E’ vero, fa un po’ sorridere un festival invernale che si tiene a fine maggio con le maniche corte e gli aperitivi sotto gli ombrelloni. Fa piangere, invece, pensare a com’eravamo ridotti solo un anno fa: chiusi in casa, terrorizzati dal virus, sprangati e isolati con i pick up della protezione civile che dagli altoparlanti minacciavano orrende punizioni ai trasgressori del lockdown; i droni pattugliavano i giardini pubblici alla ricerca di criminali passeggiatori e gli elicotteri braccavano sulla spiaggia i terroristi dello jogging. Si poteva scendere a “pisciare” il cane attorno all’isolato però non era permesso far prendere una boccata d’aria ai propri bambini.
Se ci ricordiamo sgomenti tutto questo non dobbiamo stupirci se alcuni concerti programmati per tempo, sono slittati di qualche mese ma essere felici che l’ultima serata di Udin&Jazz Winter si sia svolta nel primo giorno di Zona bianca in Friuli Venezia Giulia.

Esagerando solo un pochino possiamo affermare a cuorcontento che Udin&Jazz ha dato l’ultima spallata al coronavirus e lo diciamo levando i calici nel nostro prosit a Euritmica che l’organizza e a Giancarlo Velliscig che lo ha creato.
L’ultima serata ha concluso una rassegna tutta superlativi, con fuochi d’artificio e mortaretti. Sarà stato anche perché avevamo tutti fame e sete di musica dal vivo dopo lunghi mesi di penitente astinenza ma davvero il rancio è stato tutto ottimo e abbondante. Euritmica ha voluto fare anche di più producendo addirittura lo spettacolo di un’orchestra di giovani realtà del jazz regionale, ottenendo uno strepitoso riscontro in termini di qualità e di consenso di critica e di pubblico.

Udin&Jazz Ensemble: Anime
L’Udin&Jazz Ensemble erede dell’omonima Big Band del festival è un insieme di undici elementi più voce recitante dalle straordinarie capacità compositive, esecutive ed espressive. Ne fanno parte giovani musicisti ormai affermati anche sulla migliore scena italiana del Jazz quali: Filippo Orefice, Mirko Cisilino, Emanuele Filippi, Max Ravanello, Mattia Romano e altri che non tarderanno a mettersi in mostra e a farsi notare.
L’ambizioso progetto musicale prevedeva la messa in musica di poesie e prose in lingua friulana e di un componimento in italiano della poetessa e cantautrice Giorgia D’Artizio di grande talento e dal carisma delicato. Poteva sembrare una scommessa scriteriata e fallimentare ma si è rivelata una puntata secca su un cavallo vincente.
Il risultato è stato di là di ogni aspettativa, quasi che i ragazzi non aspettassero altro, non solo per tirare fuori la testa dalla sabbia dopo un anno di privazioni e nascondimenti, ma per creare musica nuova per cuori nuovi al di fuori e al di la dei soliti schemi. Niente appiattimenti sui modelli afroamericani ma totale libertà di movimento nei territori della tradizione folkloristica nazionale ed europea. Così l’avevano pensato, così l’hanno realizzato.
Nel breve arco orchestrale, nel golfo mistico provvisorio sul palcoscenico, balzava subito agli occhi, una presenza femminile, inquietante e feconda, di una bravura da spellarsi le mani con gli applausi.
L’attrice Laura Giavon, dalla bellezza “facinorosa” barbara e gitana, in alcuni momenti, ha avuto le medesime espressioni di Tina Modotti. Sul palco è una specie di apparizione. Ha una presenza scenica, magnetica e istrionica, da attrice consumata ma, per fortuna, non ha la fastidiosa retorica accademica del gesto e dizione che hanno gli attori di scuola, tutti uguali, impettiti e arroganti nelle loro lezioncine imparate a memoria.
La Giavon non recita in senso scolastico ma interpreta. Il suo friulano, per esempio, non è quello fastidioso, artificiale e innaturale della Filologica ma l’autentica lingua madre con gli accenti giusti e la pronuncia pastosa e dolce. Sulle sue labbra le parole ricordano i sassi del fiume, le colline, le creste innevate, le vigne, i temporali e le primule. Raramente si può apprezzare sulle assi dei nostri palcoscenici un talento così cristallino.

Il concerto è cominciato sulle note composte dal talentuoso pianista Emanuele Filippi su una poesia di Maurizio Benedetti. Mentre la meravigliosa voce della Giavon interpretava le riflessioni di un quarantenne bullizzato da bambino, l’orchestra si inerpicava in un racconto di grande intensità che attingeva alla migliore tradizione melodica e bandistica italiana, quella, per capirci, dalla quale è scaturito il melodramma verdiano, rivista in chiave moderna; alcune composizioni orchestrali di Frank Zappa non sono sembrate lontane. Un posto deciso di primo piano hanno avuto i labiofoni con la tromba di Mirko Cisilino a svettare negli assoli.
La voce ripete gli ultimi versi come una nevrotica ossessione: “Però, insomp de storie/cun dute che borie/ ce sono deventas?” Dopo tanta arrogante superbia che ne è stato di loro? Ce lo chiediamo anche noi con una certa inquietudine e timore.
Mattia Romano, giovane chitarrista, ha composto un brano perfettamente mainstream da orchestre di Gil Evans, per una delle poesie friulane e italiane più strazianti e immaginifiche degli ultimi decenni: La Nâf Spaziâl di Federico Tavan.
Il poeta di Andreis (PN) era un folle abitato dal demone della poesia dionisiaca, uno degli ingegni più sublimi che le sassose terre del Friuli abbiano regalato all’umanità. E’ stato un puro essere di tenebra e di luce che dal chiuso della sua piccola camera/mondo si è aperto agli infiniti universi dello spazio interiore e cosmico. A bordo della nave spaziale della sua fantasia ha esplorato per noi l’immensità del cielo in una stanza:
E i passava li ores…/Intant jo incrosave/ steles e galassies e ucei strambus

L’Udin&Jazz Ensemble ha commentato splendidamente il viaggio spaziale contenuto nella poesia che la Giavon ha cavalcato, come Silver Surfer la sua tavola, diventando lei stessa una Dark Star come quella dei Grateful Dead, splendida e completamente pazza fino a commuoversi davvero agli ultimi versi. Aveva gli occhi pieni di lacrime mentre diceva sconvolta: “Ah Diu! ‘I son rivâz i umans!”
Una lunga tenebrosa suite composta dal mirabolante Mirko Cisilino ha poi illustrato in musica alcune storie dell’orrore della tradizione friulana. Cupe storie da raccontare ai piccoli impertinenti per farli desistere dai loro capricci o per terrorizzare gli adulti durante le lunghe serate invernali passate a scaldarsi e a ingannare il tempo davanti al focolare.

La paura era piacevolmente palpabile nella sala del Palamostre anche grazie alle musiche che evocavano le colonne sonore dei grandi capolavori dell’horror del cinema italiano degli anni ‘70 di compositori come Gaslini, Bacalov, Ortolani. Tra gli altri si distingueva nettamente la maestria di Filippo Orefice al clarinetto.

L’ultimo corposo set del concerto è stato dedicato agli eccezionali arrangiamenti di Max Ravanello per un componimento della poetessa Giorgia D’Artizio. Diverse personalità femminili si sono raccontate attraverso la camaleontica interpretazione della Giavon in un’orchestrazione cabarettistica, burlesque e circense nei più splendidi significati di questi termini. Quella che appariva attraverso le note era una marina felliniana con i suoi vitelloni a zonzo, la Saraghina, i preti, i carabinieri con il pennacchio e le bestemmie dei muratori, in un giro di pista sotto il tendone con i trapezisti la in alto a volteggiare.
Da non dimenticare i meravigliosi disegni che illustrano il programma di sala, opera del pittore Alfredo Pittoni, anche lui straordinario musicista e cantante, in arte Freddy Frenzy.
Speriamo in una prossima incisione su disco e di una tournée con molte date per uno spettacolo/concerto di grandissima qualità ed emozione.

Dario Carnovale Lift Him Up 4et feat. Fabrizio Bosso.
Simone Serafini, Contrabbasso/Klemens Marktl, Batteria/ Dario Carnovale, pianoforte/Fabrizio Bosso, tromba.
Dopo la canonica breve pausa, un altro concerto superlativo che chiude la prima edizione di una manifestazione con trent’anni di storia che si è proposta in una nuova formula.
Si è cominciato con la rumoristica del batterista austriaco Marktl tutta tintinnii, sfregamenti, mani che battono sulle pelli, colpi secchi di grancassa; all’improvviso sono entrati in scena Carnovale e Serafini e Bosso ed è stata subito magia. Si parte velocissimi, brillanti e precisi con un quartetto che trova il proprio vertice e gioiello nella tromba affilata e tagliente del musicista piemontese. Nessuno però resta indietro e non si fanno prigionieri in questa corsa forsennata e a rotta di collo sull’autostrada a quattro corsie del pentagramma.
Nessuna sfrenatezza però, i quattro virtuosi rimangono sempre in perfetto equilibrio e la loro forza espressiva non è mai a servizio dell’iperbole e dello sforzo atletico della velocità d’esecuzione. Gli inevitabili tecnicismi sono sempre al servizio della narratività e della chiarezza d’intenzione.
Non ci sono comprimari, i quattro si sfidano ma senza voler primeggiare ispirandosi al quartetto classico di Coltrane e agli Ensemble di Miles Davis; l’impressione complessiva che si ricava dalla loro esibizione, è quella di una freschezza cristallina senza troppi infingimenti e stucchevoli liturgie concertistiche.
La ritmica è sempre netta e chirurgica con le linee tracciate dal contrabbasso di Serafini che non si perde mai in gigionesche elucubrazioni ma, continuamente, tesse la struttura sulla quale gli altri suoi pari intrecciano le loro melodie.
I quattro sanno essere anche riflessivi e contemplanti, alcuni brani sono disegni del pomeriggio tutti tramonti e sospiri di un Jazz che non cerca scorciatoie, che costruisce e scompone continuando a tracciare linee d’orizzonte. Hanno un sacco di cose da dire attraverso la loro musica e lo dicono nel modo più comprensibile ed efficace.
I loro discorsi sono fatti di note e i loro versi sono musica e ritmi, non serve conoscerne a fondo la grammatica per apprezzare la loro lingua.

Nel frattempo, Serafini sembra avere un terremoto nelle dita, mentre il batterista cavalca un temporale, la tromba di Bosso diventa un lanciafiamme e lui un autentico sputa-fuoco. Carnovale da par suo esprime un pianismo liquido, fluente a volte irruento e bizzoso come un torrente tra le sue rapide, altre pacificato e largo, sempre splendente con dei gran prodigi di mano destra che corre la tastiera fino alle note più stridule e acute.
Il suono della tromba di Bosso sa però essere anche rotondo e ampio da riempire tutta la sala, orecchie e arterie di tutti i presenti compresi semplicemente intonando un refrain dolce e romantico.
Quella del quartetto è una musica lieta e luminosa, levigata al punto giusto, mai laccata e ben attenta a non cadere nella trappola del narcisismo esibizionista. E’ sempre il contrabbassista Serafini a tenere la barra a dritta continuando a tessere le prospettive dei nostri sogni fatte di corde pizzicate e angoli di strada.
Il concerto ha trovato il suo baricentro e punto di fuga nel preciso momento estatico nel quale il batterista, impegnato in un assolo astratto e cubista, ha fermato il riverbero dei piatti afferrandone i bordi con le mani; un brevissimo istante di silenzio e poi “stop and go” il gruppo è ripartito all’unisono in una torrida accelerazione da pedale a tavoletta. Indimenticabile!
Il combo ha sfoderato più volte tutta la fantastica artiglieria che possiede in un repertorio tra standard e composizioni originali fino a quando la tromba di Bosso ha intonato le placide note della Ninna Nanna di Brahms e allora buonanotte ai suonatori e al pubblico.
Un saluto e un ringraziamento ai tecnici, all’organizzazione e agli sponsor di questa stupenda prima edizione di Udin&Jazz Winter e arrivederci a presto.
Ops! Nei saluti e ringraziamenti finali ci siamo dimenticati di omaggiare l’amministrazione di Udine e ormai è troppo tardi. I malpensanti non credano che l’abbiamo fatto apposta, può succedere, così come la nostra distrazione ci impedirà per un pezzo di rimediare e chi vuol capire capisca.

© Flaviano Bosco per instArt