La sfida e il fascino di un festival jazz, articolato e multiforme, com’è da sempre quello di Udine, è di non aver mai voluto essere solo una rassegna di nomi o una serie di esibizioni come tante ce ne sono.

Chi lo frequenta da tanti anni ma anche chi lo “incontra” per caso, capisce subito che la direzione artistica del suo creatore e patron, Giancarlo Velliscig, ha sempre voluto contare prima di tutto come proposta culturale inserita in un preciso contesto e sorretta da principi etici fondanti.

Udin&Jazz è sempre stato un laboratorio democratico, culturale e politico nel vero senso della parola, intendendo il Jazz e il suo mondo come uno strumento attraverso il quale rivendicare diritti e promuovere principi di libertà e condivisione.

Chi crede che il jazz, nelle sue molteplici germinazioni e arborescenze, sia soltanto un sottofondo più o meno piacevole, per seratine sofisticate e un po’ snob per un’élite borghese e cittadina ha decisamente sbagliato indirizzo.

La musica afro-americana e tutto quello che è diventata, dal Blues del Delta all’afronautica, ha alla propria base una precisa istanza di libertà, nasce assetata di giustizia e vive nel rispetto dei propri fratelli che sono di una sola “razza”, l’unica ad esistere, quella umana.

Non ci sono padroni in un assolo di Coltrane ma solo condivisione e Amore Supremo. Il motto del festival di quest’anno, (Play Jazz, No War!) richiama direttamente alcune dichiarazioni dell’immenso sassofonista originario di Hamlet (North Carolina), una minuscola cittadina della costa est degli Stati Uniti che porta nel suo nome il destino e l’orizzonte della nostra civiltà.

Durante un’intervista radiofonica di Frank Kofsky del 1966, Coltrane disse: “Jazz…if you want to call it that, to me, is an expression of higher ideals. So, therefore brotherhood is there and I belive with brotherhood there would be no poverty. And so, with brotherhood, there would be no war”. (Il Jazz…se vuoi chiamarlo così, per me è espressione dei valori più alti. La fratellanza è tra quelli e io credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E così, con la fratellanza non ci sarebbe la guerra).

Il pubblico di Udine in questi tre decenni e più, attraverso la manifestazione e la propria intelligenza, si è letteralmente educato a questi valori anche seguendo con partecipazione le vicende e l’esempio dell’associazione culturale Euritmica che organizza e guida la manifestazione. Persone con la schiena ben dritta e che possono davvero camminare a testa alta, distinguendosi come hanno sempre fatto, in un panorama di proposte spesso avvilenti e fine a se stesse.

Rosa Brunello “Sounds like Freedom” Yazz Ahmed (tromba, flicorno, effetti) Maurice Louca (chitarre, Synths, Fender Rhodes) Marco Frattini (percussioni) Rosa Brunello (contrabbasso e basso elettrico).

Nella seconda serata di Udin&Jazz la vera protagonista è stata di certo una delle musiciste più interessanti del panorama italiano, la contrabbassista Rosa Brunello, che avevamo visto lo scorso anno a Grado Jazz nella band della meravigliosa Dee Dee Bridgewater.

La giovane musicista dal fascino magnetico e dall’infinita grazia e cortesia si è presentata, in questa occasione, come leader del progetto musicale “Sounds Like Freedom”, di grande respiro e di ottime prospettive sulla carta e su disco, ma che dal vivo ha dimostrato la necessità di maggiore rodaggio, pur restando una proposta musicale davvero interessante.

“Suona come la Libertà” è proprio in tema con ciò che dicevamo più sopra e da solo riassume un modo di intendere la musica nuovo e antichissimo allo stesso tempo. Libertà, come dicevano i latini, è “nomen agentis” nel senso che è qualcosa nel suo farsi, che non si da una volta per tutte.

E’ una conquista continua, una pratica quotidiana. La musica ci aiuta, in questo senso, ad essere accoglienti nei confronti di ciò che appare diverso da noi o di ciò che è davvero stravagante e al di là delle nostre consuetudini.

Il progetto della contrabbassista veneta, che può vantare un album fresco di stampa uscito da appena un mese e vede la partecipazione di straordinari musicisti dai contributi eterogenei ed esotica formazione, intercetta e si inserisce in quell’universo di musiche nuove e contaminate che hanno il proprio centro di gravità nella scena contemporanea inglese dell’afronauta Shabaka Hutchings nelle sue più diverse epifanie (Sons of Kemet, The Comet is coming, The Ancestors ecc.).

Rosa Brunello con i propri musicisti interpreta, con gusto progressivo, questo nuovo modo di intendere il Jazz che riporta al centro dell’attenzione il ritmo pulsante ed ossessivo delle macchine elettroniche assieme agli strumenti acustici e ai fiati più tradizionali, in un’affascinante amalgama di scatenate atmosfere ballabili, la stravaganza della world music e il jazz più introspettivo.

Niente di più suggestivo ma anche di pericoloso, perché basta un piccolo disequilibrio tra questi elementi per spezzare l’alchimia e trasformare il treno in corsa del divertimento in una “tribù che balla”, annoiata e stucchevole, come tante ce ne sono oggi.

L’eterogeneo ensemble, dopo qualche comprensibile ritardo, è salito di botto sul palco di Udine e, raccolti gli strumenti, senza porre altro tempo in mezzo, la contrabbassista ha cominciato, con un assolo cui si sono via via aggiunte le percussioni, la chitarra e la tromba.

Il groove iniziale sembrava decisamente quello dell’ultimo Miles Davis che si faceva sedurre dall’Hip Hop. La tromba della nuova stella inglese Yazz Ahamed è sembrata precisa nell’intonazione e nel fraseggio ma quasi del tutto priva di forza e di potenza, cui la musicista, con molto mestiere, pone rimedio affidandosi agli effetti digitali di loop e riverberi. I brani in scaletta ripetono lo schema del progressivo aggregarsi e sovrapporsi degli strumenti mentre il pulsare della ritmica fa da guida al processo d’agglutinamento di suggestioni world di matrice soprattutto orientale.

La Brunello, anche quando imbraccia il basso elettrico, tra distorsioni e scariche elettro-statiche, guida quella che, in fondo, si rivela solo un’innocua forma del caos che ci abita. I quattro, ossessivi e pulsanti, spesso suonano come ipnotizzati dai propri ritmi ma sembrano a volte troppo trattenuti e anestetizzati, senza una reale volontà di osare al di là di un sound piacevole ma, in buona sostanza, fine a se stesso.

Ci si pasce di grandi crescendo e altrettanto verticali diminuendo in un Maleström sonoro nel quale ci si guarda dal precipitare e inabissarsi; insomma, si galleggia piacevolmente cullati da interventi musicali fin troppo studiati che, a volte, finiscono purtroppo per strappare qualche sbadiglio.

In sintesi, l’idea e la preparazione della Brunello e soci è più che buona, il progetto è solido e intrigante, ma manca forse il coraggio selvaggio di osare di più con i volumi e con l’aggressività di suoni meno levigati che, almeno dal vivo, acquisterebbero maggiore brillantezza e sostanza.

Al Di Meola “Across the Universe”. Al Di Meola (Chitarra) Peo Alfonsi (chitarra) Sergio Martinez (percussioni)

La fredda cronaca. Dopo un’ora di pretestuoso ritardo, il chitarrista sale sul palco con grande arroganza senza mostrare alcuna volontà di scusarsi o giustificarsi in qualche modo. Il pubblico esasperato lo accoglie con una selva di sonori buu, buu e un bel “vaffa” che colpisce nel segno.

Di Meola, dimostrando tutta la sua protervia e malafede, insulta a sua volta il pubblico e poi, forse rendendosi conto di non riuscire a gestire in altro modo la situazione che ha creato con la sua insolente indolenza, si decide a suonare.

Lo ha fatto in modo molto nervoso, sbrigativo, supponente e svogliato esprimendo rabbia e risentimento verso chi lo stava ascoltando dopo la lunghissima ingiustificata attesa. L’atmosfera era davvero tetra anche se l’educazione del pubblico friulano alla fine di ogni brano non ha fatto mancare fin troppo generosi, immeritati applausi.

Al Di Meola ha suonato al suo peggio, sfogando il proprio rancore e l’insoddisfazione anche con i suoi compagni di palcoscenico, trattandoli sgarbatamente come dei semplici lavoranti. Più volte ha rimproverato in malo modo il percussionista, incalzandolo e spronandolo senza alcun motivo apparente. La frustrazione del chitarrista cresceva visibilmente ad ogni nota, un brano dietro l’altro suonato senza alcuna empatia. Ne ha dimostrata molta di più Peo Alfonso, il suo chitarrista che, lasciato solo sul palco, è riuscito a trasmettere in un attimo tutto il suo calore e la sua classe facendo capire cosa vuol dire suonare con il cuore.

Al Di Meola è a ragione considerato uno dei chitarristi più importanti e influenti del nostro tempo per tecnica, successo commerciale e collaborazioni, ma in quanto a rispetto verso i propri simili si è rivelato in questa occasione davvero poca cosa.

E non è questione di una serata sbagliata ma di un approccio anaffettivo alla musica che non deve mai essere solo, come in questo caso, manifestazione narcisistica e masturbatoria di perizia atletica e abilità manuale.

La musica è ben altra cosa, è emozione, spontaneità, meraviglia non un mero antipatico, esercizio di stile. E’ proprio il pathos che è mancato del tutto al chitarrista che ha dato prova di non “sentire” quasi per nulla il proprio pubblico.

La tecnica che domina è come sempre sopraffina ma del tutto vuota e priva di sentimento, una pura rancorosa, esibizione di forza muscolare e meccanica agilità che, in realtà, sono la cifra del suo lavoro degli ultimi anni all’insegna della più totale egocentrica autoreferenzialità.

È così anche per le sue recenti incisioni sulla musica dei Beatles che sembrano per lui essere nient’altro che “repertorio e spartito” senza reale significato. Durante il concerto ha eseguito una propria versione di “Strawberry Fields Forever” totalmente priva di spontaneità ed emozione.

Esattamente il contrario dello spirito profondamente psichedelico di quel brano di John Lennon che è un inno alla spensieratezza giovanile e una rimemorazione dei sentimenti infantili di condivisione e di gioia nel gioco comune.

Quel “campo di fragole” era il giardino di un orfanotrofio vicino alla casa della sua giovinezza, dove “Nothing is real and nothing to get hung about” niente è reale perché tutto si abbandona alla felicità della fantasia e questo fa in modo che non ci sia proprio niente per cui essere preoccupati o rabbiosi. La musica può trasportarci nel “posto delle fragole”, come diceva Ingmar Bergman, dove regnano solo i ricordi dell’Amore e dei sentimenti più puri della condivisione. Di quel luogo Al di Meola ha smarrito del tutto il sentiero e i riferimenti.

Non contento, il chitarrista, prima di congedarsi, sul finire della sua gelida, disanimata esibizione, ha nuovamente insultato il pubblico rimproverandolo per l’insensibilità e dicendo che si ricorderà della serata di Udine perché non gli era mai capitato di ricevere un “vaffa” nella sua carriera, facendo inconsapevolmente capire a tutti i presenti di esserselo davvero meritato.

La cosa più triste di tutta la surreale situazione è stata quella di aver dovuto vedere quel gran galantuomo di Giancarlo Velliscig, patron di Udin&Jazz, mortificato, sofferente e incolpevole, scusarsi pubblicamente per il grave torto fatto al pubblico udinese e allo spirito della manifestazione.

Arrivederci a mai più Al Di Meola anche il pubblico friulano non dimentica!

La scaletta: Esmeralda (solo) Milonga de l’angel (solo) Ava, Misterio, Fandango, Close your eyes, Tears, Immeasurable, Poema, Cafe’, Bouble Concerto, Strawberry Fields, For only you, If you Need me, Mediterranean sundance.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©