Tra le mille motivazioni per cui si dovrebbe essere grati al Miela di Trieste (riassumibili forse tutte in quell’appellativo “Instabile” di cui il teatro si è sempre orgogliosamente fregiato), una è di certo Paolo Rossi. Non è un mistero che l’attore e comico abbia da sempre un rapporto molto fraterno con la sala di piazza Duca degli Abruzzi, tanto da non solo portarvi molti dei suoi spettacoli ma anche con apparizioni sul palco durante le live dell’iconico Pupkin Kabarett.
Rapporto certamente ricambiato non solo dal Miela ma dal pubblico triestino tutto, che ha sempre mostrato moltissimo calore nei confronti del “bisiaco” (Rossi è di Monfalcone; e ci si perdoni la battuta, che ci concediamo solo perché lo stesso comico si è auto-appellato così durante lo spettacolo). Calore rinnovato appieno nella serata del 26, con una platea sold-out che solo a vedersi ha davvero scaldato il cuore, essendo forse la prima volta dall’inizio della pandemia in cui l’Instabile ha potuto sfoggiare una simile quantità di spettatori.
Tutto come una volta, quindi? Beh, no. Se l’accoglienza è stata sempre la stessa, è Paolo Rossi a non essere più quello di una volta. E chiariamolo subito: non è una critica o una frase dall’accezione negativa, anzi. Semplicemente la constatazione che a quasi 70 anni si ha una consapevolezza diversa rispetto a quella della giovinezza, si guarda in modo differente sia al passato che al futuro, e che Rossi è una persona troppo intelligente per limitarsi a ripetere -ancora oggi- uno stesso canovaccio che suonerebbe troppo “falso” se riproposto esattamente come trenta o quarant’anni fa.
“Pane o libertà” -spettacolo nato nel periodo di lockdown e portato in scena già nell’estate 2020- poggia le proprie fondamenta proprio su questo, e lo si vede già dal principio, con un “Rossi sul palco” che guarda un video proiettato in cui un “Rossi nel video” malcela l’imbarazzo nel guardare una videocassetta dove un “Rossi giovanissimo” recita le sue prime battute, a inizio carriera. In un clima un pò da Inception il “Rossi sul palco” condivide quell’imbarazzo (genuino, non recitato) ma alla fine il tutto diventa uno spunto per riderci su nel recuperare alcune sue vecchissime battute, tra cui non poteva mancare la famosissima domanda “ma è il fratello?” rivoltagli da un poliziotto e nata dalla sua omonimia col Paolo Rossi “mundial”.
Da qui si snoda un percorso lungo quasi due ore che -come Rossi ha voluto precisare fin dalla prima battuta- “non è uno spettacolo”. È piuttosto un canovaccio da cui partire, un’idea di fondo: quella di essere più che altro un cantastorie, rievocare da quel passato aneddoti, battute, memorie. E di farlo non “per il pubblico” ma “con il pubblico”, per creare assieme una serata “vera”, “anarchica”, perché (prendiamo in prestito nuovamente le parole dello stesso Rossi) “è la fuori, nel mondo, che tutti recitano. Ma non qui stasera”.
E l’interazione diventa quindi sovrana. Certamente con il pubblico, che Rossi esorta a più riprese a fargli domande: è proprio una di esse (cioè proporgli dei nomi di politici per vedere se li ha conosciuti di persona) a occupare quasi tutta la prima parte dello spettacolo, con da una parte una platea divertita a proporre “grossi calibri” come Berlusconi o Salvini e dall’altra un Rossi che riesce ogni volta a recuperare aneddoti esilaranti, condendoli spesso con altre piccole note, battute o apprezzamenti che coinvolgono gli incontri fatti nel corso della sua vita. Come ad esempio (impossibile non sottolinearlo) Enzo Jannacci, che compare più volte nei ricordi sciolti a ruota libera sul palco e che fanno trasparire limpidamente il profondo legame di rispetto e amicizia che esisteva tra i due.
Interazione, si diceva. Ottima anche quella con le uniche altre due figure con cui Rossi ha condiviso il palco, Emanuele Dell’Aquila alla chitarra e Alex Orciari al contrabbasso (non era presente invece Stefano Bembi, fisarmonicista che completava il trio musicale nel tour 2020). I due non sono stati relegati al semplice ruolo di “colonna sonora da musica di sottofondo” ma hanno dato vita assieme a Rossi a diversi momenti musicali interessanti, sia recitati che cantati. È sempre stata molto vibrante, inoltre, l’intesa tra Rossi e Dell’Aquila, con il chitarrista a partecipare spesso alle battute del comico e ad amplificare quell’atmosfera di vera improvvisazione e di abbattimento della quarta parete. Come quando -durante la piccola pausa a metà spettacolo- i tre sono rimasti sul palco, con i musici a improvvisare qualche motivetto e Rossi a guardare la gente uscire dalla sala per andare a bere qualcosa al bar del Miela.
Come cercare di riassumere la serata di “Pane o libertà”, quindi? È estremamente difficile, quasi impossibile. Perché nella sua semplicità (tre persone su un palco vuoto a raccontare storie) racchiude in realtà molto: un Rossi maturo, che non è interessato a vestire particolari maschere ma si presenta genuino -quasi fraterno- al pubblico; ma che allo stesso tempo guarda con profonda tenerezza e amore al “Pierino” che è stato e che proprio per questo in qualche modo lo è ancora: irriverente, con quella parlata volutamente biascicata e quel suo lasciar cadere qua e là le battute che le fa sembrare straordinariamente innocenti, amplificandone l’effetto comico. Un “monello anziano”, un “giovane vecchio” che non si può non amare e non portare dentro anche dopo essere uscita da teatro, con un sorriso sulla faccia mosso non solo da divertimento ma anche da tanto affetto.
Luca Valenta/©Instart