Recita dell’11/12/2022

Cosa fare a Parigi se si è artisti squattrinati e scapestrati, mentre piove nei cieli bigi e il caminetto ingannatore non scalda, fa un freddo cane e si hanno ghiacciate le dita?

Lo sapevano bene “Gustavo Colline, il grande filosofo, Marcello, il grande pittore, Rodolfo, il grande poeta e Schaunard, il grande musicista”, i protagonisti delle avventure della vita da Bohème raccontate in una delle opere più rappresentate al mondo che ha avuto ancora una volta la gioia del palcoscenico del Verdi di Trieste che ne vide la prima rappresentazione nel 1899 a pochi anni dal debutto al Regio di Torino (1° febbraio 1896).

In realtà, i quattro giovinastri di grande avevano solo l’ambizione e la fame, s’arrabattavano per vedere riconosciuta la propria arte e intanto come dice Rodolfo: “In povertà mia lieta scialo da gran signore, rime ed inni d’amore. Per sogni, per chimere e per castelli in aria, l’anima ho milionaria.”

Insomma, vivevano d’arte e d’amore e capitava molto spesso che gli occhi belli delle ragazze gli rubassero il cuore, come cantano Rodolfo e Marcello: “L’amore è un caminetto che sciupa troppo e in fretta dove l’uomo è fascina e la donna l’alare…l’uno brucia in un soffio…e l’altro sta a guardare…Ma intanto qui si gela e si muore d’inedia!” è proprio così che si apre il primo dei quattro quadri nei quali è “fotografato” il dramma.

Ogni parte è proprio come un’istantanea in tempi diversi e successivi, della vita dei quattro giovani artisti e di due delle loro “morose”. Si è fatta notare fin da subito la maiuscola interpretazione del baritono Leon Kim, un convincente Marcello a pieni polmoni perdutamente innamorato della sua algida e bizzosa Musetta.

Tanti sogni a pancia vuota e una gioventù “facinorosa” che gli impone di sperare e di scommettere su un futuro di radiosa fama.

Ma, nel frattempo, a Rodolfo, il poeta che vive per scrivere e per vivere…vive per scaldarsi almeno un po’, non resta che bruciare, atto per atto, la sua ultima commedia, “bello in allegra vampa svanir”. Il tenore Alessandro Scotto Di Luzio, che lo ha interpretato egregiamente, ha saputo gestire con mestiere e con eleganza alcuni sempre imprevedibili cali di voce nei momenti meno opportuni.

D’un tratto, arriva Schaunard, il musicista, e risolleva la situazione, porta legna, sigari e vivande perché ha trovato un ricco inglese cui fare lezioni di musica che lo ha pagato profumatamente.

E’ la vigilia di Natale e il quartier latino è pieno di salsicce e leccornie. “Si beva in casa ma si pranzi fuori”.

Inaspettatamente, arriva Benoit, il padrone di casa a riscuotere la pigione arretrata. Lo lusingano e lo ubriacano, gli dicono d’averlo visto al Mabil, un localino equivoco, con una “donnetta allegra” che non è magra, “le donne magre son grattacapi…per esempio: mia moglie!”, continuando a prenderlo in giro lo scacciano come un reprobo, “Si discacci il reprobo” minacciando di far sapere a tutti delle sue scappatelle.

In tre decidono di andare finalmente a gozzovigliare per osterie mentre Rodolfo resta a finire un articolo che gli è stato commissionato.

Situazioni del genere Puccini doveva conoscerle per bene e dovevano essergli successe pari pari quando da giovane “scapigliato” divideva una misera stanza in affitto all’ultimo piano con Pietro Mascagni nella Milano da “bere” dei primi anni ‘80 del XIX sec. (1880-1883)

Entrambi allievi di Amilcare Ponchielli, al Conservatorio meneghino vivevano in grandi ristrettezze economiche. Grazie alla sfacciataggine del livornese Mascagni i due mangiavano spesso a credito in un caffè di via Manzoni. Un giorno un cameriere li minacciò: “Il mio padrone mi ha detto di non notare più!” e Mascagni dalla battuta fulminante rispose: “ E a noi cosa importa? Tenga a mente!” La battuta piacque anche al padrone tanto che decise di fargli ancora una dilazione. Non mancarono certo in quegli anni ai due giovani di belle speranze le avventure amorose.

Certo la Bohème sui Navigli non è la stessa di quella della Rive Gauche della Senna ma i richiami ai “beati anni del castigo” sono assolutamente evidenti sia nel libretto tratto da “Scènes de la vie de Bohème” di Murger, sia nella forza della musica e di certo nelle ambientazioni, dalla sordida soffitta sui tetti della città, al caffè Momus fino al cabaret della barriera d’Enfer tra carrettieri e lattivendole.

La Bohème (Vita da zingari in francese) in Italia prese il nome di “Scapigliatura” che come disse Cletto Arrighi nel 1862: “In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi v’è chi direbbe una certa razza di gente- fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni di ingegno quasi sempre, più avanzati del loro secolo…Questa casta o classe – che sarà meglio detto – vero pandemonio del secolo, personificazione della stordidaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la “scapigliatura milanese”.

Un altro riferimento diretto a quel movimento letterario di cui il giovane Puccini respirò l’atmosfera e che probabilmente rimpianse da affermato compositore è nel ritratto di Lucia che tutti chiamano Mimì e non si sa il perché. Quando Rodolfo la vede per la prima volta in sequenza canta: “Che viso d’ammalata! Si sente Meglio? (ammirandola) Che bella bambina!” Lo sappiamo bene che è “la gelida manina” che lo attrae “Questa beltà malaticcia sedusse Rodolfo” com’è scritto nel libretto di Giacosa e Illica.

Davvero tipico di quella temperie culturale l’ammirazione e la fascinazione morbosa per gli amori malati che ha come primo modello la Sarah Louchette del giovane Baudelaire: “Non ho per amante una leonessa illustre: il mio animo presta il suo splendore a una puttana; invisibile agli sguardi del beffardo mondo la sua bellezza fiorisce solo nel mio triste cuore.” Il poeta la descrive con una crudezza inaudita che fece scandalo allora, come una lebbrosa, calva, strabica, malata di petto, sporca, con il corpo scheletrico e la carne cadente. Certo niente di paragonabile alla povera Mimì di Puccini ma non troppo distante in verità dalla Fosca di Tarchetti e di certo tutte facenti parte di quella teoria di personaggi letterari di moderne “traviate” le cui camelie si sono definitivamente tramutate in fiori del male.

Anche se Puccini ammorbidisce certe posizioni sia con la dolcezza delle sue romanze, sia con una certa stilizzazione “pascoliana” di certe situazioni, è indubbio che nella sua poetica permanga un certo gusto del macabro e dell’orrido con gli inevitabili rimandi alla morte, alla malattia, al delirio, alla decadenza dei costumi.

Non è il caso qui di ridiscutere la vexata questio sulle “eroine pucciniane”, certo è che se traguardiamo la figura di Mimì con quella di Tosca, Madama Butterfly e Turandot ci ritroviamo un bouquet di rovi e di spine come pochi. Al contrario nell’interpretazione della soprano Lavinia Bini, semplice ed efficace, al Verdi si sono viste solo le rose dell’ingenua innamorata che di certo non guastano ma che paradossalmente appiattiscono il personaggio: “Germoglia in un vaso una rosa…foglia a foglia lo spio! Così gentile il profumo di un fior!”

Altro tema pregnante sia per la Bohème che per la Scapigliatura è quello del dualismo rappresentato da personaggi femminili di opposte inclinazioni: la “malatina” virtuosa caduta in disgrazia per avverso destino e la perfida mangia-uomini che hanno “una gran ghiacciaia al posto del cuore” disposta ad ogni compromesso per soddisfare le proprie voglie.

Naturalmente, nella prima riconosciamo Mimì, nella seconda il suo esatto opposto Musetta che anche nel nomignolo comunica qualcosa di animalesco; “Una bella ragazza di vent’anni…molta civetteria, un pochino di ambizione e nessuna ortografia…Delizia delle cene del Quartiere Latino”. Federica Vitali l’ha brillantemente incarnata con una verve spumeggiante che si è “rubata” il favore e gli applausi del pubblico negli abiti dell’Angelo azzurro nella scena con Alcinodoro al caffè Momus che la vede, infine, trasformata in una Marianna, portata in trionfo, avvolta dalla bandiera francese . E’ l’unica stravaganza che si è concessa Giulia Rivetti che ha curato i costumi con misura ed equilibrio.

In questo senso, il grande pregio degli allestimenti del Verdi è che non si calca mai troppo la mano sulla sfarzosità delle scenografie o sull’eccessiva ricercatezza dei costumi o dei movimenti di scena, tutto risulta sempre al servizio dell’opera e molto raramente alla sovrabbondante spettacolarizzazione delle situazioni.

E’ un particolare gusto per la sobrietà e per l’eleganza che contraddistingue sempre messe in scena godibili, mai sopra le righe. L’attenzione è sempre puntata sulla comprensibilità dell’intreccio, sulla musica e sul bel canto; è l’opera a prevalere sull’estro di registi e direttori artistici.

Nel caso di questa Bohème, la regia di Carlo Antonio De Lucia è stata di assoluto buon gusto, del tutto priva delle pericolose sguaiatezze che sovente riguardano il secondo quadro con le libagioni al caffè Momus o l’eccessiva enfasi data allo spegnersi della povera Mimì nel finale. L’impressione generale è quella di uno stile controllato e garbato in equilibrio tra la spensieratezza e il dramma. Di questi tempi la misura nei grani di sale di uno spettacolo è davvero cosa rara.

Il maestro concertatore e direttore Christopher Franklin ha diretto l’orchestra e il coro del teatro con abilità e competenza anche se non si segnalano picchi di eccellenza tali da far gridare al miracolo. L’orchestra del Verdi è sempre all’altezza della situazione, ma a volte manca di quell’empatia che gioverebbe molto ad esecuzioni che appaiono spesso fredde, meccaniche e in qualche caso perfino sbrigative. Non è bello da vedere per il pubblico che gli orchestrali si affrettino a riporre gli strumenti e ad abbandonare il golfo mistico mentre ancora il pubblico sta applaudendo i cantanti sulla scena.

Generosissimi, gli spettatori del Verdi non se ne curano tributando il loro favore a chi se lo sa meritare fino in fondo, perché è sempre la musica a vincere su tutto come l’amore che sempre ci conquista e rapisce il nostro cuore.

“Sono andati?…Fingevo di dormire perché volli con te sola restare. Ho tante cose che ti voglio dire, o una sola, ma grande come il mare, come il mare profonda e infinita…Sei il mio amor…e tutta la mia vita!”

© Flaviano Bosco – instArt 2023