Un concerto di Fabrizio Citossi e dei suoi Autostoppisti è sempre un’esperienza indimenticabile e la serata a Marsure di Sotto è stata una di quelle. Organizzata da Make, spazio espositivo di Udine in trasferta, ha unito una scelta di proiezioni video a tema di Valentina del Toso, la musica situazionista degli ADMS con la sulfurea, dissacrante dolcissima arte affabulatoria di Angelo Floramo, per una performance artistica che finalmente ha celebrato il centenario pasoliniano senza la retorica trombona e colpevolmente superficiale che ha imperversato negli ultimi dodici mesi.
Sulle improvvisazioni sonore di uno degli ensemble di punta della musica sperimentale regionale, il chierico vagante dal Borc di Ruvigne ha declamato un suo testo originale che ha ricordato Pasolini in modo del tutto non convenzionale. Riflettendo sulle virtù cardinali e sui vizi capitali ha costruito un ritratto del poeta di Casarsa finalmente liberato dai cascami accademico-sensazionalistici del centenario appena trascorso, restituendo alla sua poetica realismo e grana civile senza nasconderne con irriverente sagacia opportunismo, aberrazioni e sgradevolezze fin troppo umane.
La musica dei compagni di merende di Fabrizio Citossi (Tomasin, O’Loughlin, Trecanelli) si è impastata di immagini e i versi sono risuonati potenti e stranianti per uno spettacolo unico in forma di liturgia laica e autenticamente politica che ha avuto il coraggio di “bestemmiare” la “religione del nostro tempo” che è pronta a consumare, ingurgitare e defecare anche la poesia più sublime trasformandola in uno slogan da corsia di un discount.
Per recensire degnamente un evento del genere senza tradirne lo spirito e il carattere, si propone uno spunto insolito che vuole riassumerne il senso senza eccessivo didascalismo. Chi scrive, prima di partecipare al concerto, ha pensato bene di fare uno “spuntino” presso una trattoria ruspante e verace come quelle che piacevano tanto a Pasolini.
La sera prima di essere assassinato aveva cenato al “Pommidoro” a San Lorenzo di Roma, dietro la cassa del locale ancora oggi è appeso in bella evidenza l’assegno di undicimila lire con il quale pagò quella sera, una scritta dalla grafia incerta a penna bic spiega: “Assegno firmato da Pier Paolo Pasolini e rilasciato al gestore di questa osteria di cui era cliente abituale, per pagare l’ultima sua cena consumata insieme a Ninetto Davoli con il quale si e (senza accento Ndr) intrattenuto in questo locale fino al momento di recarsi alla stazione pe’ incontrarvi il suo assassino, il Pelosi, la sera in cui fu ucciso”.
Ispirata a tanto Bene, ricapitoliamo allora la “merenda” di chi ha scritto queste righe e della sua compagna:
“Due porzioni abbondanti di spezzatino con il guanciale, due di frico con patate e cipolla, radic cu li fricis, polenta a volontà, un litro di rosso e mezza minerale…non sarà troppo? Dopo dobbiamo andare al concerto, finisce che avremo la pancia troppo piena. Ma come si fa rifiutare tanto ben di dio – Bene, allora sbrighiamoci, “pancia mia fatti capanna”.
La trattoria è deliziosa arredata con gli strumenti del vecchio lavoro contadino appesi alle pareti, i piatti sono succulenti e molto abbondanti, il vino è di quelli di una volta sapido, aspro e forte, perfetto per la carne rigorosamente suina, perfino la cameriera tatuatissima è di una gentilezza d’altri tempi. Cos’è che non va? Cosa c’è di veramente indigeribile?
Vicino alla cassa, in bella vista, c’è una bella collezione di calendari del “crapone pelato” con tanto di motti “legionari” di quel “quadrumane” che faceva arrivare in orario tutti i treni soprattutto quelli del suo degno compare tedesco che andavano ad Aushwitz.
Scoprire l’oste “fascistissimo” a fine pasto, dopo essersi goduti lietamente i suoi manicaretti, fa davvero venir voglia di sorbirsi volontariamente un bel bicchierone di olio di ricino per restituire immediatamente tutto quello che ci è stato ammannito. Chissà cosa ne avrebbe pensato Pasolini?
Ops, ci stavamo dimenticando il concerto! E allora si paga, con l’amaro in bocca, e via verso la villa dove sta per cominciare in fondo alla campagna friulana.
Arrivati, naturalmente, in ritardo, entriamo nella sala del fogolar al piano terra già stracolmo di pubblico, non c’è più posto per nessuno, quindi ci addossiamo alla parete mentre i musicisti scaldano gli strumenti e aspettiamo che la liturgia abbia inizio.
Proprio di questo si è trattato, di un’orazione civile nel più puro, caustico, irriverente e perfino blasfemo spirito pasoliniano.
Lasciando correre la fantasia, quel luogo splendido, anche se di troppo modeste dimensioni per tutto quel numero di persone intervenute, potrebbe somigliare all’Academiuta di Casarsa nella quale il giovane Pasolini si incontrava con alcuni suoi amici poeti per discutere e godere della lingua friulana, della musica e dell’arte in generale; non si era nemmeno troppo lontani in spirito da quelle lunghe serate di “File” cui partecipavano Pasolini e la madre nella casa contadina di Versuta nella quale erano sfollati per paura delle bombe, nelle quali il poeta s’innamorò della vita attraverso la musica di Bach.
La splendida villa Mangilli-Schubert, in se stessa, poteva rientrare in uno dei topoi della poetica pasoliniana sia letteraria che cinematografica. Con le dovute differenze poteva essere la villa della spietata famiglia borghese di “Porcile”, oppure quella labirintica di “Teorema” e nel peggiore dei casi quella dei gironi infernali di Salò. E’ certo che, in luoghi come quello, molto spesso il poeta ambientò le proprie riflessioni più articolate e profonde.
La performance aveva per filo conduttore l’interpretazione improvvisata e piacevolmente sghemba dei brani di “Pasolini e la Peste”, lo splendido, ruvido album che gli Autostoppisti del magico sentiero hanno dedicato al poeta di Casarsa. Tra l’uno e l’altro Angelo Floramo che di magici sentieri e di passi perduti se ne intende parecchio, declamava la sua “giaculatoria” con scandalosa voce di profezia “Contra Pasolini”, riferendosi di volta in volta ai vizi e alle virtù che ne hanno ispirato la vita e l’opera senza nascondere i suoi scandalosi abissi e bestemmiando le vertiginose altezze del suo spirito.
L’unico modo per rispettare davvero Pasolini è quello di considerarlo intimamente e sempre perverso, deviante, sregolato contrario a quell’ortodossia che lo vorrebbe santificare e omologare stando ben attenti però a non farne solamente un’icona trasgressiva giovanilistica del ribelle per forza che non è mai stato. Pasolini abitava un paradosso di contraddizioni al quale si sentiva di appartenere e al quale dobbiamo restituirlo se vogliamo davvero ricordarne l’energia e la poetica sovversiva.
In ogni caso, bisogna avere un bel fegato per celebrare ancora una volta Pasolini, dopo un anno di bagordi tra ricordi istituzionali, posa di targhe alla memoria, spettacoli e vario brik a brac. Nel frattempo si è visto di tutto e Pasolini ci è stato servito in tutte le salse da non poterne più.
Il nostro paese è sempre pronto ai grandi funerali, alle commemorazioni e santificazioni perché una volta nella fossa o sull’altare, del mortaccio non se ne occupa più nessuno. “Finita la festa gabbato lu’ Santu” è il nostro particolarissimo modo di elaborare il lutto per arrivare a dimenticare del tutto i nostri cadaveri, più o meno eccellenti.
Con Pasolini il processo di digestione, assimilazione, omologazione, massificazione ha richiesto decenni, ma le ultime celebrazioni del centenario dimostrano che la nostra indolenza ci permette di ingoiare e digerire i bocconi più amari.
La cosa curiosa è che la contraddizione paradossale tra omologazione, discriminazione e trasgressione è parte integrante della poetica e dell’opera dello stesso Pasolini che, come dimostra tutta la sua parabola artistica, è sempre stato in equilibrio difficilissimo e precario tra le vertiginose altezze della coerenza ideologica e gli abissi della prostituzione di se.
Come ha recitato Angelo Floramo, sempre acutissimo e tagliente nelle sue considerazioni, Pasolini vedeva negli ultimi della terra, in accattoni e mignotte, il vero valore dell’esistenza e l’insita possibilità di rovesciare il capitalismo borghese fonte di ogni marciume contemporaneo, questo però non gli impediva di frequentare magnati, produttori, industriali e godere dei loro favori.
Si diceva comunista ma gli piacevano le auto di lusso, le camice di seta e i buoni ristoranti; era innamorato delle sudice borgate romane e del vecchio miserabile Friuli con il letamaio sull’aia, eppure finì per comprarsi un bosco con una torre medioevale dalla quale avere il mondo ai propri piedi. Condannava la televisione e le seduzioni luciferine del consumismo ma non sapeva rinunciare ai viaggi in Romania per sottoporsi a interventi estetici a base di Gerovital, si rifece tutti i denti e si tingeva i capelli come gli attori americani.
Dichiaratamente viveva questa contraddizione ammirando gli ultimi così come i primi della gerarchia sociale capitalistica, i sottoproletari e gli alto-borghesi, esecrando quelli che considerava mediocri e condannava nella categoria dei piccolo borghesi.
E’ ora di chiudere queste riflessioni generate da una serata che Floramo e gli Autostoppisti del magico sentiero hanno saputo rendere indimenticabile come il vin brulè che è stato offerto generosamente a fine concerto dall’organizzazione: dolcissimo, bollente eppure aspro e speziato, scuro e denso come la vita quando la guardi passare piano.
Come scriveva Pasolini ne “Il glicine” (1961):
Son qui a ragionare di sconfitta
Ma chi è che mi perde?
Dio redivivo, la colpa felice?
Si, mi sento vittima, è vero, ma vittima
di cosa? D’una storia apocalittica,
non di questa storia. Mi contraddico.
Rendo ridicola una mia lunga passione
di verità e ragione.
Passione…Si, perché c’è un cuore antico,
preesistente al pensiero:
o un corpo – o fiorente o ferito,
povera vita mai certa davvero
di resistere alla vita informe dei nervi.
© Flaviano Bosco – instArt 2023