Si è conclusa ieri sera, con l’ultima proiezione al Parco Coronini Cronberg a Gorizia, il 38esimo Premio Amidei.
Il presidente dell’associazione, Francesco Donolato, ha voluto sintetizzare questa edizione in due parole: la prima emozione, l’emozione legata alla presenza di Margarethe von Trotta a cui è stato attribuito, per il suo impegno civile, il premio all’opera d’autore 2019. La seconda corpo, il corpo della materia cinematografica propriamente intesa. Ed è proprio per l’ impegno nella conservazione e nel restauro di questa materia cinematografica che quest’anno il premio alla cultura cinematografica, è stato consegnato a Sergio Toffetti, direttore del Museo del Cinema di Torino.
Ieri sera infine è stata la volta di scoprire i vincitori del premio principale della manifestazione: quello internazionale alla migliore sceneggiatura. Se lo sono aggiudicati Alessio Cremonini e Lisa Nur Sultan per il film “Sulla mia pelle”, già vincitore di quattro David di Donatello e del Nastro d’argento per il miglior film dell’anno.
Uscito in sala a fine 2018 e contemporaneamente sulla piattaforma Netflix, racconta la storia degli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi, dall’arresto alla morte avvenuta nell’ospedale Sandro Pertini di Roma nell’ottobre del 2009. Il film è uscito qualche mese prima delle dichiarazioni del carabiniere Francesco Tedesco che nell’aprile di quest’anno hanno fatto riaprire le indagini confermando, di fatto, il pestaggio subito in carcere da Cucchi da parte dei carabinieri D’Alessandro e Di Bernardo la notte del suo arresto per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti ed il successivo depistaggio da parte dell’Arma. Il processo, come noto, è ancora in corso.
È proprio dalle 10.000 pagine di atti processuali che Cremonini, anche regista della pellicola, e Sultan hanno preso le mosse per raccontare la vicenda. Come hanno spiegato ieri pomeriggio all’incontro organizzato in Mediateca, alla costruzione dello scheletro narrativo ed al tentativo di includere i diversi punti di vista presenti negli atti è seguito un percorso di sintesi alla ricerca di una potenza che, nel girato, trova la sua forza in un incedere cronologico che trascina lo spettatore verso un finale inevitabile. “Una pietra rovente” l’ha definita Lisa Nur Sultan, da lasciar decantare. E se è vero, come ha sottolineato Cremonini, che il rischio sta nel confronto con una vicenda mediaticamente molto nota, è vero anche che noto non coincide oggi con conosciuto realmente. Vedendo il film si rimane spiazzati dai dettagli e catturati da una spirale di pensiero che nulla ha a che vedere con la semplice condanna delle figure che via via si interfacciano con Stefano,interpretato, inutile ricordarlo, da un intenso, sofferente ed efficace Alessandro Borghi.
Cremonini ha voluto sottolineare, non a caso richiamandosi al cinema di Rossellini, che il suo interesse va tutto ad un cinema del presente, un cinema che sia in grado di “non arrivare in ritardo”, di competere con altri media più immediati. Nell’ aspirazione di poter fare qualcosa. Ora.
La domanda, rimarca il regista, che il film vuole porre è “che diritti hanno quelli che supponiamo sbaglino?”. Stefano Cucchi era un “diverso”, un tossicodipendente, ostinato, ma lucido e disincantato nel percepire la realtà che lo circondava, o così la pellicola ce lo descrive. Con che occhi l’hanno guardato le persone che hanno avuto a che fare con lui in quei sette giorni? Come l’avremmo guardato noi? Questo è il punto. Ed è facendo leva su questo che il film esce dall’inchiesta per acquistare la sua universalità.
© Katia Bonaventura per instArt