Tra magie sospese e miracoli dell’esoterismo in musica, le estese, rarefatte suite del Jakob Bro trio hanno anticipato l’edizione invernale di Udin&Jazz che nel primo weekend di dicembre riporterà la grande musica nel capoluogo friulano.

Non c’è il due senza il tre sarà pure una banalità ma, in alcuni casi, è una gran bella cosa. Il Jazz a Udine ha da sempre un nome e una garanzia tanto per restare in tema di frasi fatte.

L’associazione Euritmica ha davvero creato un pubblico, una tradizione e anche un’aspettativa sempre crescente che immancabilmente mantiene con proposte sempre all’altezza della propria fama. Nei tempi difficilissimi dell’epidemia è nata la nuova scommessa dell’edizione invernale della storica rassegna udinese. La sfida, contro tutte le sfortune possibili tra covid, cancellazioni, mancanza di finanziamenti, è sempre stata vinta a testa alta e questa edizione che è stata anticipata da un concerto a dir poco stellare, promette di continuare con i successi.

La rassegna ha riguadagnato lo storico teatro San Giorgio di Borgo Grazzano, un pezzo pregiato della cultura, non solo musicale, udinese. Per quanto riguarda Euritmica quelle mura trasudano ancora i suoni, tra i tanti, di Archie Sheep, Pharoah Sanders, Area e tanti altri fantastici musicisti, dolcissimi ricordi che riprendono corpo a partire da questa edizione.

Jakob Bro è un musicista che Manfred Eicher ha scelto come punta di diamante della sua prestigiosa casa discografica. La ECM (Edition of Contemporary Music), non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo, dal 1969 ha creato un nuovo orizzonte di suoni, oltrepassando la frontiera dei generi e dando un nuovo significato ai termini di eccellenza e di perfezione in ambito musicale.

E’ ben riconoscibile non solo dagli stretti appassionati, un vero e proprio stile ECM fatto di una propria atmosfera e un preciso gusto estetico e grafico. Avere tra le mani uno dei loro dischi è già un piacere quasi feticistico tanto è curato ed elegante a partire dalla foto di copertina o ai font utilizzati per le scritte. Quando la puntina si posa sui solchi del vinile o il diodo laser illumina la superficie d’alluminio del cd per leggerne i dati incisi, immancabilmente si spalanca un universo di raffinatissima bellezza, dalla musica classica, al Jazz fino alle propaggini più estreme della musica sperimentale contemporanea.

Storici capolavori come “Arbos” di Arvo Pärt (1979), “Music for 18 musicians” di Steve Reich (1978) si sommano ad una sterminata discografia di artisti come Art Ensemble of Chicago, Keith Jarrett, Jan Garbarek, Pat Metheny, Dave Holland, Anouar Brahem, John Abercrombie, Paul Bley e via di seguito.

Negli ultimi anni si è dato spazio ad una nuova generazione di musicisti d’altissimo livello che continua ad esplorare nuove geografie di suoni e di meravigliose emozioni; di questa fanno parte, senza dubbio, Jakob Bro, chitarrista danese di straordinario talento, e gli altri straordinari 2/3 del suo trio: Jorge Rossy (batteria) e Larry Grenadier (contrabbasso).

La manifestazione Udin&Jazz Winter #3 entrerà nel vivo il 07 e il 08 dicembre prossimi, sempre al Teatro San Giorgio, con uno straordinario programma dedicato al centenario di Pier Paolo Pasolini. Eccone, in breve, il cartellone:

Profezia è uno spettacolo omaggio tra parole e musica al poeta di Casarsa prodotto in esclusiva per il festival da Euritmica che prevede i testi di Fabio Turchini e le musiche di Claudio Cojaniz.

Nubi è un concerto tributo pensato dall’artista Marco Brosolo a partire dai testi di Pasolini e con la collaborazione dei musicisti Jacopo Zanette, Francesco De Luisa, Leo Virgili.

Soffia il cielo, riprende la celeberrima “Cantata per Pier Paolo Pasolini” di Giovanna Marini riarrangiata per le voci di Alba Nacinovich, Juliana Azevedo, Caterina De Biaggio, Laura Giavon.

Alle prime note del concerto di Jakob Bro, si avvertiva un ronzio audio piuttosto fastidioso e persistente che però si è subito smorzato grazie al solerte intervento dei tecnici del suono. Questo è stato l’immediato sottofondo ai primi evocativi accordi del chitarrista in grado con poche note di far dimenticare ogni ubbia, soprattutto con l’ingresso di Grenadier e delle bacchette di Rossy; il viaggio si è fatto immediatamente ancora più immateriale e fluttuante per un jazz dalle forme cangianti e luminescenti nella quale la ritmica scavava i propri percorsi accanto e quasi indipendentemente alle rifrazioni e dilatazioni d’accordi nel “lontano”.

La batteria, di tanto in tanto, s’avventurava in aggressive incursioni talmente intense, secche e violente da provocare perfino spavento in chi s’era abbandonato placidamente ai suoni rapsodici, sono stati strappi improvvisi alla tela sottile ordita a maglie finissime dalle corde del trio, ma è stata solo la fase iniziale dell’esibizione.

La chitarra, senza por tempo in mezzo, ha subito spinto verso un cambio deciso di rotta e di sonorità, inerpicandosi verso atmosfere celesti unite ad affilate rasoiate e colpi di staffile del contrabbasso, per sonorità che solo in superficie apparivano placide e pacificate cui l’elettronica garantiva gli strumenti necessari perché i suoni potessero “accadere” in forma di evento irripetibile.

In un contesto come questo la tecnica e il puro virtuosismo erano, naturalmente, superati dal talento e dal carisma inarrivabile dei musicisti che trasformavano le frequenze in metafisica con la fantasia delle loro dita.

Jakob Bro si è formato, come chitarrista di altissimo livello, a partire dai consigli del batterista Paul Motion con il quale cominciò a suonare da giovanissimo e che divenne il suo maestro.

Come ha dichiarato in una recente intervista, fecero senz’altro parte del suo processo di apprendimento e formazione i tanti aneddoti di Motion sui grandi artisti dell’ambiente jazzistico con i quali collaborò. Lo colpirono molto i racconti su Billie Holiday, Monk, Mingus; fondamentale anche la sua esperienza nel gruppo di Lee Konitz e, molto più di recente, quello con l’ensemble di Joe Lovano. Insieme a quest’ultimo recentemente ha inciso “Once around the room – A tribute to Paul Motian” fresco di pubblicazione.

Dopo averlo ascoltato nella formazione di Motian, fu Manfred Eiker a consigliargli di incidere a proprio nome con un trio creato per l’occasione. Jakob Bro fu quasi costretto a ripensare al proprio modo di rapportarsi con il proprio strumento e guidare la propria creatività verso nuovi traguardi. Cominciò con il mondo della musica fin da molto giovane quando suonava la tromba nella big band jazz del padre; avrebbe voluto suonare il sax tenore o il contrabbasso ma si decise per la sei corde dopo aver ascoltato i dischi di Jimi Hendrix che fu il suo primo “guitar hero”, solo in seguito vennero Abercrombie, Scofield e Metheny.

Nel suo quartiere di Copenhagen nessuno suonava la chitarra e questo lo escluse da un certo giro di amicizie musicali isolandolo nel suo stesso ambiente. Fu incerto sul proprio strumento fino a quando John Abercrombie in persona non gli scrisse una lettera dopo averlo sentito suonare. Le parole di un maestro così grande lo commossero e convinsero a dedicarsi seriamente alla chitarra tanto che andò negli Stati Uniti a perfezionare i propri studi il resto, come si dice, è storia.

Di Grenadier si dice che è profondamente intuitivo e che ha un fluido senso della melodia di certo ha un modo del tutto originale e riconoscibile di far vibrare le corde del contrabbasso ed è davvero difficile non essere d’accordo. Prima di approdare al trio di Brad Mehldau che gli ha garantito fama internazionale, ha collaborato anche lui con Paul Motian e Pat Metheny.

Si permetta una digressione per un significativo aneddoto sul contrabbassista; oltre ad essere un grande musicista ha anche una spiccata attenzione ambientalista che lo ha portato a mettere a disposizione la propria arte per un progetto di ripristino ambientale che condivide con John Scofield e che lo porta ad esibirsi per il “Riverkeeper’s annual Fishermen’s Ball” dello “Hudson River Rising”, concerti periodici che servono a sostenere la bonifica del fiume di New York, mortalmente avvelenato dagli scarichi della metropoli e praticamente morto a partire dagli anni ‘60.

Jorge Rossy è uno dei batteristi più eclettici e camaleontici della scena jazz planetaria, escludendo il suo sodalizio con Grenadier con il quale ha formato dai primi anni ‘90 al 2005, la sezione ritmica del Brad Mehldau trio, Rossy ha all’attivo un numero impressionante di collaborazioni che lo hanno portato a elaborare uno stile del tutto eccentrico fatto di poliritmie e tempi multipli davvero rari nell’attuale scena musicale.

A tanto virtuosismo alla batteria, corrisponde altrettanta carica alle percussioni che utilizza non in alternativa alle pelli ma come costellazione di possibili suoni da accostarvi. La sua è tutt’altro che una ritmica tradizionale e non mira strumentalmente alla matematica precisione o alla semplice perfezione della battute, ma a mantenersi pulsante e imprevedibile; dal vivo sembra seguire almeno una propria logica ritmico combinatoria con frequenti cambi di battuta, intarsi di percussioni e irruente esplosioni di volumi.

Il trio, in alcuni momenti, può apparire del tutto astratto, ma in realtà, ha i piedi ben piantati per terra; i loro sono suoni interstiziali, d’intercapedine, coesistono con le emozioni e le strutturano sostenendole. L’impalcatura del reale è fatta di attimi e suoni spirituali attraverso i quali l’essenza rarefatta dell’esistere si fa materia viva e pulsante.

Alcune armonie sono prevedibilmente dedicate a Manfred Eichert che come dicevamo è l’ispiratore delle sonorità più intense della musica contemporanea e quindi è stato tutto un susseguirsi di distorsioni, atmosfere translucide, suoni cupi, scuri, spezzati e contratti al limite del rumore, in un assoluta libertà di forma che taglia e spezza istanti ed emozioni..

Grenadier ha un suono tutto suo forse dovuto anche all’accordatura dello strumento e alla trazione sulle corde esercitata dalle chiavi. Il contrabbassista, in dialogo con Rossy, sembrava “suonare” una lingua che condivide solo con lui fatta di frasi sospese, spezzate per nulla armonizzate o narrative; su questo scambio che andava ben al di la di un qualunque tappeto ritmico si inserivano gli accordi errabondi del chitarrista che si sovrapponeva loro giocando decisamente un’altra partita in modo del tutto programmatico.

E’ particolarmente difficile capire esattamente cosa suonava il trio per quanto riguarda il genere; certo le atmosfere erano quelle sognanti e sospese così tipiche della ECM, come dicevamo più sopra, ma c’era anche qualcos’altro che rimane difficile da definire e che è refrattario a qualunque definizione, e non è solo un modo di dire.

Quello che gli spettatori del teatro San Giorgio hanno ascoltato, rimanendone come ipnotizzati, era qualcosa che andava oltre il retaggio della musica afroamericana e si muoveva in tutt’altra direzione e dimensione, il difficile è capire precisamente quali, anche se forse non è del tutto necessario; a volte non serve capire basta abbandonarsi alla deriva dell’ascolto e vedere dove ci porta.

La musica del trio è del tutto introspettiva e a volte sognante, ma la ritmica gli fornisce un senso di compressione e di forza inaspettati e, mentre la chitarra del leader respira circolarmente con ampi giri d’accordi ritornando continuamente su se stessa, la batteria e il contrabbasso si muovono per linee parallele determinando e moltiplicando ritmi e intersezioni.

I brani in scaletta erano tutti composti da Jakob Bro per le sue precedenti formazioni in trio, vediamone alcuni.

Gefion: Accordi e singole note come gocce di pioggia, rare, luminose e sonore da un cielo senza nubi che cadono sul selciato, su corolle di fiori, mentre la vita sembra quasi addormentata in un sogno che non vorremmo svanisse mai; più il brano procedeva e più si sentiva il desiderio di dissolversi in esso, disfacendosi in note, e poi gli arpeggi si facevano più larghi e distesi, sembrava quasi di galleggiare sospesi, nuotando nell’aria.

Oktober: per definizione, un brano autunnale, ma non di quella stagione che è solo un prolungamento dell’estate come è diventata da noi negli ultimi anni. L’ottobre danese è un vero e proprio annuncio dei rigori invernali e la musica ci aiuta a spegnere le ultime luci e a prepararci al tepore delle stufe nelle lunghe notti abitate solo da scricchiolii e dal rigido vento del nord. Non è ancora il gelo ma ci siamo quasi, non è difficile immaginare la neve che tra poco comincerà a fioccare.

Evening Song: è proprio alle ombre della sera che fa pensare molta musica del funambolico trio. La seduzione delle armonie è al servizio di una riflessione sul filo dei suoni, è una meditazione che si prende il tempo dei ritmi cadenzati del contrabbasso e non ha fretta di congedarsi nemmeno quando il brano scivola verso le tenebre notturne. Quando davvero è finito, sono passati alcuni interminabili secondi prima che a qualcuno passasse per la testa d’applaudire, troncando l’incanto.

Returning: l’elettronica introduceva quello che sembrava un incubo spiacevole e salmastro di una barca alla deriva in un mare nebbioso e agitato nel quale non sembrava esserci possibilità di alcuna direzione. La cacofonia perfettamente “free form” grazie alle distorsioni chitarristiche aveva attimi di parossismo psichedelico vicino ai momenti più anarchici della musica cosmica tedesca.

Mild: si passava poi ad un’atmosfera del tutto rarefatta, delicata e leggera come il cristallo di Boemia di un lampadario che ondeggia. Era un grande albero rovesciato i cui rami d’autunno respiravano nella lieve brezza di un tramonto, era una passeggiata in collina su un tappeto di foglie e ricci di castagne.

Copenhagen: la si immagina proprio così la capitale danese, delicata elegante, silenziosa con un suono di campane lontane, in una luce fredda limpida e glaciale; una città che ancora dorme nelle prime ore del mattino, vista dall’alto di una torre come in un film di Walter Ruttmann.

Red Hook: quello che il trio ha voluto rappresentare è uno spazio non cartesiano, in cui la desolazione di certi scorci si animi e cambi stato senza però mai perdere la propria natura minerale, vogliono rappresentare la voce di tutte quelle cose che si trasformano senza quasi che ce ne accorgiamo.

I “crescendo”, soprattutto della componente ritmica, creavano un’impenetrabile cortina di suoni nei quali non era quasi possibile districarsi, non restava che farsi catturare dalle emozioni abbandonandosi al flusso senza contrastarlo minimamente, non cercando di capire quello che si può solo sentire.

Certo ci voleva anche un pizzico di fantasia, ma bastava anche solo chiudere gli occhi e farsi guidare dal magnifico trio: “E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi! L’essenziale è invisibile agli occhi, ripeté il Piccolo Principe per ricordarselo”.

Spentesi le ultime note, dopo che si erano riaccese le luci in sala, non è stato facile ripiombare giù sulla terra; ci si è dovuti, poco alla volta, riabituare alla realtà prosaica dell’esistenza quotidiana, guadagnando l’uscita per scivolare di nuovo nel corso dell’irreversibile fiume del tempo.

© Flaviano Bosco – instArt 2022
© Foto Angelo Salvin