Recita del 22/06/2024

A pochi mesi dalla prima della nuova stagione del Verdi ricordiamo come si è chiusa l’ultima.

Il giorno seguente al solstizio, primo giorno d’estate a Trieste con il sole a picco e 30 gradi centigradi all’ombra, con le rive invase da uno spesso strato di orribili mucillagini, un doppio appuntamento ha messo insieme due atti unici di straordinario valore e significato.

In quelle condizioni ambientali e metereologiche, il teatro Verdi, con le sue cariatidi, i telamoni, le ninfe, i suoi satiri, le grottesche, le sfingi appariva come un antro nel quale si officiano misteri di un culto antichissimo nel quale si evocano segrete alchimie musicali e demoni meridiani.

“La porta divisoria” è il libretto d’opera che Giorgio Strehler trasse da “Le Metamorfosi” di Kafka su commissione di Victor De Sabata per il Teatro alla Scala, che Fiorenzo Carpi cercò di mettere in musica lasciandola incompleta.

“Il castello del duca Barbablù” è l’unica, strana, esoterica opera che Bartók ricavò dal libretto di Béla Balázs che la considerava un “Misterium” come genere drammatico medievale nel quale si mettevano in scena soggetti tra liturgia, soprannaturale e martirologio.

Sono due titoli rari nel panorama delle proposte dei teatri italiani, entrambe poco o per niente rappresentate; è stata una grande scommessa presentare il dittico come ultima opera nel cartellone del Verdi; i risultati dicono che l’azzardo è stato vinto a mani basse con grande favore della critica e del pubblico.

Cos’hanno in comune queste due opere così complesse? Cosa nascondono sotto le loro misteriose metafore?

Non è certo possibile trovare un’unica interpretazione per capolavori così stratificati, ma almeno un’ipotesi possiamo azzardarla a partire da uno strano sogno.

Carl Gustav Jung (1875-1961) in “Ricordi, sogni, riflessioni” riporta un suo straniante sogno del 1909 nel quale si trovava a casa propria in una strana stanza che non aveva mai visto. Cominciò ad esplorare il resto dell’abitazione fino a trovare una camera segreta piena di teschi e di ossa:

“Mi era chiaro che la casa rappresentava un’immagine della psiche, cioè della condizione in cui era allora la mia coscienza, con più le integrazioni inconsce fino ad allora acquisite. La coscienza era rappresentata dal salotto, più scendevo in basso e più mi addentravo nell’inconscio. Nella caverna ho scoperto i resti di una primitiva civiltà, cioè il mondo dell’uomo primitivo in me stesso, un mondo che solo a stento può essere raggiunto dalla coscienza. Il mio sogno, pertanto, rappresentava un diagramma della struttura della psiche umana”.

Anche per Sigmund Freud la metafora della casa è utile per comprendere lo spaesamento dell’uomo moderno e le sue ferite narcisistiche. Nel suo “Una difficoltà della psicoanalisi” del 1917 scrive:

“La terza e più scottante mortificazione, la megalomania dell’uomo è destinata a subirla da parte dell’odierna indagine psicologica, la quale ha l’intenzione di dimostrare all’io che non solo egli non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua psiche”.

Franz Kafka e Béla Bartók, praticamente coetanei, vissero entrambi nell’epoca degli albori della psicoanalisi, le loro due opere in questione possono essere lette, con una certa agilità, dal punto di vista della crisi della soggettività nel mondo borghese fin de siècle.

La trasformazione in grosso insetto del pacifico Gregor mette in luce l’ipocrisia della società in cui vive basata sulla famiglia borghese patriarcale.

La vicenda de “Il castello del duca Barbablù” è facilmente interpretabile come lo sprofondarsi della coscienza nei propri orrori attraverso la passione incontrollata e l’insana curiosità del sapere che, per soddisfare le proprie brame, non s’arresta davanti a niente fino ad autodistruggersi.

Lo smodato desiderio di conoscere contrasta con l’amore incondizionato, (non chiedere, ma baciami!) così come recitare la propria parte nel contesto sociale assegnatoci non è sempre facile, anzi è del tutto logorante e alienante (Escluso per sempre dal mondo! Ah! Nessuno più solo è stato mai!”).

La porta divisoria di Fiorenzo Carpi (completamento di Alessandro Solbiati)

Lo spettacolo, che riprende l’allestimento del Festival di Spoleto del 2022, si presenta attraverso una severa, minimale ed efficacissima scenografia a cura di Andrea Stanisci. Straordinaria l’idea della porta divisoria su fondo nero che segna un’apertura nella quarta parete, la stanza nella quale vive l’enorme insetto della metamorfosi è il teatro mentre il palcoscenico è il salotto della casa borghese nel quale si svolge il dramma diviso in cinque quadri.

L’ouverture è molto cupa, suona una sveglia di un mattino pieno di tetri auspici, filtra la luce da una finestra. La musica di Carpi è fosca fino a sembrare lugubre nella sua scabra tessitura totalmente priva di pathos, una vera e propria cronaca entomologica in musica con un cantato aspro e recitativo che non ha nemmeno la più piccola traccia del bel canto della tradizione del melodramma.

E’ stata davvero una bella impresa quella del maestro concertatore e direttore Marco Angius e dell’Orchestra del teatro Verdi. Un’altra scommessa vinta non c’è che dire.

Il grande compositore, che fu sodale di Strehler per lunghi anni, ebbe sempre un repertorio gaio e svagato tanto da apparire a volte perfino eccessivamente zuccheroso. In questa sua unica opera lirica volle però mostrare al pubblico una parte nascosta della propria creatività e personalità. La figlia dice che si tratta del suo testamento spirituale e, non vi è dubbio, che tutta la partitura porti con se un mesto e disperato sentimento di abbandono e di commiato che collima perfettamente con il messaggio di Kafka.

“Parlavo e la mia voce non rispondeva più! Chiamavo la mamma ma nessuno capiva! Sentivo le parole degli altri lontane, distorte. E non potevo fare nulla, nulla, nulla…ero solo, escluso dal mondo”.

La prima scena vede la signora madre alzarsi a preparare la colazione. La raggiunge anche il padre di famiglia e poi arriva la serva con i giornali e per ultima la dolce figlia.

Suona la sveglia di Gregorio che canta da uno dei palchi rispondendo ai solleciti della madre. Gregorio doveva essere già partito per il lavoro ma non si sbriga, la famiglia si preoccupa per il ritardo.

Qualcuno suona alla porta, è un gerente che vuole vedere perchè Gregorio non è ancora partito. Gregorio non vuole far entrare in camera il gerente che si insospettisce, infine, la porta si apre sul pubblico. L’orrore della metamorfosi diventa palese, il mostro ha la propria epifania nel disgusto che genera negli altri, in realtà non meno orribili di lui. Si chiude così il primo quadro.

Subito dopo si sente cantare Gregorio da uno dei palchi del teatro; vestito in marsina, proprio come uno scarafaggio intona dei versi tratti dall’incipit del romanzo di Kafka:

“Sì quella mattina mi risvegliai da sonni inquieti, tramutato in un insetto mostruoso! Esistono mali sulla terra terribili, schifosi, disfacimenti lenti e inesorabili del corpo verso il nulla! Un male segreto da nessuno scoperto, poteva in una notte, mutare un uomo in un insetto scaglioso, nero, bruno, con mille zampette sottili…Ma dentro lasciarlo com’era coi suoi pensieri, il suo cuore, i suoi affetti. Tutti così com’era sempre come se nulla fosse stato. Possibile, dicevo, che la sveglia non avesse suonato, che fosse così tardi! Mi sentivo così stanco!”

Dietro la porta chiusa, dopo un mese dal fattaccio, la famiglia si ritrova a discutere sulla gravità della situazione. Nonostante la tragedia, in qualche modo, la vita deve proseguire. Anche la serva parla delle stranezze di Gregorio che, in realtà, non sono così inusuali: a tutti può capitare un momento così.

Il problema per i familiari non è tanto la mostruosità del loro familiare che ormai hanno imparato a gestire rinchiudendolo nella propria stanza, ma lo stipendio che manca e che fa franare il bilancio familiare. Gli affetti nel mondo borghese si quantificano finanziariamente. Decidono così di far quadrare il bilancio prendendo alcuni pensionanti.

Una sera mentre sono tutti riuniti in salotto a chiacchierare, la dolce figlia comincia a suonare il violino per intrattenere gli ospiti paganti. Gregorio ascolta attraverso alla porta e per sentire meglio finisce per spalancarla, si trova tutti gli occhi puntati addosso, è la catastrofe. Gli affittuari se ne scappano, il padre, accusandolo di essere la rovina della famiglia, gli lancia delle mele come proiettili che finiscono per ferirlo.

Lui voleva solo ascoltare la crudele sorella che ora lo considera solo orribile. Per sempre la porta rimarrà chiusa, “mai più si aprirà” ordina il padre. La famiglia borghese condanna il mostro all’oscurità dell’isolamento e alla più completa solitudine.

“Perchè vivere così divisi l’uno dall’altro”, proprio nel finale l’intento della messa in scena di Strehler/Carpi diventa del tutto evidente. L’adattamento in musica del capolavoro dello scrittore praghese vuole denunciare i veri mali che angosciano l’uomo contemporaneo che sono l’incomunicabilità, l’individualismo e l’infame lotta di selezione che chiamiamo “naturale” che impone alla società di sbarazzarsi senza tanti rimorsi degli elementi più deboli e fragili.

Il bruciore della ferita dovuta alle mele per Gregorio è soave tepore, in un certo senso lo fa sentire ancora vivo, ma è mortale. Il tempo è scandito dal suo spostarsi dall’ombra alla luce.

Una mattina la serva gli porta la colazione chiamandolo “scaraffo bello” e scopre che Gregorio è morto.

La famiglia: dopo tanto soffrire morire è una liberazione in questo momento dobbiamo tutti ringraziare il Signore. La famiglia è felice. La serva inchioda la cassa con i resti di Gregorio. Per quella cosa non c’è bisogno di alcuna cerimonia. Ho fatto tutto io dice la serva. Un facchino porta via la cassa quasi si trattasse di un trasloco e, invece, per tutti si tratta solo di immondizia.

La famiglia è contenta, ci sono finalmente ottime prospettive, bisogna continuare a vivere e cantare, uscire, dimenticare. Proprio come dice la dolce figlia sprizzando adolescenza e vacuità da tutti i pori:

“Già viene l’estate, ho voglia di uscire, ho voglia di ridere, ho voglia di cantare, ho voglia di vivere, ho voglia di non pensare più al male, a niente vale soffrire. Ho voglia di uscire!”

Strehler e Carpi hanno voluto così sottolineare l’ipocrisia e l’incapacità della società, con la famigerata “famiglia tradizionale” al centro, di accettare la diversità, accogliendo fragilità e debolezze non conformi e non ritenute utili.

Forse non era esattamente solo questo che Kafka aveva da dire con la metamorfosi del proprio personaggio, ma è un ottimo spunto d’indagine.

Nella particolarissima zona dei cimiteri di Trieste che rispecchia la multiculturalità della città dedicando il giusto spazio ad ebrei, ortodossi, cattolici, mussulmani, atei e tutti gli altri, c’è anche la tomba del Maestro Strehler, ma a cercar bene è anche possibile vedere quella di un misterioso signor K.

Il castello del duca Barbablù di Béla Bartók

La messa in scena del Verdi regala profondità dal punto di vista scenografico ad un’opera concepita per un unico semplicissimo ambiente e per un organico di due soli cantanti. Di grande effetto, oltre ai costumi, anche le luci, in alcuni momenti perfino eccessive, ma non tanto da guastare l’unica opera lirica del compositore ungherese. L’opera fu il frutto della collaborazione con il grande scrittore ungherese Béla Balázs che aveva già fruttato il balletto-pantomima Il principe di legno.

Entrambi gli autori furono impegnati nel recupero della loro tradizione culturale ungherese seguendo quella sorta di movimento di inizio secolo europeo che va sotto il nome di “scuole nazionali”. E’ ben noto l’impegno come etnomusicologo di Bartók, nel recupero delle antiche melodie popolari della pusta e della sterminata campagna magiara.

Il suo catalogo è ricolmo di danze transilvane, sketch, canzoni, scene paesane ungheresi. Naturalmente, anche “Il castello del duca Barbablù” risente direttamente di quella ricerca soprattutto nell’adattamento del cantato ungherese alle dinamiche musicali contemporanee.

Molto tenebroso e affascinante il prologo recitato dall’attore Maurizio Zacchigna:

“La musica risuona, le fiamme ardono, incominci pure lo spettacolo, si alzi il sipario dai miei occhi; quando si abbasserà, battete le mani, uomini e donne. Antico castello; è antica la leggenda che narra la sua storia; ascoltatela anche voi”.

Il sipario si alza mentre piove sul palcoscenico, tra mascheroni vagamente orientali e teli neri che evocano il fondo scuro, sotto i quali si agitano morti e fantasmi dell’antico maniero.

Il duca Barbablù, impersonato dal mercuriale Andrea Silvestrelli, conduce Judith, la sua nuova moglie nel castello avito. Lei, sposa procace e vestita di rosso, tra ballerine sadomaso, è stata interpretata da un’eccezionale Isabel De Paoli perfettamente in parte.

Judith vuole a tutti i costi seguire il suo Barbablù, “Ho lasciato tutti per venire con te”. Sono La bella e la bestia, ma il finale della loro relazione non sarà per nulla lieto e lo s’intuisce fin dalle prime note e dal sinistro luogo nel quale dovrebbe vivere il loro amore: nel castello non ci sono finestre, è freddo e scuro, ostile, triste e disanimato.

Le pareti sono umide, è il castello che piange. Barbablù le dice che forse lei sarebbe stata meglio nel castello pieno di sole dell’altro pretendente ma lei spergiura di voler stare solo con lui.

Perchè sei venuta da me Judith? Io ti scalderò con il mio amore e, s’illude, il tuo castello risplenderà.

Vedo sette grandi nere porte chiuse, nessuno deve guardarci dentro.

La moglie cerca di convincerlo con le solite armi di seduzione femminile. Naturalmente funziona. Si apre la prima porta, l’orribile camera delle torture, sangue ovunque, è il castello che sanguina, i ballerini sulla scena con orribili maschere contribuiscono a rendere disperata l’atmosfera. Lei non ha paura perchè il ruscello di luce del suo amore sembra rischiarare tutto.

Judit vuole tutte le altre chiavi. Tutto deve essere aperto, il sole deve illuminare ogni angolo del maniero. Intanto, le scure radici del castello tremano.

“Aprirò in silenzio piano piano”. La seconda stanza è quella della guerra, anche questa imbrattata dai massacri. I ballerini danzano scomposti con armi da taglio e rostri sulla schiena in una coreografia molto efficace ed inquietante.

“Sono venuta in questo tetro castello perchè ti amo, ma apri tutte le porte”

Barbablù le fa promettere di non fare domande qualunque cosa veda.

Si apre così la stanza dei tesori, appaiono meravigliose pietre preziose e gioielli, pieni di luccichii e riflessi, ma a ben guardare sono tutti screziati di sangue.

La quarta porta è piena di fiori, è un giardino segreto profumato nascosto sotto le dure rocce, ma, in realtà, anche questo è innaffiato di sangue.

Dalla quinta porta si vede il regno desolato di Barbablù triste e senza vita. I ballerini indossano maschere di rocce disanimate, le nuvole gettano ombre sinistre.

Ci sono ancora due porte, lui la implora di non aprirle, “Ama e non chiedere” le dice, ma lei è testarda. Oltre la porta aperta vede un lago immobile, deserto e muto, è un lago di lacrime.

La scenografia offre mostruosi e inquietanti giochi d’acqua e sangue sulle pareti. Barbablù implorante chiede un bacio e non vuole aprire l’ultima porta. “Baciami, baciami e non fare mai domande” la prega, ma lei lo convince ancora con le tentazioni della carne.

“Dimmi Barbablù chi hai amato prima di me?”. Lei gli ordina di aprire la settima porta. “Apri Judit e vedrai tutte le donne del mio passato” dice lui rassegnato a un implacabile destino di morte.

Nell’ultima tragica stanza, le donne del suo passato sono congelate nel proprio sangue come dicono le leggende: “All’alba trova la prima, a mezzogiorno la seconda, la terza la sera”, se ne stanno intatte ed eternamente giovani dentro teche trasparenti, vestite sontuosamente come manichini, ai loro piedi una bara che aspetta il proprio cadavere.

Judit sarà la dama della notte, l’ultima, eternamente bella vestita di blu. Finisce anche lei in una teca. Barbablù infine si stende nella bara e tira il coperchio su di se “E ora sarà sempre notte, sempre notte, notte”.

Piove sui muri come all’inizio del racconto. I ballerini con maschere orrende e sudari insanguinati chiudono la tragica rappresentazione.

E’ certo che l’analisi sul filo della psicoanalisi delle due opere può dare risultati solamente parziali che non penetrano in profondità l’opera d’arte che, almeno in questo senso, non ha bisogno di essere “compresa”, ma deve essere percepita e ascoltata nel proprio insondabile mistero.

Un breve racconto di Kafka sempre relativo ad una porta sembra poterci fornire più di una suggestione per cercare almeno di comprendere una delle prospettive attraverso le quali forse arbitrariamente è possibile traguardare entrambe le opere.

“Davanti alla Legge” fa parte del medesimo travaglio creativo de “Il Processo” di cui costituisce allo stesso tempo anticipazione e nucleo interpretativo.

“Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. -Può darsi- dice il guardiano – ma adesso no-.

Il guardiano impedisce all’uomo di campagna di entrare dentro la porta aperta della legge, questi aspetta lì davanti tutta la propria vita consumandosi nell’attesa, fino a che morente chiede al guardiano: “Tutti si sforzano di arrivare alla legge- dice l’uomo – e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me ha chiesto di entrare? – Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla – Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo”.

La porta aperta che viene insensatamente chiusa davanti a chi ha speso tutta la propria vita nel cercare di entrarvi, è metafora dell’assurdità dell’esistenza e della sua illogicità. Il racconto non ha alcun senso ed è proprio questo metodo, che l’autore trae anche dalla tradizione ebraica dei cantori chassidim, che genera nel lettore angoscia e inquietudine: il simbolo del buio in cui annaspa chi cerca di capire, di trarre un senso dal racconto e sembra materializzare il disorientamento in cui egli brancola, quell’angosciante “Unheimlichkeit” (spaesamento) che secondo Heidegger caratterizzerebbe l’Angoscia (Angst) come sentimento rivelatore dell’insignificanza dell’Esserci (cit. in :Davanti alla legge, l’enigma di Kafka di Danilo Falsoni, www.diacritica.it).

Gregorio, trasformato in un orribile insetto, se ne muore dietro una porta che gli viene chiusa in faccia dalla sua famiglia che avrebbe il dovere di accoglierlo, comprenderlo e aiutarlo come fa in teoria la Legge che ci indica la direzione che dobbiamo seguire.

Judit non riesce a dare un equilibrio alla propria insaziabile curiosità che crede amore e non resiste a guardare dentro le porte della conoscenza, rimanendo schiacciata dall’assurda perversione che è la Legge crudele di questo universo.

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©