Continuiamo la nostra ricognizione degli eventi della rassegna udinese. Dal ricchissimo cartellone abbiamo scelto di accostare alcuni degli artisti più acclamati da critica e pubblico. Lo scopo non è quello di metterli a paragone o di sceglierne uno a discapito di un altro. Il motivo è più complesso e cerca di comprendere le modalità e i diversi approcci ad uno stesso genere e cultura musicale, che sostanzialmente ha le proprie radici nella tradizione della musica afroamericana e più specificatamente nel blues. Questo stile, meticcio per definizione, negli ultimi anni ha fatto terra bruciata dei generi cercando nuove forme e altre prospettive.

Un’antica leggenda, rispolverata recentemente dal chierico vagante Angelo Floramo in una delle sue meravigliose “zingarate”, racconta della presenza di Re Erode ad Aquileia, ospite di Ottaviano Augusto, pochi anni prima della venuta di Cristo e del possibile passaggio dei Re Magi in Friuli al seguito della stella che li portò in Terrasanta.

Cosa c’entri tutto questo con il Blues non è dato saperlo, ma qualche punto dove  le strade si intersecano (crossroads) è sempre possibile trovarlo, basta camminare. “Walking on the Blues”, proprio come dice lo slogan della 34 esima edizione della prestigiosa rassegna udinese che esplora da sempre i sentieri della musica d’ispirazione afro-americana nel suo senso più largo.
Visto che abbiamo iniziato così utilizzeremo la metafora dei Magi come filo conduttore per parlare di tre artisti le cui attesissime esibizioni sullo scenografico piazzale del Castello di Udine, sono state tra i vertici musicali della kermesse musicale. Sarà un modo divertente, simbolicamente significativo e forse solo un po’ eccentrico di parlare di vere e proprie epifanie in musica e del loro giusto valore, almeno si spera. Solo per dare qualche indicazione, l’ultimo album in studio di Fantastic Negrito “White Jesus, Black Problem” riflette a fondo sulle problematiche religiose e la schiavitù in America. Cory Henry rielabora la tradizione Gospel con il suo organo Hammond con grande afflato mistico.
Dang! Daniele Fasano (batteria) Marco Scipione (sassofoni) Gianni Rojatti (chitarra)
I tre non sono certo i Re Magi cui accennavamo, ma sono ugualmente validissimi artisti che hanno introdotto nel modo migliore la serata di Fantastic Negrito, così come nel 2022, sempre al Castello di Udine, alla loro prima esibizione in trio, fecero un infuocato opening act per Steve Vai. La loro musica è molto piacevole e “beverina” fatta di lunghi assoli, atmosfere rilassanti e notturne, cariche di energia elettrostatica. Scipione anticipa molti brani dal suo primo album solista di prossima pubblicazione. Rojatti, eccellente chitarrista nostrano, con sonorità alla Andy Summers, scherza amabilmente con il pubblico gigioneggiando tra un assolo e l’altro: “E non si dica che non sono un intrattenitore, vi sto facendo impazzire!” Stupendo e davvero raro il suono del sax contrabbasso imbracciato da Scipione durante un brano che doveva decisamente moltissimo ai Police. Il genere che propongono i Dang! spazia moltissimo dal mero raffinato intrattenimento salottiero al metal più etereo e virtuosistico. Fasano e la sua batteria, a tratti sferragliante, regala ritmi coinvolgenti e intriganti. Molti dei brani eseguiti erano inediti, bellissimi strumentali molto dilatati e cinematografici con suggestioni dal pop più colto e levigato degli anni ’80; non se ne può più, ma continua ad avere una sua piacevolezza inconfessabile, vero e proprio “guilty pleasure”.
Oro: Fantastic Negrito (Voce, chitarra) Bryan Simmons (tastiere) Andrew Levin (chitarra) Clark Sims Gaines (basso) Scott Keller (batteria)
Tra i Re Magi provenienti dall’Oriente, Baldassarre nell’iconografia è rappresentato come un giovane africano che simboleggia  la grande sapienza del Continente Nero e porta in dono l’oro, il più prezioso degli elementi riservato ai Re. Nessuno più di Fantastic Negrito merita il titolo di sapiente e di prodigio dell’Africa. Essere nato Xavier Amin Dphrepaulezz a Oakland in California nel 1968 è solo un caso della storia, poco più di un dettaglio. Con la sua straordinaria arte di Bluesman incarna tutta l’energia e la forza della diaspora africana, attraverso la sua voce e la sua musica parlano tutti quei milioni di neri che strappati alla loro esistenza si sono dovuti inventare una nuova identità sotto il giogo della schiavitù. L’artista californiano è propriamente un profeta, “Colui che parla davanti al popolo indicando la via della giustizia e della libertà”. Lo stato di segregazione, l’apartheid, la razzializzazione non sono per nulla fenomeni storici del passato, ma condizioni che permangono e si moltiplicano nelle cosiddette società avanzate, perchè è proprio su queste tragedie che si sono fondate come elementi necessari alle loro dinamiche strutturali contemporanee. Chi avesse qualche dubbio non dovrebbe far altro, per quanto riguarda gli Stati Uniti, che dare un’occhiata ai film di Jordan Peele, una scorsa al programma elettorale di Donald Trump o alla repressione in atto nelle università contro i movimenti per la pace. Per quanto riguarda l’Italia basta ricordare i ghetti di Rosarno, Cassibile e Rignano dove migliaia di braccianti senza alcun diritto raccolgono i pomodori che condiscono i nostri spaghetti. Ascoltare la musica di Fantastic Negrito significa interrogarsi su tutto questo, comprendere che le antiche radici del Blues sono ramificate ed estese a tutto il pianeta e che l’arte ha ancora un significato profondo nel nostro tempo disanimato dall’omologazione e dalle crudeltà di un sistema di potere economico e politico che non è mai stato così feroce.
Lo sciamano di Oakland si è presentato sul palco con la sua incredibile band, con un cappellaccio in testa, i pantaloni a righe e le bretelle, con l’aria di un Medicine Man indiano un po’ sciroccato, tra tribalismo e innovazione. Carismatico, ipnotizzante nei suoi gesti e movimenti, lisergico, ti risucchia immediatamente in un vortice di emozioni incredibili con il suo robusto blues elettrico e distorto, caricato a mitraglia da tastiere a lunga gittata. E’ un suono che ubriaca fin dalle prime note per la sua altissima gradazione. La band è una vera e propria astronave che punta allo spazio profondo dal quale sono caduti sulla terra alieni come Sun Ra e James Brown. L’esibizione è un viaggio interstellare tra Pianeti Funkadelici. Fantastic Negrito è molto, molto energico e nel breve giro di qualche brano è capace di condensare tutta la tradizione della musica americana, dagli Appalachi alle strade di Detroit, dalla Grande Mela al San Francisco Bridge con tutto quello che ci sta in mezzo, comprese influenze caraibiche e creole con un giro del mondo in musica in otto minuti primi come nemmeno ad un Jules Verne in acido sarebbe venuto in mente. E’ capace di ballad dolcissime come quella che recita:  “I’hope somebody is loving you in the deeper way” quasi Motown cui segue immediatamente un incandescente funky “Shake your body, lose your mind” , da perdere davvero la testa, e poi ancora blues sudato e maniacale alla John Lee Hooker. Il performer ha condotto il suo entusiasta uditorio in un luogo di mistica ispirazione: “Where Gods of Africa meets the Ghosts of Mississippi” evocato dal brano “Honest Man”, stellare, psichedelico e dalla forza tellurica inimmaginabile. Tutte le storie raccontate negli album di studio dell’artista, ci guidano attraverso il suo personale vissuto nelle vicende degli ultimi e degli emarginati delle periferie del mondo, anche quelle psicologiche e interiori. Sono questi i luoghi oscuri della sua ispirazione ben presenti nella sua poetica, proprio per questo spesso la sua musica appare scura, vischiosa, oracolare, perturbante.
Lo sciamano di Okland si è rivolto al pubblico parlando dell’origine di “California Loner”, un nuovo brano inedito che farà parte di “Devil in my Pocket” in uscita a settembre che si annuncia epocale. “Quando avevo 12 anni mio padre smise di parlarmi e poco dopo morì, adesso sono io a volergli parlare con la mia musica per dirgli – Fuck you and I love you – entrambi possono stare insieme” Come avrebbe detto Catullo: “Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia. Non lo so, ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato”.
Non si può resistere troppo a Fantastic Negrito stando seduti, se ne stupisce infatti pure lui. E allora tutti sotto il palco a ballare e sudare con l’odore della salsiccia alla piastra che viene dal chiosco dei paninazzi che “Ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle” proprio come la musica ribelle ed ha l’effetto di un alimento iperenergetico condito con la mescalina. Mentre la torcida si scatenava, uno spettatore delle prime file che ci aveva dato dentro con le birrette, calato il berretto sugli occhi, se la dormiva alla grande, insensibile alle sferzate sonore e ai ritmi dello spettacolo. Anche questo contrasto fa parte della musica dal vivo, è sempre questione di ebbrezza, di prospettiva e di rapimento “mistico e sensuale”. Un’altra inedita sad sad song “Son of a Broken Man” è una tristissima ballad che forse  si riferisce forse proprio a quell’ubriaco stravaccato  sulle poltroncine. L’ultimo esplosivo brano sembrava una danza di guerra pellerossa: “People, we are just people. you and I”. Come diceva Malcom X: Vogliamo ottenere la libertà con tutti i mezzi necessari. Vogliamo ottenere la giustizia con tutti i mezzi necessari. Vogliamo ottenere l’uguaglianza con tutti i mezzi necessari”. La musica è proprio uno di questi mezzi necessari.
Incenso: Gary Clark Jr. 
E’ scritto nell’Apocalisse (8,3): “Poi venne un altro angelo e si fermò all’altare, reggendo un incensiere d’oro. Gli furono dati molti profumi perchè li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull’altare d’oro, posto davanti al trono. E dalla mano dell’angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi”. Le prime sensazioni del concerto sono state proprio di tipo liturgico da fine dei tempi, a partire dall’intro sciamanica, angosciante, urbana e futura. Il corposo ensemble schierava, oltre al leader, tre vocalist con maracas, live electronics, tastiere, batteria, chitarre distorte e ipnotiche.
 “We gotta Move in a New Direction” canta Gary Clark jr considerato, a torto o a ragione,  una delle punte di diamante della scena blues contemporaneo. Grida ancora: “It’s time for a new revolution” come si fa a dargli torto? Il mondo che viviamo è davvero sull’orlo della catastrofe, con piaghe ed esodi che definire biblici è quasi un eufemismo. Sentirsi abbandonati, nostalgici e bluesy non è più un’eccezione, ma quasi una condizione quotidiana. Gary Clark con la sua “Posse” sa anche essere classico e texano. Con un altro brano in scaletta sogna la via di fuga come generazioni di “Gente sua campagnola” – “Gonna catch that train”, sappiamo bene cosa significano le rotaie, il ritmo e il fischio del treno per la storia della musica afro-americana. Non è un caso che il chitarrista abbia sviluppato le proprie potenzialità proprio nello stesso orizzonte che videro Blind Lemon Jefferson (si fa per dire), Lightnin’ Hopkins, Leadbelly, Big Mama Thornton e sotto lo stesso sole che vide più recentemente germinare il genio di Stevie Ray Vaughan. Il primo paragone, però, che viene in mente ascoltando la sua musica eccentrica e variegata come il gelato con le marasche, è quello con Ben Harper, ma è solo una suggestione passeggera; Gary Clark è un ottimo chitarrista, ma la sua pasta è tutt’altra. Certo il suo blues è estremamente contaminato e aperto ad un’infinità di influenze che vanno dalle radici più profonde nelle Muddy Waters fino alla luce dell’Africa e alle strade delle metropoli americane, ma pur avendo una carriera di grandi consensi e riconoscimenti non sembra ancora brillare sufficientemente di luce propria. L’impressione è che stia ancora esplorando le sue enormi possibilità dando voce ad un talento in costante evoluzione e divenire. A Udine, qualche iniziale, piccolo problema di amplificazione non gli ha impedito di esprimere al meglio il suo chitarrismo dai toni erratici, sincretico e spericolato quel tanto che basta. Qualche strizzatina d’occhio al pop come nel brano “Hyperwave” e altri non ha guastato di certo. Gary Clark non ha un virtuosismo eccessivo e petulante. Rivolgendosi al pubblico dice: “Do you like stuff tipe Blues Yeah” e sono subito suoni da slide guitar; nonostante la superband e la strumentazione eccellente il suono rimane comunque  abbastanza ruvido e perfino sporco e polveroso in certi accenni volutamente approssimativi giocati sui riverberi, ma proprio per questo efficacissimi. E’ decisamente uno Slow Hand, forse non è un grandissimo show man ma ha classe da vendere.
Canta “This music is my illness this music set’s me free”, sono proprio le parole che ogni appassionato di blues vuole sentirsi sussurrare. C’è anche tanto soul nella sua musica e il suo canto in falsetto non viene certo dal Delta del Mississippi. Fantastic Negrito ha sicuramente fatto scuola anche per lui e prima di lui si sente aleggiare la presenza di “The Artist Formerly Known as Prince.”
Dice al pubblico “I Have a little Wine in me and I feel to play some Funky”…come nella canzone del nuovo album (JPEG Raw)  cui ha collaborato nientemeno che Stevie Wonder, “Facciamola e vediamo come va”. Naturalmente è andata benissimo e ai suoi lunghi assolo si sono avvicendati quelli del tastierista, per un suono denso e levigato con brani lunghi piacevoli e non stereotipati. Il suo virtuosismo non è mai esibizionistico e fine a se stesso, ma sempre misurato e in perfetto interplay con i suoi musicisti. A volte ci tiene a far vedere quant’è bravo ma è più che normale; è suo “il nome sul manifesto”, e poi se non si è un po’ narcisisti non si suona la lead guitar, ma qualcos’altro. Dell’entusiasmo e delle autentiche ovazioni che gli ha tributato il pubblico è sembrato stupirsi perfino lui che dopo i canonici bis è sceso subito in mezzo ai fan a firmare autografi e a stringere mani.
Birra: Cory Henry and The Funk Apostles-Music For Your Soul. TaRon Lockett (batteria) Josh Easley (basso) Nicholas Semrad (tastiere) Cory Henry (tastiere e voce)
La Mirra nei tempi antichi veniva utilizzata per balsami e unguenti preziosissimi oppure per essere mescolata al vino per pozioni particolarmente inebrianti. Per un banale gioco di parole e relativamente all’esibizione di Cory Henry, più prosaicamente, gli abbiamo preferito la Birra, anche per richiamare uno dei dischi di blues all’italiana più famosi del mondo “Oro, incenso & Birra” celebrato recentemente a Udine da Zucchero in una delle tappe del suo “Overdose D’Amore World Tour”.
Il suonatore di Hammond B-3 che fu a lungo tastierista dei funambolici Snarky Puppy ha estasiato il pubblico del Castello di Udine con un’esibizione ad alto tasso di divertimento. L’ultimo album di Cory Henry “Church” elaborato su riflessive musiche religiose ai più sembrava promettere tutt’altro. Bisognava solo ricordarsi della sequenza del reverendo James Brown “Can you see the light” nell’epocale film “The Blues Brothers” di John Landis, nella quale si canta e si danza la gloria del Signore ad un ritmo travolgente con la luce divina che scaturisce anche dal suono dell’organo.
Cory Henry fin dall’inizio ha infatti continuato a ripetere: “I want Every body to be Happy…Do you understand, I mean EVERY BODY!” e così è stato. Il suono dell’Hammond ti entra direttamente nel cuore e non è proprio possibile tener fermi le mani e i piedi. Morbidi, morbidi nella prima parte dell’esibizione, l’hanno accompagnato il basso, la batteria e un’altra tastiera. Sembrava un’intera orchestra anche per tutti i registri che l’organo può coprire nel medesimo istante, ed è l’intera voce di un’epoca che suona insieme a loro. Tutta la platea batte le mani e sembra urlare: “Si ho visto la luce!” proprio come Joliet Jake/John Belushi nel film che abbiamo citato. Nella prima parte non sembrava nemmeno un concerto in un’arena estiva, ma una funzione religiosa con tanto di sermone. Comunque la band ha saputo  essere solare e torrida in piena sintonia con la temperatura della notte di luglio. Alcuni brani sono apparsi più canonicamente Jazz main stream con momenti pop molto raffinati e lounge che ricordano alcuni lavori degli Snarky Puppy. Discutibile l’eccessivo utilizzo del vocoder autotune che ha abbassato parecchio il livello dell’esibizione, ma che, unito a beat martellanti e ossessivi molto dancefloor anni ’80, ha fatto la delizia della maggior parte del pubblico, mesmerizzato dai ritmi meccanici e disumanizzati della macchina, spingendolo ancora di più verso una danza indiavolata sottopalco.
Con tutto il rispetto del caso, l’essenza metallica di questo modo di processare la voce elettronicamente ricorda quello dei laringofoni per tracheostomizzati ed ha fatto decisamente il proprio tempo. È decisamente più gradevole ed estatico il suono vetroso delle valvole dell’Hammond B-3, anche se è paradossalmente riuscito l’imprevedibile effetto complessivo che Cory Henry voleva trasmettere: un’interessante ibridazione tra Computer world alla Kraftwerk e Future Shock di Herbie Hancock. Niente male, ma con almeno quarant’anni di ritardo.
L’ingresso delle tre Vocalist “On the Beach they are Wonderful” è servito a scandire le parti dell’esibizione. Decisamente più interessante la prima; scatenata, svagata e godereccia la seconda. Le tre cantanti sembravano essere state scelte anche per incarnare altrettanti tipi femminili che dal punto di vista fisico estetico più diversi non potevano essere, ma con in comune una voce assolutamente straordinaria. Esprimevano il soul più caldo che si sia mai ascoltato da vere Funk Sisters: “Every Body play’s the Fool” (Tutti, tutti fanno i matti!) ed è stato proprio così. La formula ha funzionato e divertito in un mix tra funky innestato con soul e disco music d’annata. Il genio di James Brown e di Prince non erano tanto lontani, ma ciò che è contato davvero è stato “Scuotere quel ben di dio che mamma ti ha dato…Shake what’s your Mama gave you!” come ripeteva il riff di un brano molto allusivo e seducente. Come scriveva Gadda nel “Pasticciaccio”: “Co quer petto, co quell’anima de culo”.
“I want you to feel the Holy Ghost” continuava a ripetere il pastore Cory Henry dal palco mentre tutti ballavano. “Sai che lo spirito Santo è con te quando hai voglia di muoverti e tenere il ritmo!”
Amen fratello Henry, Amen e Alleluja!
Flaviano Bosco per instArt 2024 ©