Fragoroso ma del tutto prevedibile trionfo a Udine di “Pupo di Zucchero”, l’ultima performance attoriale della compagnia Sud Costa Occidentale di Emma Dante.
Il pubblico entusiasta, che ha assiepato il Palamostre e applaudito la compagnia fino a spellarsi le mani, conosce bene e ama visceralmente il lavoro della drammaturga siciliana e dei suoi pari. La segue con crescente interesse e attenzione, letteralmente da inizio carriera.
Emma Dante esordì a livello nazionale dopo una lunga gavetta con “mPalermu” che vinse nel 2001 il “Premio Scenario” patrocinato dal CSS di Udine che da allora non ha mai smesso di ospitarne di volta in volta i nuovi lavori.
Ogni stagione immancabilmente il cartellone del Teatro Contatto nelle sue varie declinazioni prevede uno spettacolo della Dante. Oltre ad essere un privilegio attribuibile alla lungimiranza e al fiuto del CSS, è ogni volta una sorpresa e una scoperta, la ricerca creativa della drammaturga è ben lontana dall’esaurirsi, anzi a guardare i lavori degli ultimi anni, cinema e regia operistica compresi, è decisamente inarrestabile e in crescita.
Questo di certo è frutto non solo di un grandissimo talento ma anche del carisma da capocomico di chi sa scegliersi collaboratori e interpreti con i quali portare avanti ed esprimere al meglio il frutto della propria immaginazione. Lo spettacolo di Udine, sostenuto e creato insieme ad attori che la seguono da oltre un decennio, ha dimostrato la solidità e la fecondità di un connubio tra artisti di grandissima caratura che condividono non solo la medesima passione per le assi del palcoscenico ma hanno in comune anche la stessa visione del mondo e della vita (Weltanschauung).
Inutile continuare con questo continuo panegirico nei confronti di una compagnia che tutti sanno essere composta da talenti di eccezionali; diventa noioso e pleonastico anche per i più disponibili e pazienti tra gli spettatori.
Certo lo spettacolo è stato avvincente, emozionante, pieno di vita, di colori, immagini e suoni, lingue sussurrate, urlate, declamate che si trasformano in figure, in un’azione scenica vocale costruita per accumulo di improvvisazioni e di intersezioni. Ai meritatissimi applausi e complimenti bisogna però aggiungere qualcos’altro, altrimenti si rischia di rimanere sopraffatti da tanta bellezza e dalle relative sperticate lodi ed espressioni di riverenza. Si crede che ormai la stessa Emma Dante non sappia che farsene, cercheremo di non deluderla, con alcuni approfondimenti extratestuali che hanno lo scopo di esplicitare il contesto folclorico e antropologico nel quale un’opera d’arte così mirabile si inserisce.
Dalle tenebre complete, scure e fitte, che avvolgono la sala e il palcoscenico, in un biascicare di litanie e parole sconnesse, appare la figura di un vecchio orante seduto; in un’interpretazione davvero maiuscola di Carmine Maringola, veglia, prega e prepara la pasta da lievitare per il Pupo di Zucchero che offrirà come sacrificio per placare le anime dei defunti. Per associazione di idee viene in mente Eduardo De Filippo nel suo “Questi fantasmi.”
E’ la notte tra il primo e il due novembre quando nelle varie tradizioni della penisola da nord a sud, si officiano riti apotropaici che risalgono all’arcaicità pagana relativi al culto dei morti. Dietro alle spalle del vecchio, infatti, le anime delle sue povere tre sorelle, Rosa (Nancy Trabona), Primula (Federica Greco) e Viola (Maria Sgro) che fanno venire in mente sia Anton Čechov sia le streghe del Macbeth, in alcuni momenti sembrano epilettiche e rovinano a terra in convulsioni impressionanti, in altri sprizzano gioia ed energia cantano, suonano e danzano la loro giovinezza tragicamente perduta, in un’autentica esplosione di vitalità e bellezza. “Tutte e tre fecero un unico matrimonio, quello con la morte.”
A loro si uniscono le altre anime componenti della famiglia dell’anziano ormai rimasto solo a fare i conti con la propria memoria. Il protagonista dice, con un certo gusto per il paradosso e tanta ironia sofferta: “Il 2 novembre è l’unico giorno durante il quale si può sentire la vita pulsare nuovamente dentro questa casa.”
Appare anche sua madre d’origine francese, interpretata da una formidabile Stephanie Taillandier, abbandonata giovanissima e incinta dal marito, uomo di mare probabilmente con una donna in ogni porto. Lei lo ha aspettato inutilmente per anni come una delle tante Madama Butterfly sedotte e abbandonate.
Ci sono anche zia Rita (Martina Caracappa) e zio Antonio (Valter Sarzi Sartori) ancora travolti e portati da una passione squallida e tragica di sesso e violenza, una versione nera e brutale dei lussuriosi Paolo e Francesca incapaci di trovare pace anche nell’aldilà condannati alla “Bufera infernal, che mai non resta”.
Si unisce alle memorie familiari anche Pedro (Sandro Maria Campagna), un affascinante scroccone spagnolo innamorato della bella Viola come il toro poligamo occasionalmente monogamo quando sceglie tra le cinquanta vacche che ha a disposizione di cui parla Hemingway in “Morte nel pomeriggio”. Non manca neppure Pasqualino (Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout) un orfano accolto in casa e cresciuto come un figlio naturale dalla mammina abbandonata.
E’ letteralmente una fantasmagoria, una frenetica Danse Macabre (Chorea macabaeorum) in cui tutto s’aggroviglia e ruota dipanandosi e riavvolgendosi attorno alla memoria dolente e gaia dell’anziano che rimemora, rivive e forse chissà, inventa le cose che ha dimenticato vivendo.
Sembra proprio di vedere danzare i morti degli affreschi di Giovanni da Castuua nella chiesa di Cristoglie (Hrastovlje) in Slovenia oppure quelli celeberrimi dell’oratorio dei Disciplini a Clusone.
Infatti, nel doloroso e mesto finale, in una processione paraliturgica essenziale ma di grande effetto scenografico, le anime dei defunti portano sulle spalle i loro resti mortali in forma di mummie che “impiccano” ai lati di una croce per poi ritornarsene nelle tenebre dei giorni andati da cui erano venuti. Come gli spiriti dei dipinti medievali che il giorno del giudizio recuperano le loro spoglie mortali e portandosele in spalla procedono in fila verso la redenzione dei peccati. Lo scultore palermitano Cesare Inzerilli ha materialmente costruito i macabri simulacri come alter Ego dei protagonisti della pièce prendendo spunto dalle mummie della cripta dei Cappuccini di Palermo
Al Vecchio, ‘nzenziglio e spetacchiato, non resta che accendere loro dei lumini e ricominciare a sgranare di paternostri e salveregine il suo rosario e al pubblico di applaudire.
Di grande effetto sono state le musiche di scena, oltre alla spericolata versatilità degli attori in grado di esprimere più cose con la vertiginosa frenesia dei loro corpi, di quante sarebbero mai in grado di dire a parole. Alcuni brani sono stati arrangiati da Ezio Bosso da precedenti sue composizioni di carattere minimalista. Il musicista era purtroppo anche lui tra i fantasmi che affollavano la casa del Vecchio, essendo passato all’eterno proprio durante le fasi di realizzazione dello spettacolo.
Notevolissimi e spesso stranianti anche i brani del folklore del Mezzogiorno cantati dalle tre sorelle, così come le suggestioni degli strumenti tradizionali suonati dal vivo dagli attori: nacchere, sonagli, tamburelli e perfino una Caccavella (Tamburo a frizione).
Dopo lo spettacolo, mentre gli operai smontavano il palco dietro il sipario chiuso, la generosissima compagnia al completo ha concesso un “terzo tempo” presentandosi agli spettatori e rispondendo alle loro domande.
E’ stato davvero un approfondimento piacevole e necessario durante il quale gli attori con grande garbo e divertimento hanno rivelato il loro metodo di lavoro con la drammaturga siciliana, come i diversi laboratori teatrali d’improvvisazione che finiscono per distillare le loro esperienze in un materiale composito che successivamente la regista plasma e modella in funzione anche del materiale umano che si trova davanti.
Di grande respiro sono state le considerazioni sulle varie lingue che risuonano durante gli spettacoli, in questo caso il napoletano arcaico, lo spagnolo, un gramelot francese, il siciliano, tutti sullo stesso livello, utilizzati con grande creatività in un calderone di lingue, suoni e sapori senza pari. Maliziosamente, veniva da chiedersi perché non si riesca a fare lo stesso con la lingua friulana, il materiale umano non sembra mancare e la tradizione culturale nemmeno, forse bisognerebbe parlarne proprio con Emma Dante.
Prima di concludere ancora un piccolo accenno al materiale testuale che ha fornito lo spunto per questa drammaturgia. Da anni Emma Dante con la sua compagnia sta rileggendo le favole e i miti del nostro folklore. Tra i testi che ha maggiormente trattato vi sono quelli tratti da “Lo Cunto de li cunti” di Giambattista Basile, classico della novellistica napoletana del XVII° sec. costruito sul modello del Decameron di Boccaccio così come gran parte della novellistica europea dal medioevo fino ai giorni nostri.
In questo caso si è voluto adattare la novella terza della quinta giornata che va sotto il titolo di Pinto Smalto, raccogliendo suggestioni dall’oralità dei racconti popolari ispirati al mito antico, vi si racconta di Betta che intestarditasi a rifiutare tutti i pretendenti che il padre le sottopone si decide a costruirsene uno ideale da sola secondo i propri gusti e a proprio esclusivo uso e consumo.
Come dice la rubrica nella classica traduzione dal napoletano di Benedetto Croce: “Betta ricusa di rimaritarsi, ma poi s’impasta un marito con le mani proprie e, poiché una regina glielo ruba, dopo mille travagli lo ritrova, lo ricupera con grand’arte e se lo riporta a casa.”
A Betta bastò “Mezzo quintale di zucchero di Palermo e mezzo di mandorle ambrosine, con quattro o sei fiaschi di acqua odorosa e un po’ di muschio e di ambra, e anche una quarantina di perle, due zaffiri, un mucchietto di granatinie di rubini, con un po’ d’oro filato, e, soprattutto, una madia e un raschiatoio d’argento”.
Certo nello spettacolo di Emma Dante gli ingredienti sono molto più semplici ma il rituale di preparazione è altrettanto laborioso tanto che coinvolge tutta la Compagnia fino all’apoteosi finale nel quale il Pupo di zucchero viene “presentato” al pubblico che si trasforma in “ecclesia” che assiste ad un rito per certi versi perfino blasfemo e provocante come un seno esibito con furia lubrica. Carne, spirito e spettro si uniscono in una figura da divorare come in un sacrificio antropofagico.
La scelta della novella non è stata certo casuale e anche se gli attori si schernivano durante il “question time” il loro lavoro sul mito appariva in tutta evidenza e continuità. Come non pensare al mito di Laodamia che, avendo perso il marito Protesilao in guerra, lo modella in una statua di cera a grandezza naturale con tanto di attributi virili. Quando il padre di lei, Acasto la scopre in atteggiamenti intimi con il simulacro, lo getta nel fuoco e Laodamia disperata lo segue.
La medesima materia narrativa ma con esito più fausto la troviamo nel mito di Pigmalione che si innamora e congiunge con Galatea, la statua di marmo che lui stesso ha scolpito nell’avorio tanto da averne il figlio Pafo da cui viene il nome di un isola del Peloponneso.
Duole che durante il dialogo con il pubblico nessuno abbia sottolineato che il “Pane dei morti” è una di quelle tradizioni che uniscono l’Italia intera collegandola a tutte le tradizioni consimili europee.
Ogni singola località dalla cresta delle Alpi al canale di Sicilia ha la propria variante di quello che generalmente possiamo considerare cibo per i defunti che tornano a visitare le nostre case nella notte dei morti. Si va dalle “Fave da morto” padane alle “Ossa di Morto” piemontesi (Òss ëd môrt), ai “Cavalli” del Trentino, fino al Pan co’ Santi maremmano e poi ancora alle “Dita di Apostolo”, le “Fanfullicchie”, la “Colfa” tipiche di molte zone del Mezzogiorno, fino, per l’appunto, ai “Pupi di zucchero” siciliani che sembrano i diretti eredi delle offerte sacrificali greche filtrati attraverso la cultura araba e quella cristiana. Non è nemmeno il caso di citare tutto il complesso di riti legati al giorno dei morti nella cultura friulana, non si finirebbe più; si lascia alla curiosità del lettore approfondire l’argomento attraverso la lettura di testi come quello di Gian Paolo Gri (I giorni del Magico, Leg 2014), di Andreina Ciceri (Tradizioni popolari in Friuli, La Nuova Base 1989) senza dimenticare i magistrali lavori di Carlo Ginsburg segnatamente “I Benandanti” (Einaudi, 1960).
Quello che è certo è che lo spettacolo di Emma Dante, oltre che un gran piacere per gli occhi, trasmette una serie di suggestioni e di spunti di incredibile interesse, diverte ma costringe anche a pensare e a considerare anche la nostra mente come abitata da una folla di personaggi che non sempre vanno d’accordo tra loro.
Sono io la morte, e porto corona, io son di tutti voi signora e padrona. E davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare e dell’oscura morte al passo andare.
Sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo, posa la falce e danza tondo a tondo; il giro di una danza e poi un altro ancora, e tu del tempo non sei più signora.”
Flaviano Bosco – instArt 2022©