Sono andate quasi completamente deluse le grandi aspettative per il concerto goriziano di una delle band più acclamate della scena nu jazz inglese. I Kokoroko privi della loro sassofonista e leader, Cassie Kinoshi assente per motivi non pervenuti, alla prova dei fatti si sono rivelati ben al di sotto del gran parlare che si fa di loro sui media internazionali.

Sono di certo un autentico fenomeno musicale nato nei club londinesi ma soprattutto sui social con milioni di visualizzazioni su YouTube. Il loro sound, adatto a tutti i palati, accattivante e ruffiano, fatto di un interessante mélange tra l’acid jazz, l’Highlife africano e ritmi caraibici di ogni sorta, ha catturato legioni di nuovi giovani fan al genere.

Lo si vedeva bene al teatro Verdi di Gorizia, l’età media del pubblico era molto più bassa del solito. La dimensione del concerto “tradizionale” però non si adatta per nulla alla band abituata forse a quella dei club o addirittura dei pub dove ha cominciato a suonare solo qualche anno fa come cover band. In quelle situazioni, la qualità del suono e delle composizioni è molto meno importante del groove e del ritmo, tre quarti dello spettacolo lo fa il pubblico con la sua voglia di ballare e di divertirsi. Niente di male, sia chiaro, ma suonare veramente è un’altra cosa.

Sul palco del Verdi, soprattutto le due frontman, la trombonista Richie Seiwright e la trombettista Sheila Maurice Grey apparivano davvero impacciate e poco empatiche con il pubblico adorante e molto ben disposto a non farsi rovinare la serata per nessun motivo, carico di quella voglia di leggerezza a tutti i costi che ammorba questi mesi post-pandemici.

Fin da subito il duo di fiati è sembrato nervoso e imballato anche se a tratti i loro suoni apparivano scintillanti e splendenti su un sottofondo intricato di poliritmie con suoni sovrapposti e fitti come in una “Concrete Jungle” nella quale i musicisti sembravano muoversi in più direzioni contemporaneamente, seguendo propri sentieri alla ricerca di un luogo verso il quale convergere senza trovarlo.

Non si può negare che le idee sono valide, fresche anche se con un cuore antico che ci porta dalle strade dell’Africa fino a quelle della fusion e del Jazz Rock d’annata, da queste ultime viene di sicuro il chitarrista Oscar Jerome che ha dato ottima prova di se.

Grande influenza sul loro sound la esercita di certo l’afrobeat di Fela Kuti che però interpretano senza più quella furia quell’energia anche politica che l’indomabile leone nigeriano sapeva esprimere. A volte i Kokoroko sembrano cercare l’intrattenimento fine a se stesso; i loro ritmi danzerecci non si avvicinano mai al parossismo e si fermano un attimo prima della sfrenatezza, fanno ballare ma senza sudare o rovinare la messa in piega. La sezione ritmica, Ayo Salawu (batteria) Onome Ighamre Edgeworth (percussioni), Mutale Chashi (basso) è tecnicamente dotata e orientata verso le meravigliose seduzioni di Tony Allen mai troppo rimpianto, in certi momenti, ha regalato emozioni molto vivide ma non è sembrata mai amalgamata davvero con il resto dell’ensemble.

I giovani che li adorano hanno il solo torto di avere un’esperienza e una conoscenza elementare della tradizione musicale dalla quale provengono certe ambientazioni sonore, esattamente come i Kokoroko che di strada ne devono consumare ancora parecchia prima di mettere a fuoco il talento che assolutamente non gli manca.

Nel mondo della musica liquida e di polietilene che ci circonda, il loro fascino di certo emerge ma restando all’esibizione di Gorizia, sono assolutamente sopravvalutati e la fama che li precede è eccessiva e mediatica. Quello che fanno è un buon easy listening con momenti chill out soprattutto dovuti al lavoro delle tastiere di Yohan Kebede ma niente di più. Musica da ascoltare rilassati in una bella serata estiva con un bel bibitone in mano guardando ancheggiamenti e contorsioni varie “on the dance floor” sotto la luna.

Quelle dei Kokoroko sono spesso atmosfere rilassanti, rarefatte, a tratti perfino lounge venate di un esotismo che è in dose minima. Tutto diventa evidente nell’assolo della trombonista del tutto scolastico e privo di fantasia che non fa altro che sottolinearne i limiti in quanto a intonazione, fraseggio e timbrica; anche lei ha parecchia strada da fare prima di padroneggiare il proprio strumento ad un livello superiore a quello delle serate nei locali con consumazione inclusa.

Democraticamente, nel corso del concerto ad ognuno dei musicisti è spettata la parola per presentare i brani in scaletta, ringraziare, dire della felicità di suonare in Italia, eseguire diligentemente il proprio assolo e, con matematica ossessività, promuovere il primo album di inediti dell’ensemble, “Could we be more” (Potremmo essere di più) d’imminente uscita che certa critica ha già definito un capolavoro irrinunciabile; tutto con lo stesso spirito da saggio finale di una scuola di musica di provincia.

Concluso il breve set con il pugno di brani che li ha resi celebri, hanno concesso un unico sbrigativo bis e hanno lasciato il pubblico, per niente sazio, ad applaudire e a chiamare a lungo fino a che le luci si sono accese, mentre loro erano già sulla via dell’albergo.

“Kokoroko” in lingua Urhobo (Nigeria) significa “essere forti” e di certo tutti gli elementi di questo gruppo lo sono; la loro musica si lascia ascoltare ed è a tratti un piacevole sottofondo ma l’essere associati continuamente dai media ai veri araldi della nuova scena inglese come Shabaka Huchings, Moses Boyd, Nubya Garcia ecc. li danneggia, quelli sono davvero di un altro pianeta.

Chi ha scritto queste righe è sicuro che quella di Gorizia per i Kokoroko è stata solo una serata sbagliata come capita anche ai più grandi artisti e si augura vivamente di essere smentito in un prossimo futuro.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©