La Città Proibita è un film del 2025 diretto da Gabriele Mainetti con Yaxi Liu, Enrico Borriello, Sabrina Ferilli, Marco Giallini e Luca Zingaretti nel cast principale. Mei, una giovane donna Cinese, arriva in Italia dalla Cina per ritrovare la sorella. Riuscirà a trovarla?
Creatura strana questo nuovo film di Gabriele Mainetti, non un sontuoso ghepardo come poteva essere Lo chiamavano Jeeg Robot o Freaks Out, quanto piuttosto un’insostenibile chimera. In questo articolo si tenterà di spiegare l’avvento di questo mostro inconsueto.
Ma prima, qual è la cifra stilistica di Gabriele Mainetti? Un concetto tanto semplice a parole quanto complicato nella realizzazione: per parafrasare il titolo di un film di Gianfranco Pannone: portare l’America a Roma o, in questo caso, l’Asia. Riprendendo un’idea di leonina e calligariana memoria, il suo genio sta nel prendere generi sacri per altri paesi, come ad esempio i gangster e war movie americani o i gongfu cinesi, ibridandoli con una vorace e genuina romanità. Non è un caso che Luca Marinelli, interprete de Lo Zingaro nel suo primo lungometraggio, abbia recitato in Non essere cattivo (2015), ultimo film del compianto Calligari.

Un’altra cifra peculiare dell’intera opera di Mainetti è la caratterizzazione degli antagonisti: perdenti e patetici ma mai fini a sé stessi, e che quindi danno profondità alla storia. Lo Zingaro, principale antagonista di Lo Chiamavano Jeeg Robot è un narcisista patologico e mitomane, la cui unica ispirazione è probabilmente quella di farsi saltare in aria in diretta video come se fosse un terrorista dell’ISIS. Franz di Freaks Out è anch’esso un freak, la cui unica aspirazione è quella di aiutare il Führer a vincere la Seconda Guerra Mondiale selezionando e torturando altri freak, facendo emergere la perversione ideologica degli antagonisti.
In contrapposizione alle opere precedenti, in questo terzo film sembra non ci sia la stessa profondità drammatica. Questo potrebbe dipendere dal fatto che Mainetti, per la prima volta dopo tanti anni, non è più coadiuvato dal sodale Nicola Guaglianone, l’autore di tutti i suoi soggetti dai primi cortometraggi fino a Freaks Out (2021) e anche candidato all’Oscar nella categoria miglior cortometraggio per Tigerboy (2012). Non si sa se abbiano litigato o se abbiano semplicemente preso strade diverse, fatto sta che è un po’ triste non vederli più collaborare.
Una delle critiche principali mosse a suo tempo a Freaks Out fu di aver creato un cortocircuito con la sua matrice di riferimento, vale dire quel Roma Città Aperta di Roberto Rossellini che nel 1946 rifondò di fatto il Cinema Italiano, rendendolo spettacolarmente inutile e che, culinariamente parlando, equivale a mangiare la pizza con il ketchup. Ed ecco quindi che si potrebbe spiegare il cambio d’approccio a questo terzo film preferendo raccontare una storia di miserie umane piuttosto dell’epica dura e pura.
Un ultimo punto da sviscerare è la preponderanza delle scene d’azione spettacolari rispetto all’approfondimento della trama principale. Questa tendenza viene indicata dagli studiosi come “cinema delle attrazioni”, in cui si tende a voler sollecitare il basso ventre dello spettatore con scene spettacolari anziché portare avanti la trama principale. Un celebre esempio è la famosa scena del combattimento del protagonista Neo contro i mille agenti Smith in Matrix Reloaded (Wachowski Brothers 2003).
Nessuno toglie dalla testa al sottoscritto che questo sia un film riuscito solo a metà. Volendo usare una metafora un po’ spinta, è come una sinfonia suonata con grande maestria, ma priva di un tema portante davvero memorabile. L’armonia c’è, l’esecuzione è impeccabile, ma manca quella melodia che ti resta dentro. Ma d’altronde, come diceva Jackson Pollock: “Creare un’opera d’arte è un po’ come fare l’amore, vorresti non finisse mai”. Non si sa cos’altro dire, se non che si preferiva il Mainetti della prima maniera.

Nicola Bertone / instArt 2025 ©