20 days in Mariupol al Centro di Accoglienza Balducci di Zugliano (Ud)
“Somethimes I feel like a Motherless child” è un verso della celeberrima canzone Freedom di Richie Havens che aprì Woodstock il 15 agosto 1969; il chitarrista la improvvisò a partire da uno spiritual tradizionale le cui prime tracce emergono nell’America schiavista di fine Ottocento.
Allora era una pratica molto comune vendere i figli degli schiavi strappandoli ai propri genitori, il brano cerca di esprimere i sentimenti di uno di questi piccoli sfortunati tra gli sfortunati.
E’ cominciato proprio con questo inno generazionale alla libertà, sotto il pergolato del Centro Balducci, la performance di Anthony Basso, il chitarrista friulano con il cuore nero; mancino come il diavolo e Jimi Hendrix e con il sogno americano stampato sul cuore.
Una manciata di brani tra standard, originali e cover di lusso di grandi hits del periodo tra folk blues, psichedelia e rock West Coast. Per la nutrita scaletta, Basso ha attinto a piene mani dalla sua decennale esperienza sui palcoscenici in solo o con la sua band, ma soprattutto dal suo ambizioso progetto musicale che celebra la tre giorni di Amore, Pace e Musica altrimenti detta Fiera della Musica e delle Arti di Woodstock (15-18 agosto 1969), “Il primo, vero e originale progetto musicale italiano creato per celebrare il cinquantesimo anniversario del festival”.
Basso ha già inciso uno splendido, delizioso album a partire da quella esperienza che raccoglie il meglio delle sue personali nuove interpretazioni di tanti classici: “Love Caravan Feat. Anthony Basso. 50th Woodstock Anniversary” (Funktastic, 2019) e si prepara a proseguire il percorso dando un seguito al musical con uno spettacolo ancor più psichedelico e colorato, che vedrà la luce prossimamente.
Il chitarrista friulano ha dalla sua un talento che lo distingue da tanti che hanno tentato la medesima operazione indulgendo troppo spesso in uno spiacevole “effetto nostalgia”.
Gli ideali e le istanze che quella musica voleva sostenere non sono affatto anacronistici, anzi aspettano ancora di essere urlati nelle piazze a pieni polmoni.
Il secondo brano in scaletta è stato “Long time before the Down” originale del chitarrista, una ballad struggente e crepuscolare tutta chiaroscuri e sguardi verso un orizzonte larghissimo e distante; è il brano che apre il nuovo album di Basso.
Si prosegue con la preziosa sei corde Gibson del chitarrista che “spera non voglia piovere tutto il giorno” (Hope it don’t rain all day) riproponendo una meravigliosa canzone di Van Morrison. E ne abbiamo avuta parecchia in queste ultime settimane e se le cose continuano così a livello geopolitico prima o poi come canta Bob Dylan: “A Hard rain’s A-Gonna Fall”. Molto suggestivo il brano “Tracks” tra i primi scritti da Basso quando da studente prendeva il treno dal suo piccolo paese per raggiungere la scuola in città.
L’immagine del treno che emerge dalla bruma della nebbia o dal vapore è profondamente fissata nell’immaginario contemporaneo a partire dai quadri di William Turner (Pioggia, vapore e velocità, 1844); per quanto riguarda il blues, non c’è bisogno nemmeno di ricordarne l’importanza cruciale come simbolo di libertà e di fuga.
Non c’è dubbio che “Tracks” sia un gran bel pezzo sulla nostalgia dell’andare e sulla sensazione, sempre dolce-amara del distaccarsi dai propri affetti, per piacere o per dovere. Ancora un altro blues dal suo ultimo disco che canta di quanto importante sia vivere ed inseguire i propri sogni che devono essere sempre un obiettivo da raggiungere e mai una meta da superare.
Il sogno è quella cosa che non si raggiunge mai ma che ti da la forza di continuare ad inseguirlo, è uno stimolo continuo, una linea di traguardo che si sposta mano a mano che ci avviciniamo, ci sta sempre davanti; è come la carotina davanti agli occhi del coniglio che corre nei cartoni animati. Basso suona le corde a pizzico regalando agli ascoltatori tutta la ricercatezza del proprio talento nel brano “Hoodoo Man” che è proprio impastato della magia alchemica del sogno.
Lo stimolo a diventare chitarrista, racconta Basso, gli venne dopo aver ascoltato i dischi di Jimi Hendrix con il quale condivide non solo il fatto di essere mancino “come il diavolo e Paganini”, ma anche un talento naturale che certo non ha l’inarrivabile caratura del genio di Seattle, ma che è animata dallo stesso spirito della musica che va dalle corde del cuore a quelle della chitarra. E’ così che ha preso corpo una splendida interpretazione di Sugaree dei Grateful Dead, una ballad psichedelica all’apparenza tenera, tenera, ma che in realtà nello Zuccherino contiene qualcosa di molto acido e non serve specificare cosa.
Viene il momento per il chitarrista di chiamare al proprio fianco Franco Ceconi che, guarda caso, è suo suocero anche lui valente chitarrista, e così si moltiplica la magia. La ritmica di Ceconi permette a Basso di inerpicarsi in vertiginosi assolo che non sono fatti della solita tecnica strabiliante o di velocità ma che hanno un cuore soffice fatto di un perfetto controllo dell’intensità e di una piacevolezza per i suoni ricercati che valgono molto di più di tanti virtuosismi fine a se stessi. Gradevolissima è stata anche per questo la versione del classico Long Time Gone di Crosby, Stills, Nash & Young.
Non poteva mancare un omaggio al grande “Slow Hand” Eric Clapton con la non scontata “Key to the Highway”, secondo brano in scaletta anche nel concerto che il mitico chitarrista inglese ha tenuto al Lucca Summer Festival lo scorso 2 giugno. E’ un brano dedicato a tutti quei momenti nei quali si vorrebbe solo “andare per andare” allontanandosi da tutto e da tutti, via di corsa sulle autostrade della vita. “I’m gonna leave this town babe and I’m gonna be back no more” e poi invece torniamo sempre a casa con la coda tra le gambe e la testa bassa chiudendoci la porta alle spalle con tutti i nostri propositi di fuga buoni per un’altra volta.
Mentre suona vigoroso il campanone della chiesa di Zugliano, per restare sempre in famiglia, guadagna il palcoscenico anche Marta, la moglie di Basso, figlia di quel Franco di cui dicevamo prima. La voce del suo flauto ha trasportato gli incantati spettatori “oltre le dolcezze dell’Harrys bar e le tenerezze di Zanzibar”, come canta quell’avvocato di Asti che con il folk blues psichedelico c’entra poco, ma che sa cosa vuol dire innamorarsi dei suoni e dei sogni, come lo sa bene anche la famiglia Basso che ha concluso la propria splendida esibizione con due perle luminose della storia della musica degli anni 60: “Nights In White Satin” dei Moody Blues e “A Whiter Shade of Pale” dei Procol Harum ispirata all’Aria sulla quarta corda, alla Cantata BWV 140 di Johann Sebastian Bach e ad altre cosette di minor importanza. Cosa volere di più in un qualunque pomeriggio di giugno?
Applausi ad Anthony Basso e alla sua family in perfetto stile Flower Power: Pace, Amore e Musica.
Dopo una piccola pausa ristoratrice con i manicaretti preparati dai volontari del Centro Balducci è stato il momento del film e il buon umore ha lasciato il posto alla più cupa delle angosce, perchè non esiste nessuna guerra giusta se non quella che non viene combattuta.
“20 giorni a Mariupol” di Mstyslav Chernov (Ucraina 2023, 95′), vincitore dell’Oscar 2024 e del premio Pulitzer come miglior documentario e premiato in molti festival, è, involontariamente, uno dei film più atroci e spietati sul giornalismo di guerra e sulla rappresentazione della violenza e della morte che si siano mai visti.
L’intento e l’azzardo sono stati, naturalmente, di per se encomiabili: documentare le atrocità della guerra in Ucraina nel modo più fedele e diretto possibile proprio sulla linea del fronte, in questo caso la cittadina portuale di Mariupol sul Mar d’Azov, nei primi venti giorni dell’attacco russo, dal 23 febbraio al 16 marzo 2022.
Scandito cronologicamente giorno per giorno, il film, che si avvale anche di una cupa e cimiteriale colonna sonora, documenta l’avvicinamento dell’armata russa alla città tra bombardamenti e vittime civili disperate e senza via d’uscita.
La città si arrenderà solo dopo 86 giorni di assedio con sofferenze e stragi indicibili tra i civili intrappolati ed inermi, due mesi dopo che i giornalisti della Associated press erano riusciti ad andarsene seguendo un convoglio della crocerossa.
Da quando Frank Capa fotografava la morte del miliziano (The Falling Soldier) in Spagna nel 1936, nel giornalismo di guerra si è visto di tutto spingendo i limiti dell’etica e della deontologia sempre più al limite della pornografia del dolore che, bisogna pur dirlo, con il film di Chernov raggiunge livelli di indicibile, gratuito, esibizionistico cattivo gusto, non risparmiando niente allo spettatore, senza alcun senso della Pietas come se il fine della documentazione bastasse a giustificare la violazione voyeuristica dei momenti più sacri dell’esistenza umana.
Si vede con totale disgusto la macchina da presa frugare il corpo di una neonata appena partorita con ancora il cordone ombelicale attaccato, che viene rianimata mentre è in corso un bombardamento; la bambina come da copione piange e tutti sono momentaneamente sollevati, ma lo spettatore non si toglierà mai dagli occhi quello che ha visto nel frattempo.
Dall’altro capo della vita la telecamera mostra il cadavere di un neonato buttato in uno squallido scantinato ammassato insieme ad altri corpi perchè non c’era più posto all’obitorio oppure la scarpina di una bambina morta spruzzata del suo stesso sangue e via di seguito, con un accanimento e una pervicacia che non ha più nulla a che fare né con il cinema verità e nemmeno con il diritto all’informazione. E’ quella che sembra un’ossessione necrofila, una malcelata volontà di spettacolarizzare l’orrore al fine di trasformare gli assalitori in semplici mostri carnefici senza volto.
Ma come dice il colonnello Kurtz (Marlon Brando) nel celebre monologo di Apocalypse Now di Coppola:
“Io ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non ha il diritto di chiamarmi assassino. Ha il diritto di uccidermi, ha il diritto di far questo. Ma non ha il diritto di giudicarmi. E’ impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sanno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto. E bisogna farsi amico l’orrore, orrore, terrore, morale e dolore sono i tuoi amici. Ma se non lo sono, essi sono dei nemici da temere. Sono dei veri nemici”.
Il dibattito che è seguito alla proiezione, pur garbato e rispettoso dei canoni della conversazione civile, è stato a tratti agghiacciante. Alle più sentite esortazioni alla pace di alcuni del pubblico hanno fatto da terribile contraltare le drammatiche affermazioni di alcuni altri che lodavano lo sforzo bellico europeo e ucraino nella speranza che l’esercito di Putin possa essere annientato definitivamente facendo ricorso a qualunque mezzo e a niente sono valse le esortazioni di qualcuno che ricordava sommessamente il Vangelo di Matteo (5, 43-48):
“Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinchè siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete?”
Riflessioni che non riguardano solo quelle persone che hanno avuto la grazia della fede, ma anche tutti gli altri meno fortunati che però conoscono il senso del termine latino di Pietas che impone ad ognuno di comportarsi in modo giusto, rispettoso e onorevole verso gli altri, siano anche nemici, e verso la propria famiglia.
Questo discutibile documentario sulla tragedia ucraina può essere associato a livello cinematografico ad un altro “caso” che ha recentemente scatenato aspre polemiche tra critica e pubblico: “Civil War “di Alexander Garden (2024).
In questo film dai toni molto crudi e apocalittici, si ipotizza l’esplodere di una violentissima e fatale guerra civile negli Stati Uniti. Una piccola troupe di giornalisti d’assalto percorre il fronte di guerra interno da New York a Washington per raggiungere ed intervistare il Presidente degli ex Stati Uniti prima che gli insorti ne abbiano ragione. Durante il viaggio i giornalisti documentano e vivono esperienze allucinanti di bestiale atrocità compiute dai combattenti nei confronti dei civili, domandandosi proprio come in “20 giorni a Mariupol”, fino a dove sia giusto spingersi per documentare l’atrocità della guerra. E’ la stessa cosa che si sono chiesti gli operatori di Hitchcock che girarono le immagini dei campi di sterminio nazisti o lo stesso regista che le montò in filmati coerenti.
In ogni caso la questione è parecchio intricata e davvero decisiva per la nostra contemporaneità. L’impressione che si ricava da questi due recenti lungometraggi è che soffrono di un eccesso di protagonismo dei giornalisti e dei media che risulta spesso altrettanto invasivo e spietato della guerra stessa, trasformandosi in un’arma di propaganda di una guerra astratta nel campo dell’informazione e della controinformazione che si sovrappone a quella della carne e del sangue, senza esclusione di colpi, in una delle manifestazioni più tragiche di quella che Guy Debord ha definito in un suo profetico testo: “Lo spettacolo non può essere compreso come l’abuso di un mondo visivo, il prodotto delle tecniche di diffusione massiva di immagini. Esso è piuttosto una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta. Si tratta di una visione del mondo che si è oggettivata” (La società dello spettacolo, Massari ed, 2002, pag. 44).
Il cinema, di per se, è sempre e solo rappresentazione e non può essere mai scambiato per la verità che appartiene ad un’altra prospettiva dell’interpretazione.
Una posizione di buon senso durante il dibattito seguito alla proiezione, è stata quella espressa dal Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (Mean) rappresentata al Balducci da Paolo della Rocca, responsabile nella nostra Regione del Project Mean: “Un progetto specifico di costruzione della pace e di assistenza umanitaria in Ucraina…la nostra idea principale è quella di preservare il potere trasformativo della nonviolenza attiva all’interno dello scenario di conflitto”.
Il primo comandamento del loro decalogo, recita:
“Andiamo a Kiev perchè abbiamo deciso di non acconsentire alla guerra come evento e come pensiero totalitario che, come un veleno, conquista teste e cuori. La guerra alimenta lo schema binario amico-nemico, buono cattivo, armi non armi che man mano disegna un mondo senza possibilità d’intesa. Abbiamo deciso di uscire da questo schema e da questa logica alla ricerca di pensieri e di relazioni in cui l’intesa sia almeno augurabile”.
Alcuni interventi basati su un’idea molto fantasiosa del pacifismo hanno auspicato interventi militari ancora più massicci e decisi da parte occidentale al fine di costringere gli invasori al dialogo e alla pace dopo la sconfitta sul campo di battaglia: “Se gli ucraini finiscono le munizioni come potrà mai esserci la pace?” Farneticazioni che hanno sinistramente attualizzato il motto latino “Si vis pacem, para bellum” (Se vuoi la pace preparati a combattere) che ha il suo fondamento più arcaico nelle Leggi di Platone (1.628c9-e1) ma che suona come un paradosso di quelli che nemmeno Zenone di Elea avrebbe saputo architettare.
In ogni caso, dialogare in modo pacato e democratico è sempre una scuola di vita e solo facendolo, pur nelle diverse opinioni e mantenendo le reciproche distinzioni, ci si “allena” al rispetto e alla condivisione, di questi tempi è già qualcosa, anche se sembra non portare da nessuna parte e poi, diciamocelo sinceramente: “Dov’è che dobbiamo andare?” Domine, quo vadis? In fondo è proprio la risposta a questa eterna domanda a spaventarci davvero. Ognuno di noi riesce solo con molta fatica e solo se è proprio costretto ad accettare di sacrificarsi per il bene degli altri. Perfino San Pietro ha dovuto farsi convincere da qualcuno molto più in alto di lui, perchè “Vuolsi così colà dove si puote e più non dimandare”.
Flaviano Bosco / instArt 2024 ©