperazione e speranza verso le coste europee. Un avaria del motore costringe alla deriva i naufraghi con sempre meno viveri e acqua a disposizione. Quando sono ormai allo stremo e cominciano a morire, una nave sembra giungere in loro soccorso ma non è così. Vengono recuperati, rifocillati e condannati a tornare al punto di partenza, respinti dalla speranza e inchiodati alla spiaggia dalla quale erano partiti. Tutti i loro sforzi non sono serviti a niente. Dice il protagonista: “Non dimenticherò mai l’odore di putrefazione di quel bambino morto di stenti che la madre non voleva gettare fuoribordo”. Cerchiamo di non dimenticarcelo nemmeno noi.

  • Personal Affairs di Maha Haj, 2016, 88’. Il manifesto politico studentesco di Port Huron negli Stati Uniti (1962) affermava: E’ tempo di riaffermare il personale… dare forma ai sentimenti di impotenza e indifferenza in modo che le persone possano vedere le origini politiche, sociali ed economiche dei loro problemi privati e organizzarsi per cambiare la società.

    Gli Affari personali che l’ottima regista Maha Haj mette in scena sembrano avere proprio questo significato. Il film è una riflessione antropologica e psicologica su più generazioni di palestinesi. La vecchia divertente nonna di casa, con qualche problema di demenza, ricorda quelli che sono nati prima dell’esodo del 1948 (Nakba-catastrofe) quando 700.000 persone furono espulse definitivamente dalle loro case a causa della guerra arabo-israeliana. La coppia di vecchi annoiati coniugi sono lo specchio della generazione che ha dovuto combattere per tenere in piedi la speranza e sembrano essersi esauriti nello sforzo, incolpandosi a vicenda dei reciproci fallimenti; i loro figli resistono e cercano di dare un senso alla loro vita e ai loro sentimenti come possono. Uno di loro è emigrato in Svezia dove cerca di costruirsi una vita in un paese che lo ha accolto ma che resta freddo e distante per quanto riguarda gli affetti. Un altro, rimasto in Palestina, cerca di realizzare il suo sogno di scrivere per il teatro e gestire la sua vita affettiva con la sua splendida compagna. Sembra non volersi legare, ha forse paura di non riuscire in un rapporto sentimentale tradizionale, lei non sopporta questa sua eterna indecisione. Nonostante quello che può sembrare, il film non è soltanto una commedia sentimentale, al contrario, l’intreccio, che ha caratteristiche di universalità, è ambientato principalmente nella Palestina occupata ma assume valenze che ognuno di noi può condividere. Lo testimonia la surreale sequenza finale che vede i due litigiosi fidanzati arrestati dalle forze di sicurezza israeliane ad un ceck-point mentre si recavano ad una festa da ballo a Gerusalemme. Nella cella di sicurezza i due, continuando le ruvide schermaglie amorose, finiscono per ballare un sensuale tango di riconciliazione davanti ai poliziotti che li controllano dietro ad uno specchio segreto. Continuare a vivere e ad amare anche sotto il tallone di ferro dell’occupazione: questa è la vera vittoria e liberazione di chi ha il sacrosanto diritto non solo alla propria terra ma anche alla propria felicità. Alla proiezione è segiuto un interessante dibattito con l’attore protagonista Doraid Liddawi, affascinante e disponibile.

La femminista Carol Hanisch sosteneva che i problemi personali sono problemi politici. Non ci sono soluzioni personali in questo momento, c’è solo un’azione collettiva per una soluzione collettiva.