L’attore romano Ascanio Celestini ha fatto tappa al Teatro Pasolini di Cervignano con un intenso, vibrante monologo civile dedicato a Pier Paolo Pasolini, poeta di Casarsa. Celebrando giustamente i cento anni dalla nascita di una delle menti più geniali del XX° secolo, si moltiplicano le iniziative, gli spettacoli, le pubblicazioni, le chiacchiere, gli sproloqui più meno interessati.
Fa davvero impressione scoprire che così tanti italiani s’interessino di una figura intellettuale così ruvida e acuminata, non sembra vero che tanti esponenti della cosiddetta cultura mainstream si riconoscano e citino le opere del poeta come se le avessero davvero lette.
I suoi libri si vendono oggi perfino in edicola allegati a giornalacci buoni nemmeno per incartare il pesce al mercato rionale. E’ uno dei grandi misteri del belpaese. Fino a qualche mese fa tutti gli italiani come un sol uomo si dilettavano di esegesi dantesca e occupavano tutto il loro tempo a declamare le terzine del Poema Sacro, oltre che a discutere ad alto livello di virologia e teorie del complotto. A crederci veramente il nostro paese sembrerebbe la patria della riflessione e della poesia lirica e d’impegno civile. Ma non c’è da preoccuparsene troppo, non è di certo così, l’Italia è la stessa di sempre, quella con “il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa”, fatto di gente capace di sputare sui propri intellettuali e sui propri poeti che dovrebbero essere rispettati e ascoltati come coscienza critica della società e che, invece, vengono sbeffeggiati, dileggiati e oltraggiati ad ogni bava di vento che cambia, per poi essere regolarmente rimpianti quando è troppo tardi.
Proprio in questi ultimi mesi si insultano e minacciano Massimo Cacciari, Giorgio Agamben e Donatella di Cesare, tra gli ultimi, solo perché osano mettere in dubbio anche minimamente le propagandate verità assolute dell’oligarchia che domina la penisola. Allo stesso modo si sbeffeggiava e umiliava in ogni occasione Pier Paolo Pasolini; perfino il Friuli, che lui tanto amava, non lo ricambiava affatto e, in realtà, se ne “impipa” pure adesso, ma è talmente ipocrita e pusillanime da non volerlo ammettere.

Quando il 2 novembre 1975, nel 53° anno dell’era fascista, quello che restava del cadavere di Pasolini fu rinvenuto come “’Na busta de stracci” sul litorale di Ostia, molti, in cuor loro, furono contenti, gran parte degli altri pensò che se l’era cercata e solo una piccola, isolata minoranza capì davvero cos’era successo. Non solo era stato straziato un grandissimo poeta ma si era assassinata la speranza di più generazioni; l’assassinio di Pasolini, infatti, è solo uno dei tanti strazianti episodi dell’assurdo melodramma che è la vita del nostro paese, da sempre palcoscenico di efferati giochi di potere che sembrano non cambiare mai e nemmeno finire. Basta riguardarsi “Salò e le 120 giornate di Sodoma” l’ultimo, durissimo film di Pasolini, per capirne le dinamiche “eterne” come il fascismo di cui parlava Umberto Eco.
Il racconto di Celestini sulla vita del poeta è inarrestabile, perfino convulso, scorre impetuoso come un fiume in piena, dilaga come un’alluvione, una forza della natura scatenata che trasporta e travolge tutto quello che incontra sul suo cammino; è una grandinata fitta-fitta di immagini, situazioni, colori, ambienti in forma di parole scroscianti e sorgive, esattamente come quell’aghe frescie dal me pais dalla quale sgorga la poesia di Pasolini.
A volte la prosa poetica teatrale di Celestini diventa densa e scura, opaca e oleosa come il petrolio. E’ proprio il vischioso, viscido, glutinoso idrocarburo, con tutte le sue caratteristiche, ad essere la perfetta metafora del ragionare dell’attore sul palcoscenico e di quello del poeta nei suoi ultimi mesi di solitudine nella torre di Chia.
Solo qualche mese fa, Walter Siti, che da almeno quarant’anni si occupa di studiare, pubblicare e divulgare l’opera letteraria di Pasolini, ha licenziato una nuova versione filologicamente corretta ma di certo non definitiva dell’opera monstre cui il poeta stava lavorando da almeno un decennio. Il romanzo “Petrolio” è volutamente incompleto, frammentario, magmatico e forse destinato già dall’autore a rimanere “opera aperta” in divenire e programmaticamente indecifrabile.
Il lavoro che l’autore si era proposto era quello di rendere indistinguibile la realtà letteraria da quella che ci pare davvero concreta quotidianità.
Il pretesto narrativo che Celestini ha scelto non poteva essere più seducente ma in fondo anche banale. A parlare del Poeta è il custode di un immaginario Museo Pasolini che contiene alcuni oggetti, eredità immateriali che ricordano la parabola artistica ed umana dello scrittore friulano d’elezione, che si fanno notare per la loro assenza. Come la traccia vuota che lascia un vecchio quadro sulla parete quando lo stacchiamo dal muro o come la scia di una particella elementare in una camera a nebbia di Wilson, l’elettrone è passato ma nessuno è riuscito davvero a coglierne la traiettoria se non attraverso le tracce che ha lasciato nella sospensione di alcool isopropilico.
Pasolini durante tutti gli abbondanti 130 minuti dello spettacolo è fisicamente del tutto assente. Si dirà che è inevitabile per un museo immateriale dedicato ad un poeta assassinato quarantadue anni fa, ma non è questo il senso dello spettacolo di Celestini.
L’assenza del Poeta è del tutto assordante, rumorosa, plateale ed esplosiva nella descrizione e rievocazione dei paesaggi umani, sociali e politici che la sua opera ha percorso. La sua figura emerge nei contesti che Celestini evoca: incontriamo Pasolini e la sua famiglia al cimitero di Casarsa della Delizia dove c’è “una strage di Colussi” tutti parenti suoi di parte materna.
E poi gli spettatori sono invitati a salire sul tram che tutti i giorni il poeta prendeva nei suoi primi anni romani per recarsi alla scuola di Ciampino dove insegnava, così da incontrare e dialogare con quell’umanità “de borgata” che corrispondeva agli interessi di Pasolini.
Sul palcoscenico si suggeriscono e tracciano i contorni di quella zona liminale tra estrema periferia della città e qualcosa che non può più chiamarsi tale, una frontiera porosa del possibile nella quale il Poeta trovava le aderenze tra il mito dell’origine e quello della fine che tanto lo intrigavano.
Di certo l’eloquio di Celestini sa essere a proprio modo anche lirico nella descrizione di luoghi e personaggi di “accattoni” del tutto pasoliniani come i due Sandroni che si “arrangiano” rivendendo “robba cascata dai camion” o “magnandose” alla brace tutti gli animali del circo, perfino l’elefante “barbiere”, ma il suo intento è del tutto civile e militante proprio come quello del Poeta.
Lunghe attente ricerche e una grandissima passione hanno permesso all’attore la ricostruzione “cronologica” della vita del poeta che corre parallela a quella della storia dell’Italia fascista e soprattutto anticomunista dal 1922 a oggi; la narrazione non si arresta per nulla a quella tragica mattina del novembre 1975 sul litorale romano, ma indaga, nella buona sostanza, quello che era stato sancito dalla marcia su Roma, ribadito nei patti lateranensi, bagnato nel sangue dei massacri della II guerra mondiale e pervicacemente proseguito e perseguito nella “strategia della tensione” da Portella della Ginestra a Piazza Fontana.
E’ proprio in questo contesto che Celestini inserisce la vicenda del massacro del poeta riconoscendolo parte integrante. Il fosco dramma non si esaurisce naturalmente quel 2 novembre ma continua con la nebulosa che va dal sequestro Moro, le bombe sui treni, la strage di Bologna fino alle vicende della banda della Magliana e di via dei Georgofili a Firenze e a tanti altri episodi che hanno segnato e tinto di nero cupo la recente storia del nostro paese.

Come non intravvedere una stessa matrice, quanto meno metodologica, nei fatti che vanno dal G8 di Genova al caso Cucchi? Così come esiste un filo sottile che lega le continue stragi nelle carceri, la gestione dell’immigrazione e la repressione poliziesca del dissenso. Anche l’efferato omicidio di Giulio Regeni, una volta di più, dimostra la fitta rete di sporchi interessi economici e politici che vedono implicato il nostro paese come pedina nello scacchiere internazionale.
Celestini allude a tutto questo focalizzandosi sul grande tema dell’anticomunismo originato a partire dagli anni ‘20 nel in Italia da quella perversa copula incestuosa tra le forze borghesi e quelle oscurantiste cattoliche che di certo favorì la presa del potere da parte dei fascisti ma che gli sopravvisse passando per la guerra partigiana, l’affaire petrolifero e il caso Mattei e, in sintesi, da tutta l’ingerenza angloamericana sulla politica italiana.
La storia e l’opera di Pasolini sono fittamente intrecciate a tutti questi avvenimenti, anche quelli accaduti dopo la sua morte che sono solamente un prevedibile strascico di un futuro con la faccia sempre rivolta alle proprie spalle del quale non riusciamo a liberarci e la cui deriva il Poeta aveva ampiamente previsto perfino nei dettagli e non perché era un profeta o un aruspice ma semplicemente perché era una persona onesta che aveva il coraggio delle proprie azioni e pensieri.
Gli spettatori di questa autentica performance artistica si sono portati a casa, assieme alla delizia e allo stupore di aver partecipato a qualche cosa di unico e del tutto originale, anche quella giusta inquietudine che deve spingerci sempre ad essere critici rispetto a quello che ci vogliono far credere. In Italia le perversioni del potere sono sempre state ben chiare, ognuno di noi ha sempre saputo quali sono gli uomini e quali no. Come scrisse Pasolini nel 1974 (Che cos’è questo golpe) anche noi dobbiamo dire:
Noi sappiamo. Noi sappiamo i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpe istituitasi a sistema di protezione del potere).
Noi sappiamo i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Noi sappiamo i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Noi sappiamo i nomi del vertice che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpe, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine gli ignoti autori materiali delle stragi più recenti.
Noi sappiamo i nomi del gruppo di potenti che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Noi sappiamo i nomi del gruppo di potenti che, con l’aiuto della CIA (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della CIA, si sono ricostruiti una verginità antifascista…
Noi sappiamo e abbiamo le prove.”

Flaviano Bosco – instArt 2022©