Stupisce il fatto che Hannah Merrick e Craig Whittle, in arte King Hannah, siano inglesi. Suoni acidi californiani, certo folk “desertico”, il cosiddetto slowcore.: tutto porta oltreoceano. Nomi come Opal, Smog, Black Heart Procession non diranno molto ai più, ma probabilmente sono stati fonte di ascolto per i nostri due, aggiungendo al tutto gli albionici Portishead, conclamata influenza del duo. Sul palco di Sexto ‘Nplugged nella serata del 7 luglio, lui in versione slacker in maglietta e cuffia di lana (!), lei con l’aria a dir poco distaccata (girava voce che uno l’avesse vista sorridere nel 2013), hanno confermato l’ impressione di essere un perfetto compendio di certe traiettorie musicali USA fine ventesimo secolo: suoni a tratti scarni, intimismo, toni crepuscolari, look dimesso e nessuna concessione al glamour, anche dal vivo.
Prima della performance la dj Numa Echos ha proposto una stilosa e frizzante selezione di brani per ravvivare coloro i quali ingannavano l’attesa mangiando e bevendo nell’area di Sexto Lounge ed in seconda battuta sul palco principale si sono presentati i SUNMEI, neonata band pordenonese, al quale l’organizzazione ha dato la possibilità di farsi conoscere al pubblico di Sexto ‘Nplugged. Anche qui i suoni portano agli USA, quelli legati ad un rock più attento alla melodia che all’impatto ritmico o alle distorsioni delle chitarre, pur rimanendo attaccati alle proprie radici musicali. In certi frangenti mi hanno ricordato certe cose dei Fleetwood Mac dei settanta, quelli che riuscivano ad inserire nel mainstream buone canzoni pop dal retrogusto american style. Limando certe inevitabili ingenuità potranno arrivare a fare qualcosa di significativo. Prendendo esempio magari dai King Hannah, che in pochi anni sono passati da un pub di Liverpool ai palcoscenici internazionali. Con merito, da quanto si è visto a Sesto al Reghena. Il duo, coadiuvato da sezione ritmica basso – batteria, tanto semplice quanto efficace, ha saputo convincere la platea del festival con la sua formula semplice ed apparentemente ripetitiva: canzoni che partono lente, quasi svogliate nel salmodiare della Merrick, per poi dipanarsi in crescendo in cui la chitarra di Whittle da languida e soffusa sembra prendere vita per dar luogo ad incandescenti crescendo. È come se si passasse da un’ implosione di sentimenti ( i testi ed i suoni crepuscolari) ad una esplosione catartica. Potrebbe sembrare un cliché, ma la personalità dei due protagonisti dà credibilità al tutto. La voce della Merritt caratterizza le canzoni con uno stile in apparenza freddo e distante, ma in realtà sinuoso ed a modo suo seducente. In virtù di questa falsa ordinarietà e di un distacco dal pubblico (e forse dal mondo) la cantante ha una presenza scenica non banale e, per questo, carismatica. A tanto aplomb fa da contrasto il trasporto con cui Whittle vive le canzoni instaurando un rapporto quasi fisico con una chitarra che sembra prendere vita dalle sue mani. Poi ci sono le canzoni, che i due sanno scrivere e trasporre al meglio sul palco: “A well-made Woman” , sussurri vocali, ritmica micidiale nella sua semplicità e volute acide della chitarra a ricamare il tutto, apre il concerto ed affascina: “Go-Kart Kid (Hell No!)” ci fa capire che la cantante ha in casa il santino di Beth Gibbons dei Portishead; nella cover di “State Trooper” di Springsteen il tono svogliato della Merrick quasi irride il classico del Boss, mentre Whittle superandosi eleva il tutto con un assolo da California anni sessanta. Che dire poi di “Crème Brûlée” (loro primo singolo) ? Lei canta divinamente una melodia perfetta, la sezione ritmica sembra nata per accompagnarla e la chitarra quasi commuove con i suoi squarci melodici. Un concerto intenso come pochi a dispetto dell’apparente impassibilità della band e del rifiuto al rito del bis. Ma è andata bene così, in fondo come cantano loro “ All being fine”.
Daniele Paolitti – instArt 2023 ©
Foto di Maicol Novara ©