I pazienti lettori delle modeste righe che seguono vorranno scusare l’autore che, per descrivere l’epifania sonora del concerto di Daniela Pes nell’incantevole scenario del castello di Udine per la rassegna Udin&Jazz, non ha trovato di meglio che riferirsi alla tradizione della poesia italiana.
Le emozioni che l’artista ha saputo trasmettere sono state talmente inaudite che per essere inquadrate nella loro giusta dimensione hanno richiesto riferimenti ben oltre l’ambiente strettamente limitato alla musica pop o in qualunque altro modo vogliamo chiamare la musica di consumo. Si voglia dunque perdonare quello che può sembrare solo uno sfoggio d’erudizione, o “fumo buono solo per i trattatisti” come diceva Gadda, ma in realtà non lo è per niente. Si consideri che non è un caso se a Daniela Pes, autrice di un solo straordinario lavoro discografico, è stata conferita la prestigiosa “Targa Luigi Tenco”, massimo riconoscimento nel nostro Paese tra poesia e musica d’autore.
La poesia è nel suo etimo greco figlia del fare, del produrre e del creare. È propria degli dei e delle muse che non hanno bisogno di descrivere il mondo, ma solo di evocarlo facendone germogliare e vibrare l’intima essenza.
La parola poetica più autentica può fare a meno della prigione del significato e del senso; è una libera creatrice di mondi e di emozioni, non una loro conseguenza. È una manifestazione della forza e dell’energia che tiene unite le cose, in altre parole è pura illusione che, di fronte all’ineluttabilità della morte e della desolata solitudine del vivente, contrappone solo un flebile sussurro e il proprio ritmo e la melodia. È intimamente votata all’improcrastinabile tragedia che permea tutte le creature e la fibra di ogni cosa che è. La poesia è un ghigno, un sorriso, urla di disperazione e uno sputo; tutto questo insieme oppure niente.
Il poeta, nella sua pratica quotidiana, come un artigiano rielabora materiali linguistici ed emozionali già presenti, per creare nuove forme verbali in grado di far emergere o per lo meno far intuire l’enorme massa di magma incandescente sul quale galleggia l’inutilità della nostra esistenza.
Ogni volta che si compone un verso è tutta la nostra realtà a cambiare, a maggior ragione quando a farlo sono i cosiddetti “Alte Meister”, gli antichi maestri cui tutti devono deferenza e che riconoscono come propri Padri.
Per quanto riguarda la lingua italiana di certo il padre di tutti noi è Dante Alighieri che, per esprimere quello che sentiva e farlo arrivare ai suoi contemporanei, s’inventò un nuovo idioma che avendo come base la struttura grammaticale del suo fiorentino comprendesse tutte le parlate “volgari” di quello spazio culturale cui si sentiva d’appartenere. Nessuno lo capiva all’inizio e tanto meno adesso, fin da subito ci volle Boccaccio a “tradurlo” perfino ai fiorentini.
Molte volte, nella Commedia, il poeta confessa che non gli bastano le parole per descrivere quello che vede e che sente, si limita così ad “indicarcelo”. La ragione, il Logos non sono sufficienti ad “inventrarsi nel Divino Consiglio”. La Grazia, l’amore che move il sole e l’altre stelle non si può spiegare, solo amare.
Carmelo Bene, che è stato uno dei più grandi interpreti dei versi danteschi con la sua vocalità insuperabile, fu anche uno dei primi a capire le potenzialità dell’amplificazione e dell’elettronica applicata alla performance poetica e attoriale. Uno dei lasciti maggiori della sua immensa creatività artistica è stato un poema «’l mal dÈ fiori» nel quale la parola si fa di nuovo materia e mondo. Nei suoi versi la lingua italiana diventa ancora una volta astrazione, parola oracolare e vibrazione; può di nuovo fare a meno completamente del senso, ciò nonostante attraverso di essa si manifesta una forza tellurica e ctonia del tutto inaudita. È una “danza delle parole”, un incedere di Spiriti sommi e luci spirituali che “Danzano come donna” in una vera e propria messa in scena dell’esistenza che vale per ognuno di noi in modo diverso e che muta con il trascolorare delle stagioni e i battiti del nostro cuore.
Questo ch’è tuo non essere mai stata
nommai avvenir
altro dal mal dÈfiori se non sono
che prossimi al fiorir chiama e si muore
idea di te che mi sorride questa
voce la mia non più se la disdice
questo tu sei lavoce che ti chiama
da “Questo ch’è tuo non essere mai stata” di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 2000.
Il Friuli Venezia Giulia, con le sue antiche lingue e culture, molto spesso vive ancora una sorta di complesso d’inferiorità perchè considerato marginale e periferico perfino dai propri stessi abitanti che a volte si autocommiserano per un presunto isolamento.
Al contrario, basta alzare gli “occhi bassi”, indirizzando i pensieri che si hanno dentro le scarpe davanti a se, per scoprire un orizzonte vastissimo in grado di superare confini e barriere di ogni sorta, anche psicologiche. È proprio dai territori del margine, liminali, dalla “cintura esterna dei satelliti” che è più agevole traguardare tutti i centri possibili e forse anche trovare le parole adatte per descriverli. Dalle orbite esterne è più facile intuire l’enormità delle galassie e “De l’infinito, universo e mondi”.
È proprio questo che Daniela Pes, straordinaria interprete della nuova scena creativa italiana ed europea, ha capito a partire dalla propria terra d’origine: la Gallura. È ben noto il forte senso d’identità culturale che innerva i popoli che abitano la terra sarda. Quello che li distingue da sempre è la capacità di innovare la loro millenaria tradizione rimanendo fedeli a se stessi e al proprio profondo sentire.
La carica tellurica e dinamitarda di Daniela Pes non potrebbe essere più al passo con i tempi e anzi proiettata nel futuro con tutte le diavolerie elettroniche che utilizza per le proprie performance sonore, eppure riesce a portare con se, rendendola allo stesso tempo contemporanea, la tradizione musicale e artistica della propria terra in modo perfettamente riconoscibile e intelligibile.
La Gallura è principalmente una terra mistica così com’è il Friuli, dalla terra dei Carni fino alle bocche del Timavo, la parola suona riportando dalle profondità ctonie il mistero dell’esistere.
Nel concerto, la voce dei gabbiani, diffusa dagli altoparlanti, mormora e sussurra una lingua composita incomprensibile a tutta prima, ma che ti entra direttamente dalle orecchie al cuore, proprio come la lingua poetica che la cantante-performer ha saputo immaginare, contaminando la propria sensibilità con la materia dei luoghi e delle cose che la abitano.
Daniela Pes è una sibilla, la affiancano sul palco di questo tour, Mariagiulia Degli Amori (percussioni e synth) Maru Barucco (tastiere, drum machine e Synth).
“Vaneggia il gran fianco dell’euboica montagna in un antro, cui cento larghi aditi guidano, cento gran porte; di là cento voci precipitano: della Sibilla i responsi. S’era alla soglia e la vergine: “Chiedere i fati ora è tempo! Gridò. Il Dio, ecco il dio! (Eneide VI 42-46).
Come la Sibilla Cumana del poema virgiliano, la musicista gallurese mormora e grida i suoi responsi che il vento trasporta e solo può comprendere. Il rito orgiastico e misterico della sua esperienza sonora e performativa conduce fino alla presenza dell’ineffabile, inesprimibile enigma della musica che fa della ripetizione ossessiva un involontario movimento nel quale percezione ed entropia sono un fenomeno unitario nel quale è dolce naufragare.
Ascoltando il suo lavoro in studio e le sue performance live, vengono in mente immediatamente riferimenti musicali di altissima caratura come i Sigur Ros, Bjork, la “sacerdotessa delle tenebre” Nico, il Krautrock e la musica cosmica, ma anche le liturgie sonore norrene dei Wardruna.
La sua esibizione al castello di Udine è stata sbalorditiva, drammatica, esaltata da violente luci livide, è sembrata cantare i misteri di qualche culto orfico fino ad instillare nell’uditorio una sorta d’horror vacui davanti alla manifestazione tenebrosa di un Grande Antico.
Certo l’artista sarda non è la sola a cercare tali esperienze sonore, vi è tutto un percorso nell’arte del cantare la parola che va almeno da “Vena Cava” di Diamanda Galàs a “Caligula” di Lingua Ignota e anche in Regione possiamo contare su meravigliose recenti esperienze in questo senso, dalle immaginifiche sonorità di “Vox Humana” di Elsa Martin all’ipnotico “Hrudja” di Michele Silverio fino alla mistica ispirazione delle “Anutis” di Laura Giavon.
Quello che è certo è che Daniela Pes ha saputo guidare questa esperienza verso i “laghi bianchi del silenzio” risvegliando, anche in un pubblico meno abituato a certi estremi, il “gusto superiore” di fare esperienza attraverso l’ascolto. L’eccezionale successo del suo “Spira” soprattutto nelle giovani generazioni che poco sanno di Cosmic Jokers, Amon Duul, Popol Vuh, Faust oppure delle fantastiche disseminazioni di Klaus Schulze e Lisa Gerrard, è un vero e proprio miracolo.
La cantante sarda reinventa una tradizione facendola sorgere dalle profondità del tempo, immagina futuri remotissimi attraverso i suoni dell’inaudito. Appare come una vestale, custode dei segreti dell’incubo e dell’oblio.
Facile paragonare la sua arte alla mitologia degli uccelli marini come le Berte Maggiori che con la loro etologia e i loro versi stranianti e notturni diedero origine alla leggenda delle Sirene; ancora più immediato avvicinare la drammaticità della sua espressione artistica nel lugubre mito di Tereo e delle sue figlie trasformati rispettivamente in upupa e in rondini.
Possiamo però anche smetterla una buona volta con questo giochetto accademico buono per i liceali, anche perchè la musicista sarda, oltre a tutto questo, può vantare una propria levità nell’approccio ai suoni che appaiono in qualche caso morbidi e translucidi anche se altrettanto inquietanti di quelli della musica più estrema ed enigmatica. Alcuni dei brani inediti sentiti al castello di Udine in questo senso sembravano perfino “ballabili”, con tutte le cautele del caso.
La sua creatività non riprende pedissequamente il passato più remoto o quello più recente, la sua è una rielaborazione di materiali sonori ed emozionali davvero eterogenei: dalle seduzioni elettro-digitali più raffinate, fino al tribalismo espresso dai tamburi di guerra che ricordano le performance dei norvegesi Wardruna, cui già accennavamo.
Daniela Pes e le sue musiciste hanno anche il grande merito di non blandire gli spettatori con le solite mossettine o gli atteggiamenti stereotipati da show business; durante tutto lo spettacolo sono state assolutamente concentrate sulla loro arte senza voler cercare facili consensi o scontati applausi, fino ad avere un atteggiamento del tutto ieratico e distaccato come se appartenessero ad un altro spazio e ad un altro tempo.. Appena scese dal palcoscenico però sono apparse subito gentilissime e disponibili nell’incontrare il pubblico per gli autografi, i selfie e per condividere le emozioni del concerto.
Daniela Pes ad un certo punto ha anche imbracciato una “semplice” chitarra dai suoni completamente processati, per cantare una dolcissima ballad che si espandeva grazie alla batteria elettronica e ad un timpano folklorico, gli estremi opposti del mondo delle percussioni.
Il brano non era nient’altro che una ciclica ripetizione di un’onomatopea, in un crescendo di tastiere, suoni che si alzavano fino a sovrastare le emozioni come una marea che sale al ritmo di una pulsazione che stordisce, disorienta, confonde, per un battito elettronico che guarda alla Techno e alla Trance Made in Berlin, oggi ufficialmente “Patrimonio immateriale dell’umanità” tutelato dall’UNESCO. Sono suoni che ti paralizzano. A questo punto, possiamo ben dire con David Cronenberg: “Viva la nuova carne!” salutando una nuova grande personalità artistica per la musica nel nostro Paese.
Quella di Daniela Pes è musica concreta dal cuore e dal sangue delle macchine, con suoni da sci-fi degli anni ’50 che si somma a qualcosa che ricorda gli spazi sensoriali di György Ligeti e a rumori naturali e ambientali come quello della pioggia che scroscia.
Finalmente qualcuno che si prende sul serio. Il fumo rosso sul palco, le luci ambrate e la situazione crepuscolare evocata dalla liturgia e dall’alchimia dei suoni che finiscono per divertire, ma che, con rigore espressionista, riescono allo stesso tempo a farci penetrare nel profondo delle tenebre del nostro cuore.
Tu che non sei che non sarai mai stata
il mal dÈ fiori presso allo sfiorir
dolora in me nel vano ch’è l’attesa
del non mai più tornare
Te che mi fingo in che non so chiamare
Folle tua la mia voce
sono te che non sei Sono non è
dei morti Non è d’anima
in sogno l’immortale
(Carmelo Bene, op.cit.)
Foto di Angelo Salvin, Riccardo Modena, Ingrid Wright
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