“Lascia che ti porti le mie canzoni dal bosco, ti faranno sentire meglio di quel che puoi immaginare. Ti avvolgeranno dalla testa ai piedi. Ti faranno capire come crescono i giardini. Tieniti forte mentre procediamo. Unisciti al coro se vuoi”.
Preceduti di poco da una scossa di magnitudo 3,3° Richter con epicentro proprio a Majano, alle 21,30 precise sono saliti sul palco del Festival di Majano i Jethro Tull che sono sempre stati semplicemente Ian Anderson e i musicisti che lungo il corso di questi 51 anni di carriera lo hanno di volta a volta accompagnato.
Certo ce ne sono stati di eccezionali come Martin Barre per 43 anni alla chitarra o Clive Bunker alla batteria ma la band si è sempre identificata con il suo leader. Perciò nessuna novità se a celebrare il lontano 02 febbraio 1968, prima esibizione pubblica dei Jethro Tull al Marquee club di Londra, sul palco di Majano della band originale c’era solamente Ian Anderson con il suo flauto, se lo merita è tutta roba sua.
Da almeno venticinque anni la band celebra le proprie glorie e i trionfi passati con tour, ristampe, nuove raccolte e merchandising vario. Di anniversari non se n’è fatto scappare nemmeno uno. Anderson non perde mai l’occasione di tornare sui propri successi passati, lo si è visto spesso anche in regione, almeno a partire dal concerto sul piazzale del Castello di Udine del 16 luglio 1999 per Folkest.
Possono sembrare operazioni stucchevoli e nostalgiche, puro e semplice fan service e, invece, come ha ampiamente dimostrato il concerto di Majano quella musica funziona ancora e anche se la band non fa assolutamente nulla di nuovo e quello che aveva da dire lo ha già detto decenni fa, ciò che si è potuto sentire è onesto, robusto folk rock con venature prog. Una musica piacevole e solida, gustosa e saporita come i bistecconi che si rosolavano sulle griglie e le enormi Wiener schnitzel che si indoravano nell’olio bollente nelle fornitissime cucine del festival.
Si tenga conto che in questi anni Ian Anderson non si è fermato un attimo e la sua produzione artistica non si è per nulla limitata ai primi album dei Jethro Tull che il tour celebra. La sua carriera solistica è tutt’altro che disprezzabile e i 50 album in totale della band, anche se non tutti dello stesso livello compositivo, sono un patrimonio musicale enorme e con pochi paragoni nella storia del rock.
“Farò di te una brava persona, lascia che ti porti dell’amore dai campi. Papaveri rossi e rose colme di pioggia d’estate, per guarire la ferita e calmare il dolore, che ti minaccia di volta in volta, mentre percorri le strade dell’amore.”
Tutto cominciò nel 1967 quando il ventenne Ian Anderson che già da qualche anno si guadagnava da vivere suonando nelle blues band della provincia inglese, decise che la chitarra non faceva più per lui. L’aveva comprata da un altro ragazzo talentuoso e inquieto, tale Lemmy Kilmister che se ne era liberato per passare al basso e intraprendere una carriera che lo avrebbe portato a fondare i suoi Motörhead con i quali avrebbe incendiato e raso al suolo i palcoscenici di tutto il mondo. Strani casi della vita.
Anderson barattò quella preziosa chitarra per un flauto traverso da quattro soldi e un microfono semi professionale. Un pessimo affare, a prima vista, ma guardato in prospettiva è quello che fruttò più di 65 milioni di dischi venduti e una fama imperitura nei cuori di tutti gli amanti del rock, più di 50 anni dopo ne stiamo ancora gioendo.
La realtà è che allora fare i chitarristi nel rock inglese voleva dire confrontarsi con divinità della sei corde come Jimmy Page, Eric Clapton, Jeff Beck, Ritchie Blackmore, con in più l’ingombrnte presenza di Jimi Hendrix, chiunque non si sarebbe sentito all’altezza. Ci voleva qualcosa di completamente nuovo e che fosse anche caratterizzante e unico per la band, rendendola immediatamente riconoscibile.
Anche se i primi ad usare il flauto traverso nel rock furono i Moody Blues nel 1965, fu indiscutibilmente Ian Anderson a trasformarlo da strumento per bucolici sottofondi a mitraglia che ti spara sulla faccia /ciò che penso della vita /con il suono delle dita/ si combatte una battaglia che ci porta sulle strade della gente che sa amare come avrebbero detto gli Area qualche anno dopo.
Quello è senza dubbio il suono dei Jethro Tull: oggi Scott Hammond (batteria), David Goodier (basso), John O’Hara (tastiere), Florian Opahle (chitarra) ma soprattutto ieri oggi e sempre, flauto, in un amalgama che rende la ricetta sonora deliziosa e succulenta. Molti dei brani più famosi in scaletta non avrebbero proprio senso senza la voce melliflua del flauto.
Cosa sarebbero Acqualung, Locomotive breath, Thick as a Brick e altre senza i fraseggi flautati e i vocalizzi che Anderson emette soffiando nel suo strumento. Probabilmente verrebbero ricordate semplicemente come ottimi rock blues ma niente di più. E quale sacrilegio sarebbe se la Bourrée in E minor tratta da J.S.Bach non fosse stata ripensata proprio a partire dal suono di quello strumento. Infatti, nel concerto di Majano sono stati esaltati, i brani strumentali che hanno fatto meritatamente di Ian Anderson uno dei compositori più apprezzati del nostro tempo. Pastime With Good Company (King Henry’s Madrigal) è una meravigliosa canzone popolare inglese scritta da Enrico VIII agli inizi del 1500 in pieno Rinascimento. L’interpretazione rock dei Jethro Tull che risale al 1979 (Stormwatch) la rende ancora più piacevole ad un ascolto moderno e non strettamente filologico.
Warm Sporran è uno strumentale che Anderson ha dedicato alle sue origini scozzesi. Il titolo indica una tradizionale borsetta di cuoio che si indossa legata alla cintura del Kilt.
“Qui si celebra la vita sempre. Brindo a te, con mille auguri. Lascia che ti porti le cose più preziose. Gagliarde e canzoni per liuto, servite con birra ghiacciata. Saluti a te, benvenuto amico mio!”
Lo straordinario, numeroso pubblico di Majano ha seguito il concerto sotto una leggera continua pioggia che non ha risparmiato nemmeno questo attesissimo evento in un’estate, che sarà ricordata per la precisione cronometrica delle precipitazioni atmosferiche che, non appena si diffondevano le prime note di una qualunque esibizione, non ha mai fatto mancare un timido scroscio o addirittura una bomba d’acqua tanto per mortificare gli organizzatori e innaffiare per bene gli spettatori.
Se è possibile fare una critica allo spettacolo Jethro Tull 50 anniversary è quello di essere poco spontaneo e fin troppo costruito nei tempi e perfino nelle battute che Anderson ripete identiche da 10 anni almeno. Perfino la tempistica dei brani è sembrata calcolata al secondo, così come i due set di cui si compone il concerto vengono annunciati dalla voce registrata dello stesso leader che esorta gli spettatori a spendere con il merchandise ufficiale della band oppure che presenta i musicisti tra gli applausi finali regalando un inquietante effetto supermercato.
Altra nota dolente è la voce di Ian Anderson che ha risentito molto dei dieci lustri passati. La volontà di divertire il pubblico c’è tutta ed è encomiabile; danza sul palco, si sbraccia, corre, saltella e suona su una gamba sola nella famosa posizione della gru che, ancor oggi, è il simbolo vivo di tutta la sua carriera, ma quando si sposta davanti al microfono l’effetto è decisamente ai limiti del la decenza, almeno per chi ricorda i bei tempi andati.
Il deterioramento delle sue corde vocali non è cosa nuova, già a partire dagli anni ‘90, Anderson ha subito diverse operazioni alle corde vocali, nonostante questo ha sempre continuato a fumare e a strapazzare la voce con mille concerti e impegni professionali. Se prima il problema era quasi impercettibile, ora è diventato del tutto evidente e perfino drammatico. Alcuni arrangiamenti hanno preteso di abbassare la tonalità dei brani per facilitare il cantante con il risultato di renderli quasi irriconoscibili.
Nonostante tutto comunque lo spettacolo è piacevole; nostalgico quel tanto che basta e senza eccessive pretese. Per chi è cresciuto con quelle canzoni e per chi le ha vissute nella propria gioventù è sempre una grande emozione risentirle; per i ragazzi di oggi, e ce n’erano parecchi ad “accompagnare i genitori”, anche se alcune cose rimarranno incomprensibili qualcosa senza dubbio sarà passato; la muscolare iniezione di rock data dai nuovi arrangiamenti sicuramente a fatto breccia e qualcuno di loro, di sicuro, starà ascoltando su Spotify il respiro della locomotiva, proprio in questo momento.
“Sarò il vento che gonfia le tue vele, sarò la croce che porterà il tuo chiodo. Un cantore per questi tempi senza età, con prosa fatta in casa e versi da strada. Le canzoni del bosco ti faranno sentire molto meglio”(da Songs from the Woods)
© Flaviano Bosco per instArt