Il parco di villa Attems Cernozza de Postocastro di Lucinico (GO) è un luogo straordinario, carico di fascino e di storia, la musica sembra permearlo, ogni foglia è una nota sullo spartito dei rami. Cosa c’entra questo con il jazz e le suggestioni afrocubane, tanto ma anche niente. Quando la villa veniva costruita da una delle famiglie più nobili e potenti della Contea nel XVIII sec., la tratta atlantica degli schiavi africani dal Golfo di Guinea ai Caraibi era ancora florida e redditizia per i grandi mercanti d’occidente.
Mentre in Europa le corti erano piene della musica veneziana che dal barocco si sarebbe in seguito affacciata sul classicismo, le navi negriere erano piene da scoppiare di anime morte valutate a peso e vendute al mercato con tutte le altre merci come bestiame. L’Illuminismo cominciava ad affilare le proprie armi, le colonie americane in tumulto lanciavano la sfida al proprio re e in Francia la teste si preparavano a rotolare.
Se la Rivoluzione francese, da lì a poco, avrebbe cambiato il mondo, ce n’era un’altra non meno dirompente che ancora oggi continua a dare i propri frutti vigorosi e a ramificare. Era la rivoluzione musicale proprio di quegli schiavi africani che nelle pance delle navi portavano con se non solo la propria disperazione ma soprattutto la loro millenaria tradizione culturale che si esprimeva in musica e ritmi. Non avevano altri strumenti che le loro gole, le catene e i loro corpi, completamente sradicati; alla sorte potevano offrire solamente loro stessi nudi e indifesi e quelli suonavano. Letteralmente la body percussion è una tecnica che trasforma parti del corpo in veri e propri tamburi, la loro voce era un grido di dolore.
Quei suoni si diffusero immediatamente dai Caraibi verso nord in quella che definiamo America Latina, fondendosi, contaminandosi e dando luogo ad una cultura del tutto nuova che ha cambiato per sempre la nostra percezione della musica e del mondo. Come è scritto in ogni storia del jazz, i tamburi di libertà che risuonavano a Congo Square, New Orleans, sono diventati la voce di ogni oppresso del mondo e la questione anche razziale non è per niente chiusa come abbiamo visto con il movimento Black Lives Matter.
Il concerto di Villa Attems, in questa prospettiva, può anche essere considerato una sorta di risarcimento morale; gli eredi di quelli che allora erano ritenuti dei selvaggi sono diventati la più raffinata, autentica aristocrazia culturale dei nostri tempi.
Gli attuali proprietari di villa Attems, titolari dell’omonima prestigiosa azienda vitivinicola, hanno salutato il numeroso pubblico accolto nel salone principale e riconosciuto l’eccellente valore turistico e culturale del festival in una situazione così difficile come quella che stiamo vivendo. E’ un’autentica risorsa del territorio dal prezioso valore economico, perfino gli amministratori pubblici cominciano ad accorgersi che con la cultura non solo si mangia ma si bevono anche degli ottimi calici come quelli delle cantine che hanno sostenuto Jazz&Wine of Peace, speriamo solo che non sia troppo tardi e che questo, come ha detto qualcuno, non sia solo The Last Waltz, l’ultimo valzer prima della catastrofe come quello vagheggiato ne “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus, tanto per restare in tema di MittelEuropa.
Omar Sosa entra in scena con un lumino devozionale acceso in mano e un bastone da passeggio, vestito completamente di bianco come in una celebrazione di Candomblé, e comincia il rito che officia toccando i tasti del pianoforte mentre un riverbero straniante viene dalle tastiere elettroniche.
Ernesttico (Ernesto Rodriguez Guzmàn) muove un bastone della pioggia (Rainstick) dal tipico rumore e i sonagli della batteria fanno il resto. Le suggestioni sono lontane dal jazz più tradizionale e il pianoforte dimostra ancora una forza espressiva inaspettata ma è solo una semplice introduzione. Procedendo, alcune sfumature fanno venire in mente George Gershwin e le percussioni si fanno via via più complicate, intriganti e seducenti.
Emerge chiaramente la grande sintonia tra i due, lo spazio per l’improvvisazione che si concedono e la velocità vorticosa e verticale che la loro esecuzione sempre di più pare acquisire. Puro tribalismo in salsa tropicale; sono due strumenti a percussione quelli che si confrontano con meraviglioso impeto e veemenza e non c’è proprio da sbagliarsi.
Sosa ispirato batte furiosamente anche sulle corde del piano che percuote con delle bacchette per poi ballare e ruotare su se stesso irrefrenabile mentre Ernesttico lo accompagna rapito come tutto il pubblico.
La ripresa del pianoforte è decisamente all’insegna della Bossa nova mentre i tamburi affievoliscono il loro ardore fin quasi a svanire in lontananza come una processione estatica che si allontana lentamente ma che continuiamo a sentire fin dentro i nostri cuori; è un effetto incredibile che può riuscire solo a due musicisti raffinatissimi e un po’ magici.
Si passa immediatamente senza rendersene nemmeno conto ad una trance fatta di ritmi infuocati, tellurici, ipnotici, madidi con il Samba a “pompare” adrenalina da infarto al miocardio. Alle pareti del salone i ritratti dell’antica famiglia nobiliare, l’albero genealogico, insegne e vessilli e perfino la riproduzione di un’armatura rinascimentale, tutti insieme paiono avere uno sguardo arcigno e poco convinto per quello che sono costretti ad ascoltare; dovranno farsene una ragione, in fondo ai loro tempi, anche W.A. Mozart era considerato un “selvaggio” in certi ambienti.
Sosa si rivolge finalmente al proprio pubblico: sono tempi difficili – dice – ma anche interessanti, grazie per essere qui. Dobbiamo sempre ricordarci di essere umani e la musica ci aiuta a rimanerlo anche nelle situazioni più estreme. I musicisti hanno bisogno del pubblico e il contrario, senza musica non c’è vita. L’appello del pianista è sincero e commosso, non deve essere facile per uno come lui che ha fatto della musica la sua stessa ragione d’esistere, trovarsi in una situazione d’incertezza come quella che stiamo vivendo. Ma – aggiunge – siamo qui per suonare e non per parlare. Però permettetemi ancora di rivolgere a tutti una preghiera con le note del pianoforte.
Dopo l’accorato appello, il brano è struggente e decisamente triste e mentre la ritmica incalza in un crescendo molto metallico di piatti e colpi sui sostegni della batteria, il sound complessivamente si fa perfino drammatico e angoscioso.
Se per lo spettatore comune la chiusura dei teatri e delle sale da concerto, la cancellazione delle tournée e delle varie manifestazioni assume i toni grotteschi della farsa tragica, a costo di ripeterci, è inimmaginabile cosa possa voler dire per artisti come Sosa ed Ernesttico che hanno speso tutta la loro vita per lo studio di uno strumento e per esibirsi sul palcoscenico regalando la gioia e la felicità che sentono, aiutando a lenire le angosce proprie e altrui.
Di recente il filosofo Georges Didi-Huberman, premiato al festival della filosofia “Mimesis” di Udine proprio mentre in contemporanea si svolgeva il concerto, ha dichiarato che la nostra situazione in generale sembra quella del racconto di Kafka “Davanti alla legge”. Per tutta la vita siamo rimasti in attesa di ricevere spiegazioni sul nostro stato di prostrazione, davanti ad una porta aperta ma custodita da un’imponente, arcigna guardia alla quale non abbiamo osato chiedere niente tanto ci spaventava, certi che prima o poi qualcuno ci avrebbe invitato ad entrare per dirci la verità.
L’attesa e l’incertezza ci hanno portato sulla soglia della morte. Con le ultime forze ci decidiamo a chiedere alla guardia perché non ci ha mai voluto far entrare. Risponde – “Perché non l’avete mai chiesto direttamente. Questa porta era stata aperta espressamente per voi, ma ora è tardi devo chiudere”.
La legge che ci ha fatto desiderare a lungo, che ci ha tenuto in sospeso senza una vera spiegazione, finisce per toglierci anche l’ultima speranza. Chiudere insensatamente le porte dei teatri, far calare anche l’ultimo sipario senza quasi alcun motivo, è una sentenza di morte, una vera e propria condanna.
Intanto la musica continua a sgorgare gioiosa e frizzante sui pensieri neri, dalle dita dei due musicisti che condividono la propria origine afrocubana. Lasciano l’improvvisazione e gli scherzi della sperimentazione per ritmi caraibici più tradizionali dalla grande freschezza e carica innovativa di grande piacevolezza che affascinano, divertono e conquistano.
Tra i due c’è una grande affinità e affiatamento; dopo i fuochi d’artificio degli AfroCuban Jazz Moods, l’atmosfera ritorna più rarefatta con un brano autunnale che saluta la notte piombata sul giardino della villa che si intravvede alle spalle dei musicisti dalla grande vetrata del salone. Sosa dimostra di essere anche molto introspettivo e perfino meditabondo. Come succede molto spesso, le personalità che dimostrano una grande, luminosa energia positiva, nascondono anche un’emotività altrettanto profonda e dai toni malinconici e in chiaroscuro. Le blue notes scavano, goccia a goccia, anche il granito più duro.
Quella che Sosa intona, a questo punto, è una vera e propria canzone degna di una colonna sonora di un film, è musica per immagini che si avvale anche dei vocalizzi del percussionista e di vari suggestivi campionamenti. E’ un brano molto dilatato, una distorsione temporale in forma di suite che delizia il pubblico lasciandolo attonito.
I suoni si fanno sempre più pensosi, fino a far penetrare nell’animo di tutti i presenti una sottile malinconia, anche se i ritmi di Ernesttico sembrano volere il contrario, l’ombra di una certa angoscia non se ne vuole proprio andare.
Sosa però ha anche un pianismo che sa essere irruento e, in generale, ha una mano parecchio pesante sulla tastiera anche quando vuole esprimere emozioni fragili e delicate; si rivela un atleta flessuoso e instancabile, un pugilatore dei tasti d’ebano e d’avorio, sempre all’attacco e con la guardia provocatoriamente troppo bassa, spavaldo in un continuo atteggiamento di sfida. E’ come Muhammad Alì contro George Foreman a Kinshasa (Rumble in the Jungle), sbruffone e indomabile, leggero come una piuma, divertente, indomabile.
Il duo insieme fa scintille, anzi è un continuo fuoco di mortaretti, castagnole e bombe di Maradona come in un capodanno napoletano o al carnevale di Rio de Janeiro. Il pubblico non ne è solo affascinato e conquistato ma del tutto soggiogato.
L’inevitabile bis è un’altra canzone molto dolce e meditativa, ancora una volta musica e parole per immagini. E’ un film la vita. Prima di salutare il pubblico, Sosa gli rivolge ancora qualche parola: se riuscissimo a coniugare il nostro cervello con la nostra anima la vita sarebbe molto migliore. Dobbiamo cercare di esprimerci con la nostra voce interiore, in armonia con noi stessi e con i nostri fratelli, solo insieme ce la possiamo fare, fratelli che si stringono a fratelli in pace e uguaglianza. Come spesso ripete con un motto ben noto: “Peace, Unity, Love and having Fun!”
La musica intanto sostenuta dai riverberi elettronici, mano a mano, va affievolendosi; lontane voci registrate da Sosa nei suoi viaggi in Africa, si sovrappongono e intersecano in uno spazio “ulteriore” che il bastone della pioggia ancora indica con il suo fruscio prima di spegnersi e dormire.
Resta acceso il lumino di Sosa e un drappo rosso come una promessa, poi tutto se ne va. Anche le cose più meravigliose hanno una fine. Come dicono i francesi: “Tout passe, tout lasse, tout casse” e hanno ragione.
-Giovanni Guidi “Little Italy”.
Ultimo concerto della rassegna e probabilmente ultime note per un lungo periodo di ulteriore lockdown che qualche spiritoso continua a chiamare “Soft” ma che sarà durissimo e interminabile per alcune categorie sociali.
Il nuovo Dpcm, paventatosi proprio nell’ultimo giorno del festival, approvato nottetempo come al solito e servito con l’indigesta brioche ammuffita della colazione, entrerà in vigore con i suoi “necessari” venefici. Il Covid o chi per lui, dopo aver inghiottito e affogato migliaia di persone, si appresta a sbranare intere stagioni teatrali, festival, cinema con tutti gli addetti e l’indotto compresi, per non parlare di ritrovi, bar, ristoranti e tutto il resto.
Ma come ha detto Sosa nel pomeriggio, basta con le chiacchiere, siamo tutti qui per la musica. Perciò: “Godi quando puoi che soffrir non manca mai” come dicevano le nonne e se ci siamo già ridotti ai più triti e vetusti proverbi vuol dire che il futuro che ci aspetta è veramente desolante.
Doveva essere la serata del chitarrista americano Kurt Rosenwinkel, prodigio della sei corde, sostituito degnamente all’ultimo momento dal quintetto di Giovanni Guidi, astro nascente del Jazz italiano che vanta già una lunga gavetta, ottime collaborazioni e un eccellente futuro davanti a se. Tra le tante bellissime foto di Luca D’Agostino che passano sul grande schermo del teatro di Cormons per ingannare l’attesa prima del concerto, come già dicevamo in un altra recensione, tra le tante ne spiccano almeno due che ritraggono due artisti immensi: McCoy Tyner e Amiri Baraka, due autentici titani della cultura afroamericana. Il primo fedele pianista del quartetto storico di John Coltrane ed erede diretto e continuatore di quell’estetica musicale, per decenni ai vertici assoluti della sperimentazione avant garde; il secondo poeta e scrittore inarrivabile e militante che, dalla prima entusiasmante esperienza della Beat Generation seppe diventare uno dei leader riconosciuti nella lotta dei diritti civili. Jazz&Wine of Peace in questi due ultimi decenni ha portato a Cormons il meglio della musica a livello mondiale grazie all’impegno e alla passione dell’associazione Controtempo che ha saputo dimostrare a tutti in grande umiltà cosa vuol dire fare davvero cultura anche in tempi difficili come quelli che stiamo tutti vivendo.
Certo, quest’anno, molte cose sono state giocoforza ridimensionate ma non di certo la qualità delle proposte rimasta di livello altissimo e il gradimento del pubblico.
Quello di Giovanni Guidi è un quintetto di giovani e giovanissimi, propongono una rilettura in chiave jazz dei classici della canzone italiana sfibrati, dilaniati, estenuati tanto da parere scomposti e irriconoscibili ma ugualmente piacevolissimi. Il leader apre l’esibizione con la mano sinistra sulla tastiera del pianoforte e la destra su quella del piano Fender Rohades in un gioco molto morbido con i chitarristi (Stefano Carbonelli, Nicolò Francesco Faraglia) che arpeggiano prima in modo impercettibile, cui poi via via s’aggiunge la ritmica del basso di Joe Rehmer e della batteria di Federico Negri in un classico crescendo che funziona sempre come una brezza marina sulla pelle assolata d’estate. Tutto molto mediterraneo, con la chitarra acustica in modalità Roberto Murolo. Nella melodia ci sono, infatti, molti riferimenti alla tradizione più classica della canzone italiana e napoletana in particolare. Anche se le variazioni e le improvvisazioni in salsa free non tardano a prendere il sopravvento rendendo l’atmosfera immediatamente rovente. Un’improvvisa sterzata ci porta in un batter di ciglia in zona rock prog con un’altra ventata della tradizione musicale tipicamente italiana coi contro fiocchi che spesso tendiamo a sottovalutare. Brani inusitatamente lunghi, intere interminabili suites che si incastrano in uno sterminato set.
Il quintetto non si concede un attimo di tregua, passando da un brano all’altro senza soluzione di continuità, in un flusso continuo del fantasticare alla chitarra con il risultato di presentare al pubblico una memoria sonora che serve in ogni caso anche se non ci riflettiamo troppo. Molto bello lo scambio d’intesa tra il bassista e la batteria, Walking bass e tamburi al cardiopalma; non c’è mai alcuno spazio per il pubblico che non riesce nemmeno ad applaudire tanto è serrata l’esecuzione delle chitarre e il virtuosismo pianistico, in un vero diluvio di note.
In alcuni momenti, l’ensemble è sembrato inutilmente ridondante, eccessivo e sovrabbondante nel suo eccessivo virtuosismo e nelle sovrapposizioni di linee solistiche. Guidi spiega che l’idea del gruppo gli è venuta durante il primo lock down, in sintesi i musicisti si sono visti quasi sempre solo on line ed hanno un’esperienza live molto limitata. Per questo anche se il leader cerca di guidare al meglio i musicisti, l’operazione sembra aver bisogno di maggiore rodaggio e abbrivio. In generale l’ensemble esprime ottime suggestioni che hanno però bisogno di essere irregimentate o quantomeno levigate; non sono facili da gestire nemmeno coercitivamente.
I cinque continuano a macinare sotto le stelle del jazz ignari di tutte queste riflessioni capziose e in fondo assolutamente inutili. Quando sembra d’essere in odore di risacca, la marea di nuovo sale impetuosa investendo il pubblico ed è di nuovo una mareggiata di jazz del più indiavolato. Non è un semplice concerto ma una lunga jam session, il giusto canto del cigno prima del nuovo drammatico lock dow.
Musica giovane spesso sgraziata, ma indubbiamente torrida, creativa e folle al punto giusto, una fuga in avanti, un balzo senza compromessi.
Si chiude come si era iniziato sulle erratiche note del pianoforte e sull’arpeggiare e delle corde.
© Flaviano Bosco per instArt