In tempi di femminicidio, di Isis e, più in generale, di violenza sulle donne, assistere ad un’opera come L’italiana in Algeri, dramma giocoso di Gioachino Rossini su libretto di Angelo Anelli, non può che aprire il cuore. Qui l’oriente – sarebbe più corretto parlare di Maghreb ma siamo nel 1813 – non è luogo di integralismo religioso, ma di esotiche suggestioni, come già nel Mozart del Ratto dal serraglio, e anticipa quell’Orientalismo che informerà di sé tutta l’arte francese della fine dell’Ottocento. Ma è soprattutto la concezione della donna che in Rossini è di estrema modernità, perché specialmente in quest’opera, ma anche in altre ovviamente, essa assume una dimensione nuova. È la donna, infatti, che “conduce le danze”, grazie alle sue doti squisitamente femminili che si possono sintetizzare in due parole: astuzia e seduzione. Ma anche intelligenza, come quella di cui è dotata Isabella, per capire senza inutili scoramenti che tipo di situazione si sia venuta a creare dopo il naufragio della nave su cui navigava alla ricerca dell’amato Lindoro e quindi agire di conseguenza, con una progressione di equivoci ed inganni dalla logica inesorabile che la porta a riavere il suo amante, a far riconciliare il Mustafà con Elvira e a far riconquistare la libertà agli schiavi, italiani, del Bey. Idealizzazione della donna? No piuttosto lungimiranza di un artista abituato all’osservazione dei vizi delle virtù degli uomini.
Proprio le caratteristiche più intrinseche di questa vicenda rossiniana sono state esaltate l’altra sera nella prima rappresentazione andata in scena al Teatro Verdi di Trieste per la regia di Stefano Vizioli e con la direzione del giovane George Petrou, grazie alle doti vocali e sceniche della compagnia di canto che ha visto Isabella interpretata da Chiara Amarù, Lidoro da Antonino Siragusa, Mustafà da Nicola Ulivieri, Taddeo da Nicolò Ceriani, Haly da Shi Zong, Elvira da Giulia Della Peruta e Zulma da Silvia Pasini. Doti sceniche e vocali che hanno esaltato, accanto all’inevitabile vis comica della vicenda, quelle suggestioni orientali di cui dicevo prima, ma cui non è corrisposta una regia che rinforzasse quello spirito. La scena era decisamente pop e di orientalista non aveva nulla; sembrava invece porre l’accento sull’elemento giocoso dell’opera con una scenografia che sembrava un giornaletto per bambini in stile Pimpa. Divertente, certo, ma un po’ straniante, mentre invece erano molto belli i costumi di Ugo Nespolo.
Altro il discorso della compagnia di canto, di livello veramente ottimo, formata da un gruppo di professionisti che accanto ad una splendida vocalità, ha saputo unire doti recitative di notevole livello, con gestualità e ammiccamenti che non hanno mancato di divertire il numeroso pubblico accorso per l’occasione. Pubblico che ha sottolineato con grandi applausi i momenti salienti della vicenda omaggiando i principali protagonisti come Lindoro (splendida la sua Languir per una bella), Mustafà (Che importa a me?, ottimo) o Isabella (splendidamente insinuante nel Qui ci vuol disinvoltura). Ma anche gli altri. Come non rimaner colpiti da un’Elvira spumeggiante come quella di Della Peruta o dalle doti vocali di questo Taddeo?
Ottimo spettacolo quindi e molto applaudito, quello andato in scena l’altra sera al teatro triestino, governato con autorevolezza dalla bacchetta del giovane George Petrou che ha diretto l’orchestra e il coro, a sua volta ben istruito da Francesca Tosi, con grande naturalezza.
Alla fine, applausi per tutti e numerose chiamate al proscenio.
Sergio Zolli © instArt