“Non servono tante parole” per riferirsi alle Giornate del cinema muto di Pordenone, i superlativi sono già stati usati molte volte per quello che è uno dei migliori festival del cinema del mondo. Non è per nulla un’esagerazione, lo dice anche l’autorevole blog “Silent London” di Pamela Hutchinson. Chiunque lo abbia frequentato almeno una volta lo può testimoniare. Si resta senza parole dalla gioia di vedere tanti appassionati, studiosi o semplici curiosi rimanere a bocca aperta davanti ai gioielli del muto proiettati in sala, che, come ognuno sa, tanto “silenziosi” non sono perchè accompagnati da meravigliosi pianisti che suonano dal vivo e in alcuni casi, da intere compagini sinfoniche come l’Orchestra San Marco di Pordenone.

Molto interessanti, come sempre, i temi delle retrospettive interne al festival. Il principale di questa edizione era: “Echi transatlantici” e cioè come si influenzarono i comici del cinema pionieristico dalle due parti dell’Atlantico. Anche allora la VII arte era di origine derivativa e risultato di continue rielaborazioni e contaminazioni. Davvero intrigante è stato vedere le radici europee di famosissime gag di Charlie Chaplin, Buster Keaton, Harold Loyd e molti altri.

Molto divertente anche la breve rassegna: “Diverbi coniugali” che ha presentato alcuni pellicole d’epoca relative ai conflitti di coppia che da sempre fanno ridere il pubblico in sala e disperare a casa.

Per comodità la lunga recensione di alcuni dei titoli che hanno affollato il calendario delle proiezioni è stata divisa in quattro parti. Non si cerchi forzosamente un filo conduttore tra le pellicole selezionate perchè in molti casi è stata semplicemente la curiosità di fare nuove scoperte per avere conferma del piacere che possono dare e delle suggestioni che possono far germinare.

Cominciamo con un grande western d’annata che ha reso giustizia ad un’autentica star ormai dimenticata.

The Fox di Robert Thornby (Us 1920, 62′)

Harry Carey era una luminosa star del west sul grande schermo del muto; simbolo stesso della frontiera americana, in realtà era nato nel Bronx a New York. Era un eroe di celluloide con pistola e cappellaccio, amatissimo dal pubblico e dalla critica che lo identificava con il genere.

Non ebbe quasi rivali nel cinema western pionieristico e la sua figura, nell’immaginario degli americani, fu insidiata e poi sostituita solamente da quella dell’inarrivabile John Wayne.

Mentre stava girando il fondamentale “In nome di dio” nel 1947, John Ford, “Deus ex machina” della Frontiera americana in tutti i sensi, si espresse con grande favore verso di lui ricordandone la scomparsa.

“The Fox” è un western sontuoso e fantasmagorico anche per l’epoca. Nella prima sequenza si vedono un treno, cavalli, carri, automobili, un orso al guinzaglio di un ambulante per un paesaggio della frontiera americana che doveva essere quasi contemporaneo. Infatti, alcuni dettagli ed elementi della sceneggiatura (armamenti, automobili, personaggi storici, ecc.) situano precisamente l’azione agli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale.

Se non fosse che in tutto il film non ci sono nativi e nemmeno persone di colore, si potrebbe fare un paragone contemporaneo, mutatis mutandis, con “Killers of the Flower Moon” di Martin Scorzese (Us 2023) almeno per l’eccentricità di alcune situazioni e per la non aderenza al canone narrativo classico.

Nel primo caso perchè il canone era ancora in via di composizione, nel secondo perchè ormai è del tutto destrutturato. Le due pellicole possono essere considerate agevolmente come l’alba e il tramonto di un genere che non vedrà mai la propria notte. Se “L’assalto al treno” (Us 1903) di Edwin S. Porter è considerato il primo film western della storia, è “Il cavallo d’acciaio” di John Ford (Us 1924) a sancire convenzionalmente l’inizio della golden age del genere il cui filone tra inabissamenti carsici ed emersioni non si è per nulla esaurito.

La trama del film racconta che in un piccolo paese sulla Frontiera ai bordi del deserto, arriva uno straniero senza nome che poi si scopre chiamarsi “Santa Fe”; non si sa da dove viene e nessuno se ne cura.

In una delle prime sequenze, il vagabondo, dimostrando buon cuore, difende un trovatello dalle angherie di un ambulante che lo sfrutta per chiedere l’elemosina. Santa Fe, in un certo senso, finisce per “adottare” quello che chiama “Pard”; nasce così una simpatica coppia di straccioni.

Si sviluppa un bel rapporto ed entrambi finiscono in cella dallo sceriffo. La figlia di quest’ultimo Annette che, nel frattempo si è innamorata del bel straniero, lo difende perchè è buono con il bambino.

Lo sceriffo gli offre un lavoro, ma trattiene il bambino in cella. Santa Fe diventa portinaio della banca locale, ma anche uomo di fatica, lava e pulisce le sputacchiere (se ne ricorderà Howard Hawks per il personaggio di Dude “Borachòn”/Dean Martin nel meraviglioso film “Rio Bravo”).

Casualmente scopre una truffa del direttore in combutta con altri delinquenti grassatori e mafiosi.

I malvagi che turbano l’idillio paesano sono la banda delle “Rupi dipinte” che agiscono in combutta con l’insospettabile direttore della banca che truffa e taglieggia i propri clienti facendo ricadere la colpa sui banditi. Lo sceriffo, che non riesce a venire a capo dell’ingarbugliata situazione, viene incolpato di negligenza e minacciato di licenziamento e persino velatamente sospettato di connivenza con la banda, mentre le trame sono ben altre.

Nella prima parte “The Fox” è un western urbano anomalo rispetto al canone fordiano che come abbiamo detto stava per fiorire. La pellicola ha un deciso twist narrativo quando l’azione si sposta tra le montagne desertiche fuori dal paese tra le quali la banda si nasconde. Stupendi gli esterni del deserto del Mojave, forse l’udinese Carlo Gaberscek, archeologo dei set e tra i massimi studiosi del western a livello mondiale, saprebbe raccontarcene qualcosa.

Santa Fe trova lavoro anche nella migliore e peggiore taverna del paese, anche perchè ce n’è una sola!

Una sera alcuni membri della banda calano in paese per divertirsi e siedono alla taverna dove lavora Santa Fe che, credendo di fargli un torto e provocarli, prepara loro un caffè corretto con una generosa dose di pepe e di tabasco. Non si aspettava proprio che l’incandescente bevanda gli piacesse, tanto da chiederne dell’altra.

Il bandito è cattivo con il bambino e finisce a mazzate. Fanno a pezzi la taverna che non è il solito saloon cui ci hanno abituato tante pellicole, con le porte ad ante oscillanti, il bancone con dietro lo specchio, i giocatori di poker, il whiskey e le donnine; è una sorta di anonima, disadorna tavola calda con solo qualche tavolino, tutto il resto con le epiche scazzottate tipiche del “fagioli western” doveva ancora venire e meno male.

La colpa della rissa e dei danneggiamenti ricade su Santa Fe così lo sceriffo si risolve a cacciarlo dal paese. I tre banditi, ormai ubriachi anche se pesti, non hanno finito di far danni e, girando per il paese addormentato, capitano a far danni incredibilmente nella tranquilla biblioteca; ad averne la peggio questa volta è proprio lo sceriffo che, intervenuto per sedare una nuova rissa, viene ferito dagli sgherri della banda. Il prode Santa Fe che non ha lasciato il paese interviene e salva la situazione soccorrendo lo sceriffo, catturando due banditi e mettendo in fuga il terzo.

Per questo Santa Fe diventa vicesceriffo. Nel frattempo, il direttore di banca truffaldino che teme si scopra l’ammanco cerca di far ricadere la colpa su un giovane impiegato fatto rapire dalla banda delle “Rupi dipinte”.

Inizia una seconda parte tutta in esterni con una tempesta di sabbia in cui restano coinvolti Santa Fe e lo sceriffo all’inseguimento della banda per risolvere il caso una volta per tutte.

Santa Fe si avventura nella tempesta da solo. A casa pregano per lui. Il mattino (passata è la tempesta) riesce a raggiungere le alture del deserto dove una formazione rocciosa molto particolare ha al suo interno il villaggio dei dannati.

Un’immensa cavità con un unico ingresso con dentro perfino un ruscello in pieno deserto. Si scopre che Santa Fe è un agente dei servizi segreti in missione in quei luoghi proprio per sgominare la banda delle “Rupi dipinte” e ripulire il paese dalla corruzione. “Sotto un tetro sole che copre il rosso sangue di una ruvida nuda roccia.”

Per sgominare la banda nella sua roccaforte viene chiesto l’intervento della cavalleria che arriva, naturalmente all’ultimo istante, a risolvere la situazione ingaggiando una dura battaglia con i feroci banditi; il tutto con sparatorie e grandi cavalcate nel deserto. Lo scontro è lungo e sanguinoso con “ondate di piombo e freddo acciaio”, ma poi Santa Fe scala la montagna, e con la dinamite fa saltare tutto aprendo una breccia così che la cavalleria possa passare, finalmente ed avere la meglio.

Si fa notare per la sua insolita incongruenza con l’immaginario western cui siamo abituati, la mitragliatrice leggera Lewis da 550 colpi al minuto con caricatore a disco, adottata dall’esercito americano dal 1913, cui vengono dedicate molte, insistite sequenze anche particolareggiate, al pari di quelle dedicate al glorioso U.S Rifle, caliber 30, model 1903 (M1903 Springfield) ad otturatore girevole, il fucile per antonomasia dell’esercito americano rimasto in uso dal 18 giugno 1903, con alterne fortune, fino alla fine della guerra del Vietnam.

Queste precisazioni di balistica, non sembrino solo fissazioni ipercinefile, l’epopea della Frontiera americana, nella realtà e sul grande schermo, è stata costruita, senza alcun dubbio, proprio a partire dall’utilizzo delle armi da fuoco, dai Long Rifle ad avancarica fino alle armi automatiche. Grandissimo esperto, appassionato e collezionista d’armi di questo periodo fu Sergio Leone e nei suoi film si vede eccome.

Sempre nella pellicola, la cavalleria che arriva sulla cresta della collina all’orizzonte è composta, come detto esplicitamente, da veterani delle Argonne (offensiva Mosa Argonne 11/11/1918) e di Chateau Therry (battaglia di Château Thierry 18/07/1918, una delle prime battaglie americane sul fronte della Marna).

Nella realtà facevano tutti parte delle leggendarie American Expeditionary Forces in Europa sul finire della Prima Guerra mondiale, guidate del generale J.J. Pershing che sul campi di battaglia del fronte franco-tedesco si dimostrarono purtroppo tragicamente inesperti, inadatti, scontando gravi carenze tattiche.

Vinta la battaglia, sgominata la banda, liberato l’ostaggio e tornati in paese, anche la truffa bancaria viene risolta per il meglio con l’arresto del direttore.

Santa Fe sposa Annette la figlia dello sceriffo e il piccolo vagabondo viene mandato alla scuola militare vestito da soldatino in una scena molto patriottica. Nell’ultima sequenza i due sposi se ne vanno con il calesse verso l’orizzonte, come nel finale di Ombre Rosse.

L’Atlantico negli anni ’20 non era una Frontiera invalicabile e alcuni film delle Giornate di Pordenone hanno dimostrato quanto la VII arte abbia saputo far avvicinare le due sponde continentali contribuendo a costruire quell’immaginario comune che oggi condividiamo.

From Hand to Mouth di Alfred J. Goulding, prodotto da Hal Roach(22′, Us 1919)

Harold Loyd, che probabilmente scrisse anche la sceneggiatura di questa deliziosa pellicola, interpreta Will, il solito giovane timido, di belle speranze e senza un soldo. Come ogni povero che si rispetti, ha una fame atavica. Quasi come pena del contrappasso, visto che è in bolletta, gli tocca solo guardar mangiare gli altri dalla vetrina, sopportando stoicamente, all’occorrenza, corse a perdifiato, in fuga da legioni di poliziotti a piedi o in bicicletta.

Visto che “chi si assomiglia si piglia” Will finisce per competere e poi fare coppia con una turbolenta bambina di strada, una monella dagli occhi dolci con un cane zoppo che gli contendono i magri pasti elemosinati.

Due avvocati si mettono d’accordo per far perdere l’eredità ed intascarsela ad una ragazza di buona famiglia che prova molta compassione per il povero Will, tanto buono e sfortunato.

I delinquenti al soldo degli avvocati, in combutta con il maggiordomo e la cameriera cercano di approfittare dell’ingenuità di Will (Harold Loyd) per rapire la ricca ereditiera che perderà tutto se non si presenterà a firmare l’accettazione della favolosa eredità entro la mezzanotte come nel giro del mondo in 80 giorni.

Naturalmente Will aiutato dalla sua monella e dal cagnolino riusciranno a sventare l’inghippo non senza capitombolarsi per tutta la città, saltare, correre, fare mille giravolte in una frenesia comica da lasciare senza fiato.

Nell’ultima sequenza i nostri eroi, finalmente siederanno a tavola per mangiare divorando ricche e sontuose portate. E vissero anche loro felici, satolli e contenti e anche il cane zoppo trovò la sua bella barboncina.

En Sølvbryllupsdag (Nozze d’argento, DK 1920, 17′) di Lau Lauritzen

Alcuni elementi di trama e lo sviluppo generale della sceneggiatura di questo divertente film danese sono talmente simili alla precedente pellicola con Harold Loyd da far pensare ad una filiazione diretta o ad un qualche antecedente che li accomuna.

Mr. Gommesen e Mrs. Ludovica Gommesen, una coppia attempata e sovrappeso, interpretata rispettivamente da Oscar Stribolt e Olga Svendsen, attori comici di grande fama nei paesi scandinavi dell’epoca, si svegliano nel letto matrimoniale, a Copenhagen, è il giorno del loro 25 anniversario.

Appena alzati in un batter d’occhio passano dai bacetti del risveglio ad una furiosa litigata. Lei lo rimprovera, lui si imbestialisce e la insulta pesantemente.

Lei senza badare ad eufemismi, dice: “Sei un bastardo, pigro e viziato!”

Da vero gentiluomo, lui risponde: “E tu sei una vacca, anzi un oca di mare vecchia e squallida.”

Con grande garbo lei controbatte: “Sei un uomo rozzo e demotivato, me ne vado non mi vedrai mai più!”

Finisce che lei davvero se ne va di casa piangendo. Lui, passata la rabbia, non sa darsi pace.

Inaspettata arriva la visita di uno strambo avvocato che deve consegnare loro una grossa eredità dal proverbiale anche a quelle latitudini “Zio d’America”. La somma potrà essere incassata solamente se la coppia potrà dimostrare di essere ancora felicemente unita. Mr. Gommesen ha così un motivo in più per riconciliarsi con la moglie e si mette a cercarla per tutta la città, disperato lasciando l’avvocato a casa ad aspettarli con abbondanti liquori e sigari. Mrs Ludovica intanto è a casa di un amica che cerca di consolarla nel pianto.

Lui gira ovunque e dopo mille avventure, peripezie, inseguimenti e i soliti capitomboli la ritrova, la riporta a casa dall’avvocato, ormai completamente ubriaco, e vissero felici e contenti, dopo aver incassato tanti bei dollaroni.

Molto belle le immagini in esterno di lui che la cerca, per le strade di Copenhagen; finisce anche per interrompere un serissimo incontro pubblico tra suffraggette del KFP che se la prendono a morte. Corre in mezzo al vero traffico della città, oppure tra i marinai di un’autentica corazzata ancorata al molo. Divertentissima l’irruzione in uno stabilimento balneare per sole signore con prole come il Pedocin a Trieste.

Con grande tatto, lo scalmanato marito chiede elegantemente: “Bambine avete visto entrare allo stabilimento una signora, brutta e grassa?” Naturalmente lo prendono a sberle, quando ci vuole, ci vuole.

In alcuni momenti, la pellicola scandinava fa venire in mente una serie di film di trent’anni dopo, molto italiani, come quelli dedicati alla famiglia Passaguai, con Ave Ninchi e Aldo Fabrizi, coniugi rotondetti, che se ne dicono bonariamente di tutti i colori per poi teneramente fare la pace con un bacetto.

Le Torchon Brûle ou une querelle de ménage di Romeo Bosetti (Fr 1911, 5’21”)

In un pugno di minuti, che però sembrano non finire mai, la pellicola è davvero in grado di segnare una distanza temporale e psicologica facendoci avvertire il peso di tutto il secolo che ci separa da essa. Quella della comicità è una dimensione culturale propria di ogni società e molto legata al momento storico al quale appartiene.

Le commedie di Aristofane che facevano ridere a crepapelle gli antichi greci o le Atellane con le quali si sganasciavano i Romani oggi ci lasciano indifferenti nelle loro versioni originali e letterali, così come, e si perdoni l’accostamento, alcune comiche pionieristiche che divertivano negli anni dieci, ma che oggi appaiono politicamente davvero scorrette.

A meno di non essere dei sadici, due coniugi che si picchiano selvaggiamente, a lungo e con crudeltà, oggi non fanno ridere, ma provocano un senso di inquietudine; allora, invece, non doveva essere raro assistere al pestaggio di una donna, poteva essere considerata una “questione scottante” sulla quale sghignazzare impunemente.

Nel film, in un interno, moglie e marito litigano e volano i piatti e tutto il resto dalla finestra. Sotto due poliziotti si beccano tutto in testa. I due coniugi se le danno di santa ragione, si azzuffano per tutta la casa, rotolando avvinghiati dappertutto, fino a cadere dalle scale continuando la zuffa per la strada; se le danno rotolando per la città sena curarsi di nessuno, neppure delle auto che gli passano sopra, cadendo perfino nelle fogne senza mai dividersi nella lotta. Dopo essersi azzuffati per tutto il paese ritornano a casa sempre picchiandosi. Davvero surreale e a tratti perfino disturbante, improponibile oggi.

Per non tradire lo spirito cinefilo, a voler proprio cercare qualcosa nel cinema contemporaneo da paragonare a questo relitto del passato si potrebbe pensare alle tarde commedie all’italiana come “Amore mio aiutami” nella quale il solito Alberto Sordi, regista e attore, prende violentemente a schiaffi la povera Monica Vitti, o meglio, la sua controfigura in quel film, Fiorella Mannoia.

Negli anni ’70, “Le Torchon Brûle” era il titolo di una famosa rivista del femminismo intransigente e militante francese che si scagliava violentemente contro la pusillanime morale della famiglia borghese e il sistema patriarcale.

Cretinetti che bello! Di André Deed (Italia 1909, 4 min)

Cretinetti (André Deed) si prepara per andare ad un ricevimento nuziale vestendosi in modo stravagante. Esce di casa con un enorme, ridicolo cilindro in testa e scarpe con una punta lunghissima.

Le donne che incontra per strada, vanno in visibilio per lui, sono tutti uomini travestiti, lo amano, lo seguono assatanate, nessuna riesce a resistergli. Alla fine lo fanno a pezzi come delle Baccanti, ma lui si ricompone come Dioniso.

Deed fu davvero uno dei pionieri assoluti del cinema, avendo cominciato la propria carriera nel 1901 alle dipendenze di Georges Mèliès come attore comico della Pathé per poi passare alla torinese Itala Film; interpretò in oltre 90 cortometraggi il personaggio di Cretinetti che gli diede grandissima fama tanto che il suo nome finì per diventare un sostantivo nel lessico italiano utilizzato come epiteto bonario. Si ricorda Franca Valeri e Alberto Sordi ne “Il vedovo” di Dino Risi (Italia 1959).

Certo quella di Cretinetti era un tipo di comicità molto grossolana, ma, se paragonata a quella attuale, sa trasmettere ancora quello stupore infantile e quella ingenua sorpresa che dovevano provare quei primi spettatori delle farse sul grande schermo. Allora il cinema era ancora adolescente, era nato ufficialmente quattordici anni prima in un caffè di Parigi e stava muovendo i primi passi malcerti. Eppure possiamo ancora immaginarcele quelle sonore, irripetibili risate di quel pubblico che poteva ancora distinguere le buffonate di un “cretino” sullo schermo da quelle dei tanti nella vita cosiddetta “reale”, a noi “Non ci resta che piangere”.

“Non servono tante parole” è uno dei motti di questa edizione delle Giornate, è proprio vero, lo dicevamo all’inizio; ora che siamo nell’explicit almeno di questa prima parte ci accorgiamo che contraddicendoci, ne abbiamo scritte fin troppe e che perciò, i gentili lettori dovranno avere la bontà e la pazienza di seguirci anche nelle prossime puntate di queste riflessioni sulla rassegna pordenonese.

(continua)

© Flaviano Bosco – instArt 2024