Calorosi applausi del pubblico pordenonese hanno accolto la rappresentazione al teatro comunale del Rigoletto di Giuseppe Verdi per la regia di Éric Chevalier, maestro concertatore Valerio Galli nel nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste.

Chi scrive, per una malaugurata disavventura, si è perso l’ultima replica del Rigoletto al Teatro Verdi di Trieste dopo averla a lungo sospirata. Per fortuna e per grande merito della collaborazione tra le direzioni artistiche, il medesimo allestimento si è potuto godere ed ammirare al teatro Verdi di Pordenone. Il consulente musicale di quest’ultimo, l’eccellente pianista Maurizio Baglini ha fortemente voluto lo scambio con la storica realtà triestina così come ha saputo trasformare il teatro della città del Noncello in uno straordinario laboratorio musicale che, con le dovute proporzioni, ha pochi paragoni.

In questi anni Baglini ha saputo educare e crescere un proprio pubblico di appassionati consapevoli e di gran gusto musicale, senza mai blandirlo con proposte popolaresche banali e scontate. Rigoletto, continua il pianista toscano, è anche un’opera in grado di attirare nuovo pubblico al mondo dell’opera con il suo linguaggio diretto e le sue “maschere” che Giuseppe Verdi creò proprio per rendere più comprensibile la propria poetica.

Insomma, l’unione fa la forza.

L’opera di Verdi nonostante il degrado culturale in cui versa da decenni il nostro paese, resta comunque un fondamento ineliminabile della nostra identità.

Come scriveva Pierluigi Petrobelli (Deutsche Grammophon, 1980): “Agli orecchi d’un ascoltatore d’oggi (non solo italiano) la musica – certa musica – di Rigoletto ha il carattere, il significato di un fatto di natura, è un oggetto nell’esistenza, una presenza scontata e inavvertita. Dal tempo della sua nascita questa musica non ha conosciuto interruzioni nella spontanea fruizione da parte di un pubblico più vasto possibile, né alcuna distinzione a livello sociale e geografico; questa musica è riuscita persino a superare i limiti della snobberia intellettuale.”

Ognuno di noi, anche inconsciamente vorrebbe assomigliare al duca di Mantova, dissoluto, sprezzante e godereccio e si ritrova, invece, a vestire i panni di un povero storpio, sbeffeggiato dalla banda mal assordita di arruffoni cortigiani pusillanimi di cui fa parte. Non ci resta che sentirci maledetti proprio come Rigoletto (“Quel vecchio, maledivami!) e come gli ignavi nell’inferno dantesco: “Bestemmiare dio e lor parenti, l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme di lor semenza e di lor nascimenti”.

Quello rappresentato da Giuseppe Verdi e dal suo librettista Francesco Maria Piave nell’opera è un compendio di tutto ciò che vi è di più odioso nel carattere del nostro paese fatto di città opulente con una classe dirigente crapulona, dissoluta e gaudente che ha l’unico progetto di sfogare sui propri sottoposti i più brutali istinti.

La protervia del potere si regge sulla pusillanimità di tanti parassiti che prostituiscono le proprie vite per agire indisturbati, leccando le briciole che cadono dalla tavola del padrone. Come cantano i cortigiani all’orgia del Duca di Mantova: “Tutto è gioia, tutto è festa, tutto invitaci a goder! Oh, guardate, non par questa or la reggia del piacer?”

La scabrosità del testo originale di Victor Hugo, “Le Roi s’amuse” (1832), inizialmente non fu per nulla elusa da Piave, il librettista di Verdi e nemmeno il Maestro voleva andarci leggero.

Rispettando lo spirito e la lettera delle intenzioni dell’oceanico scrittore francese, volevano sferzare il potere e chi lo blandiva, tutta la pletora di ipocriti servi sempre pronti a genuflettersi e a riverire il potente di turno, leccando il dorso della mano che vorrebbero mordere, guaendo e abbaiando ad ogni minimo segno del comando.

Verdi ebbe, fin da quando nel 1850 cominciò a lavorare sull’adattamento del dramma, un’infinità di problemi con la censura austriaca che allora reggeva il lombardo-veneto. L’intreccio era ritenuto dagli asburgici scabroso, immorale e soprattutto violentemente anti-monarchico. Era proprio così sia nelle intenzioni di Victor Hugo sia in quelle di Giuseppe Verdi. Quest’ultimo, in sostanza, voleva probabilmente incitare alla rivolta anti-austriaca. Infatti, il re di Francia Francesco I del dramma originale fu trasformato nel più anonimo Duca di Mantova e molti particolari ritenuti osceni furono censurati; non era assolutamente ammissibile che si parlasse di un regnante come dell’ultimo degli sporcaccioni e si prefigurasse addirittura un regicidio.

I circa 1700 versi di Hugo diventano 700 nel primo libretto di Piave; per far debuttare l’opera a Roma, l’editore Ricordi, che ne deteneva i diritti, intervenne brutalmente sul libretto riadattando l’ambientazione nell’Inghilterra del XVI sec., modificando perfino il titolo in “Il Viscardello” pur mantenendo le musiche di Verdi che ne disconobbe la paternità. Il poeta Gioacchino Belli definì il contenuto del dramma in questa versione: “Un putrido soggetto”. Allo stesso modo, per aggirare la censura borbonica e far debuttare l’opera al San Carlo di Napoli, il poeta Leone Emanuele Bardare fu incaricato di adattare il libretto dando vita alla “Clara di Perth” e al “Lionello”. Un totale di quattro differenti versioni che disorientano i neofiti dell’opera ma fanno la delizia dei melomani più ossessivi. Non diremo troppo dell’universalmente nota trama che racconta delle disavventure e della maledizione scagliata sul buffone di corte, vittima della propria arroganza, che volendo vendicarsi delle offese subite finisce per coinvolgere tragicamente la propria amatissima figlia. L’abbiamo fatto ugualmente, basta così.

Ognuno di noi, se si guarda attorno è capace di individuare immediatamente un gran numero di questuanti miserabili di questo tipo pronti perfino a pagare per farsi comprare (“Cortigiani, vil razza dannata!”) e, a volte, nel nostro giro d’orizzonte, dentro le nostre stanzette faremo bene a coprire gli specchi come il povero Buster Keaton in quell’unico film di Samuel Beckett.

La fosca tragedia che si compirà ineluttabilmente si annuncia fin dalle prime note della breve ouverture; sul palcoscenico del Verdi appare Rigoletto che si guarda intorno e scruta il pubblico meditabondo e presago, non dice niente e dopo poco scompare dietro le quinte. La scena è dominata da un’enorme doppia scalinata in mattoni che ruotando su se stessa sul piano orizzontale divide gli spazi e li trasforma. Una scenografia molto semplice ma efficace a cui si aggiungono proiezioni in digitale che evocano i vari ambienti indicati nel libretto: “La sala magnifica nel palazzo ducale; L’estremità d’una via cieca. A sinistra una casa di discreta apparenza con una piccola corte circondata da mura…sopra il muro un terrazzo…La sponda destra del Mincio…una rustica osteria…una rozza scala che immette al granaio…di là dal fiume è Mantova.”

Senza dubbio il lavoro dello scenografo-regista Éric Chevalier nella sua apparente semplicità ha il grande pregio di evocare questi luoghi senza assillare lo spettatore con la magnificenza di certi allestimenti che finisco per inchiodare l’opera alla propria estetica, distogliendo l’attenzione sui profondi significati dei contenuti prettamente musicali e sociali che vuole veicolare. La medesima cosa si può dire per i costumi della sempre attenta Giada Masi, adeguati ma non eccessivi che sottolineano i personaggi senza schiacciarli sotto la loro opulenza.

Calibrata e mai eccessiva anche la regia che, per esempio, riassume in pochi tratti le violenze della crapula del Duca e dei suoi cortigiani della prima scena che molto spesso prevede balli e ballerine scollacciate vestite, letteralmente, da “baldracche” come indicava il libretto prima della censura asburgica. Un’unica ragazza, la figlia disonorata del povero Monterone, viene sballottata e strattonata dai cortigiani e poi gettata piangente in un angolo del proscenio; mentre l’azione va avanti, il pubblico continua a vederla disperata nel suo dolore muto. Semplice, rigoroso ed efficace, proprio nello stile degli ultimi allestimenti del Verdi di Trieste.

Devid Cecconi con la sua imponente fisicità ha vestito i panni del buffone di corte con originale intelligenza e grande forza interpretativa. La sua voce baritonale risultava ancora più intensa drammaticamente per il portato delle sue capacità attoriali rendendolo in grado di trasformarsi letteralmente nel prima borioso e poi dolente buffone di corte con tanto di ingombrante gobba.

Per quanto riguarda gli altri interpreti, di grande impatto è stata l’interpretazione del Duca di Mantova da parte del tenore Antonio Poli, tonante e di grande potenza vocale, a volte perfino eccessiva e quasi fuori registro tanta è la forza del suo cantare che, in fondo, però s’adatta al personaggio che è di per se eccessivo e strabordante istinti e lussuria.

Molto gradita dal pubblico e straordinaria negli acuti come nel colore dato alle parti sognanti e innamorate, la piccola Gilda della soprano Ruth Iniesta. Una Maddalena procace e viziosa, perfettamente in parte, è quella di Anastasia Boldyreva che rende visibile la carnalità di un’opera che vuole anche scandalizzare il pubblico con la sua impudente vitalità che naufraga immediatamente nel dramma rendendolo ancora più atroce.

Nell’intreccio emergono intatte anche alcune tematiche care a Victor Hugo che nell’opera originale esprimeva uno dei cardini della propria poetica sviluppato in molti luoghi della sua attività letteraria. Il rapporto tra Rigoletto e la figlia Gilda (nell’originale rispettivamente Triboulet e Blanche) con le dovute differenze, può essere considerato l’archetipo di quello tra Jean Veljean e la povera Cosetta nei Miserabili; così come alcuni versi cantati dal buffone sembrano rimandare a Gwynplaine de L’uomo che Ride o addirittura al Quasimodo di Notre Dame de Paris.

Segnatamente: la deformità e l’abiezione contrapposte al candore d’intenzione, oppure la volontà di riscatto e redenzione in contrasto con lo stigma sociale e con l’ineluttabilità del destino di certi personaggi, la persecuzione e la vendetta sono temi sui quali Victor Hugo ha riflettuto e scritto a lungo. Verdi ha voluto mantenerli in tutta la loro crudezza nella sua cosiddetta “Trilogia popolare” (Rigoletto, Traviata, Trovatore) evidentemente perché credeva che fossero delle ottime, dolenti prospettive per interpretare questo folle mondo cattivo nel quale solo chi impazzisce del tutto può dirsi normale.

Proprio come canta Rigoletto in un’aria celeberrima: “L’uomo son io che ride, ei quel che spegne! Quel vecchio maledivami…O uomini! O natura!…Vil scellerato mi faceste voi!…O rabbia!…Esser difforme!…Esser buffone…Non dover, non poter altro che ridere! Il retaggio d’ogni uom mi è tolto…il pianto…Quel vecchio maledivami!…tal pensiero perché conturba la mente mia? Mi coglierà sventura?…Ah, no, è follia…”

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©