Polente against the machine” è l’ultima silloge poetica del poeta Trastolon “Autostoppista del magico sentiero”di San Giorgio di Nogaro noto anche per la sua attività di paroliere del duo musicale Rive no Tocje. Franco Polentarutti appartiene pienamente al paesaggio che lo abita come l’erba dei fossi, le canne di palude, l’acqua salmastra e il respiro dell’antica lingua che lo nutre. Le meravigliose, evocative fotografie di Luca A. d’Agostino che corredano e integrano il testo, esprimono perfettamente quell’appartenenza e quell’origine.

Le voci poetiche più autentiche del Friuli e dei territori di questa lingua di fango, tra le Alpi e l’Adriatico, sono sempre state vere e proprie Genius Loci, voci dei campi e delle sorgenti. Spesso sono state voci di Folli che gridano nel deserto dell’indifferenza del gregge di pecore che vive a testa bassa accontentandosi di brucare le amare erbe dell’angoscia e della sottomissione. Altre volte sono stati poeti d’Accademia i sedia a rotelle che hanno espresso tutto il loro dolore in versi aulici e sagomati; più spesso i nostri sassi sono stati cantati da burberi-divini bestemmiatori, alcolizzati dimenticati a vaneggiare in qualche angolo oscuro di un imperante perbenismo e riscoperti post mortem come candidi bardi puri come gigli.

La poesia di Polentarutti è, per fortuna, quella di un vivo e vegeto o che almeno si è accorto con stupore di essere ancora vivo a partire dal “Primo gennaio millenovecentonovantaquattro” come dice in un suo struggente, apocalittico componimento tra fuochi d’artificio e “ubriaconi dilettanti”

Le asprezze dei suoi versi non sono state ancora normalizzate e sbiancate dagli acidi della fama, della critica borghese e paludata. Stiamo parlando di un artista libero e fuori dagli schemi che è ancora capace di sognare e di disegnare il paesaggio cui appartiene con spontaneità e naturalezza, inseguendo a volo d’uccello i propri desideri, le proprie disperate solitudini con la forza delle sue mani da scultore della parola, da artigiano dei suoni e dei silenzi.

Nelle foto di d’Agostino, che ritraggono il poeta nella sua casa laboratorio-atelier-magazzino-forse alcova, di certo tana, a chi guarda bene non sfuggono due particolari che fanno comprendere immediatamente l’origine, la direzione e la prospettiva della sua ispirazione.

Sulla macchina da scrivere Olivetti 32 su cui Polentarutti compone ancora le proprie melodie in nero su bianco battendo sui tasti come un pianista del verso, fa bella mostra di se una foto appiccicata malamente con il nastro adesivo del vecchio Bukowski, il poeta delle disperate, ubriache notti americane con le mutande sporche, posaceneri pieni e una fuga di Bach alla radio.

Davanti al poeta sangiorgino che scrive prendendo luce da una finestra, un vecchio poster dal quale ci guarda un giovane Francesco Guccini, in questo caso, tra la via Annia e il West la cui immagine ritorna ancora tra appunti e liste della spesa appiccicate al muro di scabri mattoni.

E’ in questa iperbolica traiettoria tra la Beat Generation e Il Sociale e l’Antisociale da Folk Beat n° 1 che si situa la poetica di Franco Polentarutti che sa conquistare con la ruvida asprezza dei paesaggi interiori e che sa scolpire con il ferro e il martello, mentre “Piove napalm, bombe & moschetti/ Piove sangue & vita.

Le sue riflessioni sono spesso scure e notturne, hanno sapore di tabacco e di sconfitta davanti all’oscurità “E questo buio…annuncia un profondo che uccide e che nessuna lampada potrà illuminare”.

San Giorgio di Nogaro, 29/054/2020 – Il poeta Franco Polentarutti – Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency

E’ stupefacente, leggendo le sue righe, sentirlo battere sulla sua macchina da scrivere ad un ritmo costante e spesso severo in un silenzio meditabondo interrotto solo da un rombo lontano di autotreni e veicoli che passano su un’autostrada che taglia il verde dei campi agricoli come una cicatrice chirurgica, dritta come una coltellata al cuore. Sembra di sentire la sua angoscia salire lungo la spina dorsale come un’insonnia che non vuole abbandonarci.

Tra le sue parole è però anche possibile che esploda una dinamitarda primavera di fiori rossi che scoppiano nel nostro vivere e dai quali, nonostante le rassicurazioni, nessuno ci può proteggere.

Quella lingua di terra, tra le pietre dei monti e il fango della laguna che è il Friuli, sogna da millenni attraverso i propri poeti che non hanno mai fatto sentire la loro assenza. Un poeta è un luogo consunto della topografia immaginaria di uno spazio, sembra un refuso di stampa, una sostanza incongrua, una pietra d’inciampo, un ingranaggio che cigola.

Ma perché proprio a San Giorgio di Nogaro? Cosa c’è dietro alla fama di laboratorio culturale rivoluzionario che la città si porta dietro? Quale oscuro mistero si cela dietro quella ostinata Resistenza che coinvolge gli abitanti di quel lembo di Friuli sempre in direzione ostinata e contraria? Perché quelli là devono sempre così ammutinati, ribelli, rivoltosi, scostanti, insoddisfatti? Come recita un altro grande poeta: “Eppur parenti siamo un pò/ di quella gente che c’è li/ che come noi è forse un po’ selvatica/ ma la paura che ci fa quel mare scuro/ e che si muove anche di notte/ non sta fermo mai”.

Sull’ultimo numero on line della prestigiosa rivista letteraria Pulp libri, un interessante articolo di Stefano Raspa dal titolo: “Murray Bookchin l’ecologia sociale da Kobane alle nostre sventure” ricorda tra l’altro quando il circolo anarchico di San Giorgio di Nogaro: “Ecologia sociale”, ospitò nel 1984 un seminario del grande attivista e teorico del municipalismo ecologico e libertario che produsse un prezioso documento collettivo d’analisi socio-politica.

Con i “furibondi anarchici” sangiorgini, Bookchin stabilì un profondo legame di stima e di amicizia reciproca e le sue considerazioni contenute nel documento conclusivo del seminario costituirono a lungo il punto di riferimento delle attività di quella cellula di menti creative che qualche anno dopo ospitò una delle menti poetiche più lucide che il Friuli tutto possa annoverare: Federico Tavan. Il pensiero di quegli anarchici impenitenti è l’humus che ha nutrito la forte pianta della creatività di Franco Polentarutti e del suo sodale, compagno di tante avventure Fabrizio Citossi e di tanti “indiani” di quella meravigliosa zona libera tra la palude e il cielo. Tanta grazia è riassumibile in alcune delle riflessioni di Murray Bookchin contenute nel suo fondamentale “Per una Società ecologica”(Elèuthera 2021):

Ho sempre pensato che ecologia fosse sinonimo di ecologia sociale e perciò ho sempre nutrito la convinzione che la stessa idea di dominare la natura derivi dalla dominazione dell’uomo sull’uomo, o dell’uomo sulla donna, del vecchio sul giovane, di un gruppo etnico sull’altro, dello stato sulla società, della burocrazia sull’individuo, così come di una classe economica sull’altra e dei colonizzatori sui colonizzati…se non interverremo modificando anche i rapporti molecolari all’interno della società- e cioè quelli tra l’uomo e la donna, tra adulti e bambini, tra gruppi razziali diversi, tra etero e omosessuali (l’elenco potrebbe continuare a lungo) – il problema della dominazione resterà immutato anche in una forma sociale senza classi e senza sfruttamento…Finché durerà la gerarchia e finché la dominazione organizzerà l’umanità in un sistema elitario, l’obiettivo del dominio sulla natura non verrà mai abbandonato e condurrà inevitabilmente il pianeta all’estinzione ecologica”.

Il delizioso volumetto “Polente Against the Machine” che rimanda anche ad un bellissimo video presente suYoutube è pubblicato da Slou soc. coop., in collaborazione con New model Label, per Soul Coworking servizi, da un’idea di Stefano Buian, Luca A. d’Agostino e Govind Singh Khurana. E’ disponibile on line su https://www.facebook.com/soulservizicoworking oppure con una richiesta via e.mail a slouservizi@gmail.com

© Flaviano Bosco per instArt