La sera del 29 maggio 1997, nuotando nel Wolf River, canticchiando Whole Lotta Love dei Led Zeppelin, l’ottimo cantautore Jeff Buckley andò incontro al suo tragico destino annegando a 30 anni mentre era all’apice della sua carriera di musicista. Era il figlio di Tim Buckley, grandissimo genio della psichedelia ma pessimo padre che l’aveva abbandonato ancora prima che nascesse. Jeff lasciava, oltre ai milioni di fans, una ragazza che lo amava disperatamente.

Vent’anni prima, su Rai uno, a partire dal 15 aprile 1978, andava in onda un telefilm americano che ha affascinato almeno una generazione di piccoli telespettatori italiani, penetrando in profondità nel loro immaginario di adolescenti prepuberi. Pepper Anderson, Agente speciale, aveva come protagonista la “valkiria” Angie Dickinson abilissima agente della polizia di Los Angeles. Era una vera novità nell’asfittico panorama delle televisioni italiane. L’agente Pepper ha turbato la gioventù di molti italiani per raggiungere l’apice nella famosa torrida scena di Vestito per uccidere di Brian De Palma.

Cosa c’entrano questi due fatti così apparentemente distanti con il concerto di qualche sera fa al Capitol di Pordenone è presto detto. Joan Wasser fino al maggio del 1997 era stata una violinista turnista in molte band dell’underground newyorkese ed era legata sentimentalmente a Jeff Buckley, la cui scomparsa la gettò in una profonda prostrazione che sfogò mettendosi a cantare tutto il proprio dolore.

Dopo varie esperienze tra le quali quella con Antony and the Johnsons, fondò un trio con l’ottimo batterista jazz Ben Perowsky e il bassista Rainy Orteca. Un’amica le disse che si vestiva proprio come Angie Dickinson nella famosa serie di cui sopra, da qui l’idea del “Joan as Police Woman”, il resto è storia.

Da allora ha pubblicato dieci album un live, un album triplo con nuovi arrangiamenti di vecchi brani e ha avuto un attività concertistica praticamente continua e inarrestabile che solo il maledetto virus ha potuto frenare. Nel 2019 prima che tutto si fermasse aveva visto la luce dell’incisione la sua collaborazione con il genio della batteria afrobeat Tony Allen. “The solution is restless”, pubblicato nel 2021, raccoglie quelle sessions che sono la colonna portante del tour europeo che ha fatto tappa a Pordenone. Nel frattempo però il “dio di tutte le cose” o chi per lui ha aggregato nella sua band celeste anche il batterista nigeriano.

Anche se quelle bacchette sono assolutamente insostituibili, non hanno per nulla sfigurato i musicisti che hanno accompagnato Joan Wasser, a partire dall’eccezionale Parker Kindred già con Antony & The Johnsons e con il suo Jeff Buckley; non da meno il funambolico bassista Benjamin Lazar Davis dalle ritmiche imprevedibili e spesso bizzarre; Eric Lane alle tastiere ha garantito atmosfere lisergiche, psichedeliche e post rock.

Il primo brano in scaletta “Get My Bearings” si è aperto con un giro ossessivo di basso volutamente sgradevole, tanto da sembrare stonato, poi, alle dolcissime note del pianoforte, si è sovrapposta la ritmica della batteria tutta in contro-tempo sulla quale si è insinuata la particolarissima voce di Joan, la “donna poliziotto” più famosa e creativa della musica. E’ stato uno scivolamento da una sorta di caos in “diagonale” verso un ordine che ne conservava la pulsione originaria.

Tutto l’album è permeato da una volontà lirica di comprendere le rigide leggi del mondo fisico, che a qualcuno potrà sembrare velleitaria o di maniera. Come ha dichiarato lei in una recente intervista: “a poetic understanding of quantum physics” (comprensione poetica della fisica quantistica). La parte più infinitesima della materia ci si presenta come punto o come onda e non è possibile decidere cosa sia più “vero”, così come nella vita reale non esistono verità monolitiche o soluzioni definitive e rigide. In “Geometry of you” la pianista newyorkese canta: “I’m formulating the lines, Making assumptions, Creating Hypotheses, when the solution is restless, How do you like it?”. Quando si parla di emozioni e di sentimenti, niente è come sembra, il “pensiero geometrico” viene meno, e, anche se ci basiamo su ipotesi e assunti perfettamente lineari, la soluzione resterà sempre imprevedibile e multipla, a differenza di quello che diceva Baruch Spinoza nella sua “Ethica more geometrico demonstrata”, pace all’anima sua.

Certo c’è anche dell’ironia nelle sue parole ma è bene che qualcuno ci ricordi ancora una volta che i “numeri non si possono amare” in un mondo come il nostro dove sembra valgano solo i numeri, le statistiche e gli indici di borsa o quelli epidemiologici; dove si misurano in percentuale anche le terapie intensive come se bastasse un calcolo ad arginare o comprendere le sofferenze delle persone. Non serve nemmeno accennare alle ciniche, aride quantificazioni riguardanti gli orrori dell’ennesima guerra cui stiamo assistendo.

Anche se la vocalità di Joan as Police Woman è del tutto diversa, già dopo i primi brani del concerto la mente corre subito alle performances di Joni Mitchell con il suo super gruppo degli anni 80 (come nell’album Shadows and Light); non sembri un’esagerazione e si tenga conto naturalmente delle differenze ma l’approccio alla creatività è il medesimo per raffinatezza e cura delle composizioni.

E’ immediatamente evidente che abbiamo a che fare con il talento straordinario di una fuoriclasse; un palcoscenico come quello del Capitol non mente, il musicista è davvero a “portata di mano”, la dimensione del club è l’ideale per giudicare da vicino la stoffa di un artista, e con Joan non ci si sbaglia, lo si capisce subito. Come dicevano gli antichi: “Rara avis”.

Sul palco è completamente a proprio agio e tra una canzone e l’altra dialoga con il pubblico con grande ironia, prendendosi il proprio tempo anche per concedere ai propri musicisti gli attimi necessari per risistemarsi o ai roadies di ovviare a qualche immancabile fastidio tecnico

Dice “Sono da poche ore nella vostra splendida città e giusto per vostra informazione sono single e pronta a sposarmi!” oppure “Suoneremo una canzone pornografica in omaggio ai trascorsi a luce rossa del locale.” Come i pordenonesi sanno bene, fino a poco più di dieci anni fa, la sala ospitava le proiezioni per gli appassionati del genere e finì per fallire in modo piuttosto misero per mancanza di spettatori. Oggi è rinata dalle proprie ceneri trasformandosi nella migliore realtà per la musica dal vivo della Regione, sia dal punto di vista della qualità delle proposte in cartellone sia dal punto di vista, strettamente, ludico-ricreativo: pochi piaceri eguagliano il fatto di potersene star comodi su divanetti di pelle, come a casa, ad ascoltare fantastica musica dal vivo magari bevendosi anche una bella birretta.

Quando Joan imbraccia la chitarra, tanto per restare alle similitudini, il pensiero va ad Ani Di Franco anche lei musicista dalla “sterminata” creatività. Si perdonerà per questi paragoni che possono sembrare superflui o di maniera ma che, in realtà, servono a fissare un orizzonte entro il quale Joan si muove con assoluta originalità e libertà. Certo le sue fonti di ispirazione e le sue collaborazioni di altissimo livello, da Lou Reed a David Silvian giusto per dare un’idea, traspaiono in bella evidenza dalle sue composizioni.

Una dei suoi vezzi più caratteristici è quello di fare delle cover dove stravolge e reinterpreta completamente il brano originale dando vita a qualcosa di completamente nuovo e spesso anche incongruo ed estemporaneo come è possibile verificare, oltre che nei suoi live, in ben due album che ha dedicato esclusivamente alle sue versioni delle canzoni degli altri; memorabile e davvero personale la “sua” Fire di Jimi Hendrix.

In questo caso, lo si è potuto constatare ascoltando una meravigliosa, sghemba versione di “Sweet Thing” di Bowie che racchiudeva tutto lo spirito stradaiolo, ambiguo e ribelle di un album capolavoro della musica come “Diamond Dogs” riportando il brano all’originale probabile ispirazione alla Lou Reed.

La musica è una raffinatissima commistione di generi e di soluzioni musicali non catalogabili, che sembrano in perenne mutazione, sensazioni che si evolvono, trasformano e fioriscono da luoghi intimi a ambienti luminosi in un continuo scambio tra ombre nel sole. Le sonorità sono di certo urbane e spesso notturne, alcuni brani per stessa ammissione della cantante, sono stati composti canticchiando e fischiettando in bicicletta nelle notti newyorkesi, nel caldo delle notti estive di quella città che non stupisce possa fare da sottofondo alle note della “Police Woman”.

Mentre si alternano brani in levare assolutamente ballabili con altri molto più introspettivi, Joan continua a dialogare divertita con il pubblico raccontando di essersi sorbita un meraviglioso gelato al pistacchio per colazione in una delle gelaterie del corso e di averlo stemperato poi con tutta una serie di espressi che l’avevano resa euforica per il concerto: “Pordenone magic moments”, non è difficile crederle.

Non poteva mancare il bis con inizialmente Joan in splendida solitudine al piano verticale e poi nuovamente con i suoi musicisti. Alla fine il pubblico era assolutamente consapevole d’aver assistito all’esibizione di un artista come poche che sa divertire e intrattenere mai in modo scontato attraverso una ricerca musicale raffinatissima che traguarda i generi verso la musica del futuro che come sempre sarà sostenuta dal grandissimo talento e intelligenza di artiste come Joan oppure non sarà.

Per i completisti la scaletta del concerto ha previsto: Get My Bearings, Take Me to Your Leader, Masquerader, Hard White Wall, Sweet Thing, Geometry of you, I Keep Forgettin’, Let it Be You, Feed the Light, Tell Me, Dinner Date, The Barbarian, The Magic, (Bis) We Don’t Own it, Why can’t we Live Together, Holy City.

Flaviano Bosco © instArt 2022