Per la rassegna “Tra Letteratura e Teatro” è andato in scena al Verdi di Pordenone, Fedeli d’Amore, polittico in sette quadri per Dante Alighieri del Teatro delle Albe, una delle rappresentazioni più emozionanti e intense viste in Regione negli ultimi anni.
Ermanna Montanari e Marco Martinelli sono una delle realtà più luminose del teatro italiano che, tra tanti acciacchi e carabattole nazional-televisive, sa ancora proporre tesori d’arte drammatica come quelli che il Teatro delle Albe porta in scena ormai da quasi quattro decenni.
Li avevamo visti sulle stesse assi del Verdi lo scorso anno con “Va pensiero”, una seducente rielaborazione in chiave moderna del mito risorgimentale e della musica di Verdi in collaborazione con il coro di Ruda. L’Italia corrotta e volgare di oggi veniva messa a confronto con quella non meno stolida della sua anelata Unità.
Il volume di Luigi Valli Dante e i fedeli d’Amore occhieggiava sornione dal bookshop del teatro in un assortimento di vari esoterismi danteschi e altre sciocchezze. Pur non facendone certo parte, tra queste ultime spiccava per contrasto il meraviglioso testo nel quale Marco Martinelli intreccia la propria esistenza di artista e di uomo con quella dell’Alighieri e del suo poema sacro: Nel nome di Dante, diventare grandi con la Divina Commedia (Ponte alle Grazie, 2019), la confessione di uno smisurato amore per il Sommo poeta e un inno all’arte capace di far diventare i suoi versi carne, ossa e nervi sui palcoscenici della vita.
La Questio dei Fedeli d’Amore, oltre ad essere per definizione vexata, è del tutto irrisolta e, ragionevolmente, destinata a rimanere tale. Ben altra la prospettiva del Teatro delle Albe a dispetto del titolo della pièce. Dando per acquisito il prodromo del libro di Martinelli, varcata la soglia, non appena si sono discostate le cortine del sipario, si è subito manifestata la vera densa sostanza della rappresentazione. Gli spettatori si sono immediatamente trovati avvolti da una scura caligine di luce che tutto nascondeva mostrando, accecati da un riflesso e calati in un luogo d’ogni luce muto. Ma facciamo un passo indietro prima di smarrire la diritta via nell’emozione dei bizantinismi poetici.
Polittico, come dice il dizionario, è originariamente e per definizione una forma d’arte sacra, una pala d’altare costituita da singoli pannelli separati racchiusi da una cornice al fine di dare all’opera una struttura architettonica. Per estensione è considerata polittico una qualsiasi opera d’arte costituita da più elementi distinti collegati insieme (De Agostini 2011). Diventa così immediatamente chiaro il sottotitolo della rappresentazione. Se però scaviamo ancora un po’ nel lessico, scopriamo che in età medievale per polittico si intendeva anche un inventario in forma di registro con più fogli cuciti insieme nel quale si descrivevano i beni di un certo proprietario con tutti i dati relativi indispensabili in caso di vertenze o lasciti testamentari.
Il primo quadro, infatti, ci mostra il letto della “cameretta”, così viene definita, con il poeta morente stremato dalle febbri malariche contratte a Ravenna o nella pineta di Chiassi. Tutta la scena è evocata dall’incredibile voce della Montanari che intarsia il suo dire di dialetto romagnolo, di luci e chiaroscuri, sostenuta dal sound design di Marco Olivieri e dalla tromba estatica di Simone Marzocchi. Unico elemento scenico di un certo rilievo è una struttura metallica, quasi uno scheletro che ricorda la cornice che da un senso ai quadri del polittico. La scena è assolutamente vuota e scarna, scura e nera come la morte eppure luminosa dei suoni generati e scaturiti, è proprio il caso di dirlo, dalla fibra vitale dell’attrice che nei sette quadri incarna personaggi, ambienti e situazioni.
Nel primo “Nebbia che parla” come dicono gli utili sopra-titoli è proprio l’umida sostanza ad introdursi in un’alba del 1321 (A son indapardut stamatena) da una fessura della “cameretta” per raccontarci del poeta bandito, scacciato sul letto di morte pieno di febbre con la morte che gli spacca il cranio.
“Or incomincian le dolenti note”, la mente annebbiata del poeta che muore mentre gli ultimi 13 canti del suo poema sono nascosti in una fessura della parete; il Paradiso è lì dentro murato. Smuore el scritor, Fiorenza matrigna, postribolo e patibolo, lo vuole morto. Lui trema, biascica e delira…Ravenna d’alabastro…dopo tanto girovagare, giorni da cane randagio, la vita lo sbrana. Il poeta smerdato, smuore mentre una tromba come un tuono potente “mugghia” nel vuoto silenzio degli inferni che si spalancano alla tenebra di luce. Si chiude, il primo quadro, con uno spaventoso assordante, frastuono, quivi le strida, il compianto, il lamento.
Appare allora la seconda scena Demone della fossa che parla ed è l’inferno vero, non quello delle antologie scolastiche candeggiato e sterilizzato dai programmi ministeriali e dai falsi pudori di tanti insegnanti, ma quello nel quale ti ritrovi ad avere il sangue zuccherato con merda e nel quale i diavoli tormentano i dannati affogandoli nel loro piscio tra le urla delle madri e il sangue dei bambini straziati dalla protervia di chi sa progettare solamente cadaveri. La guerra con le sue bombe fa del mondo un sarcofago morte, morte e merda. La Montanari, trasfigurata in feroce demone, fa intendere che l’inferno non è una lontana fantasmagoria medievale ma una realtà quotidiana le cui fauci sono tutt’altro che serrate. I nostri inferni che Dante ha visto e immaginato, sono quelli delle guerre, dell’avarizia, della brama di profitto, dell’indifferenza e della sete di sangue che costruiscono le crudeli architetture del nostro sistema politico ed economico i cui motori consumano un carburante di idrocarburi ed emoglobina per la quale si dissanguano i deboli e i reietti del mondo.
Se è possibile pensare ad un baricentro di questa performance scenica, di certo lo possiamo trovare nel terzo quadro, nel quale un Asino che ricorda dice: Me, me, me… Io un somarello pelle e ossa ho portato lo scrittore. Un povero ciuco ricorda d’aver portato per ultimo il poeta morente. Sulle prime sembra quasi una trovata drammaturgica tra il serio e il faceto, ma subito lo spettatore s’accorge che si tratta di ben altro. L’animale continua: a testa bassa, tutta la vita ho portato il mondo i ricchi e i poveri…ho una ferita sulla schiena a forma di croce anche se non la vedo. Per bizzarro che possa sembrare a noi distratti e secolarizzati schizoidi uomini del XXI sec. la figura dell’asino è un antichissimo simbolo sacro; i primi cristiani venivano accusati di onolatria perché raffiguravano Cristo crocifisso con testa d’asino, a voler significare che l’animale più mansueto, servile, umile veniva innalzato alla gloria dei cieli (Graffito Palatino II sec.). Era un’antica incarnazione della saggezza e della semplicità celeste; è dei semplici e degli ultimi il regno e la gloria. Come dice San Paolo, cui Dante si paragonava nel poema sacro: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, ciò che nel mondo è debole per confondere i forti!”.
La bestiola curva per il peso da sotto a sopra, guarda e medita: se guardo attorno vedo dappertutto la croce, il mondo è fatto a croce, un’enorme croce che tocca il cielo. Se gli uomini aprono le braccia sono fatti a croce, lì fermi, odorosi, sono fatti a croce. Se abbassi gli occhi a terra vedi gli animaletti fatti a croce, così come gli uccelli e tutto il resto. La croce è ferma, tutto il resto gira. Mi hanno messo la croce, bastonato, sputato, scorticato…io me ne fotto. La croce sta ferma, tutto il resto gira, senza di essa niente esiste. E’ la fede incrollabile di una vittima predestinata, di un Pharmakon che sconta la propria bontà vivendo tra le angherie e l’oppressione ma che ha una fede incrollabile che non lo fa arretrare di un passo nonostante le bastonate. Questo asino è Cristo, Francesco d’Assisi, Dante che è profeta di giustizia e di redenzione. Come in Marco 11,2: “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un asinello legato sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatolo qui”.
A questo punto, gli spettatori ancora sospesi nell’afflato mistico del divino ragliare, assorti nella santa asinità come avrebbe detto Giordano Bruno, vengono ricacciati di nuovo nella bolgia infernale dove un Diavoletto che scherza li scuote e li stordisce a colpi di sferza. Sono i gironi degli avari e dei prodighi e più giù dei barattieri, dei falsari, dei grassatori d’ogni sorta, dei simoniaci dei banchieri corrotti dal Maladetto fiore che ha sviato i pecoroni e gli agnelli trasformando in lupo feroce il pastore. E’ la condanna del profitto ad ogni costo, di Mammona come unico dio da servire, lo sterco del diavolo che diventa alimento per le nostre bocche voraci di ricchezze ed agi sulla pelle di legioni di sfruttati e oppressi. Perché l’umana gente si rabbuffa/ Che tutto l’oro, ch’è sotto la luna, E già fu, di queste anime stanche, mai non potrebbe farne posar una. (Inf. VII, 63-66).
E viene il momento dell’invettiva più tonante e vibrante Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello. (Purg VI, 76) e non sembra proprio che si parli di settecento anni fa. Tutto corrisponde ed è forse peggiore. Dividere, dividere, dividere, violenza tra fratelli corpi spaccati con le budella di fuori, Italia impantanata nel tuo stesso sangue che non cambi mai.
Un gioco di ombre trasforma la scena in un luogo claustrofobico, quasi una sorta di carcere di anime nel quale Antonia, figlia del poeta, al suo capezzale ci racconta di come il padre deliri. Ci sono anche il figlio Jacopo e la moglie Gemma Donati, la donna che ha salvato e custodito la Commedia cui dobbiamo tanto e di cui sappiamo quasi niente. Attorno al letto postremo ci sono anche i Fedeli d’Amore, gli antichi amici fatti d’amore che indicano il loro signore, il potente Amore bello e tenebroso, bello come colui che può tutto: Amor che move il Sol e l’altre stelle. E poi ancora la nebbia di luce che tutto avvolge e confonde.
Siamo alla fine dell’inizio, o all’inizio della fine. Ermanna Montanari guadagna il proscenio e sotto un fascio di luce diventa Dante che delira e spasima, vede la fossa, il proprio cranio spaccato mentre sprofonda nella merda. Proprio in quel momento forse ricorda il Maestro, Tommaso d’Aquino che morendo guardava la sua Summa teologica dicendo: Mi pare una cosa riuscita. Mentre il poeta muore è consapevole che la propria opera lo renderà eterno proseguendo il suo cammino. Nel delirio gli appare quella piccola bambina che incontrò a nove anni, tutto iniziò con due bambini che si guardano lungo la via e poi la vita nova, la selva oscura, la Commedia e un cerchio dentro un cerchio dentro un cerchio e luce.
Interpretazione inarrivabile, maiuscola e magistrale di Emma Montanari che da sola riempie il palcoscenico. Meraviglioso e straziante il testo di Martinelli dalla scrittura raffinata e pungente. Dante vive ogni volta che della Commedia si comprendono e rappresentano i fondamentali intenti politici. La voce di uno che grida nel deserto continua a risuonare ogni volta che ci mettiamo in ascolto.
Flaviano Bosco © instArt