Nell’ambito della rassegna Eventi nel parco di Villa Manin estate si è tenuto il concerto di Goumar Almoctar in arte Bombino con l’accompagnamento di Adriano Viterbini.

Già solo l’accordatura delle due chitarre sul palco, allestito con vista sul parco della villa, faceva scaturire suoni che sapevano d’Africa, di deserti e strade assolate. Bombino non suona accordi ma modula il suono delle sue corde pizzicate da vero maestro dello Shredding; il liuto arabo non è lontano e nemmeno la Kora. Non bisogna intendere la definizione di quel particolare stile chitarristico nel senso tradizionale di perfezione tecnica e velocità ma soprattutto per quanto riguarda gli accorgimenti del tapping, trilli e sweeppicking ed un grande uso della leva del vibrato soprattutto nella chitarra elettrica. La tastiera della chitarra di Bombino viene utilizzata in modo del tutto anticonvenzionale. Le corde sono pizzicate, trascinate, percosse in una continua variazione di ritmi e di stili che vanno dal desert blues propriamente detto, che è già un anomalo incontro tra blues, folk e musica berbera, fino all’incredibile “Tuareggae” che agglutina anche ritmi caraibici.

La voce intona quelle che sembrano salmodie, nenie di un tempo lontano da cantare per raccontare storie. La sua musica ha un fascino antico e un ritmo suadente e ripetitivo come ogni nostalgia.

Viterbini fornisce un’ottima ritmica e l’incontro tra i due sembra propiziato da una buona stella; come diceva il poeta: “Nei ritmi ossessivi è la chiave dei riti tribali”.

La leggera brezza che soffiava sul pubblico seduto sul prato della Villa rendeva il sole pomeridiano più sopportabile e faceva pensare, con un po’ di fantasia, ad un vento che soffiasse dal deserto.

Anche alla chitarra elettrica Bombino ha un suono ancestrale ed ispirato; elettrificato, il suo sound diventa più urbano ma non meno efficace e tribale.

Scrive il critico musicale Luca d’Ambrosio nel suo ottimo “Musica Migrante”(Arcana 2019, pag.136): “Il Tishoumaren è un’espressione musicale che inizia a svilupparsi negli anni sessanta tra i Tuareg, nomadi di origine berbera dell’Africa Sahariana, nell’ambito delle contestazioni politiche di questo popolo. A differenza della loro musica tradizionale, incentrata prevalentemente su strumenti come imzad, percussioni, fiati ed eseguita da gruppi anche di trenta elementi, il Tishoumaren è una musica per chitarra, soprattutto elettrica, contraddistinta da un sound che impasta il blues con ritmi e melodie tanto dell’Africa occidentale e settentrionale quanto del Medio Oriente. Il nome deriva dalla parola francese chômer, che vuol dire “disoccupato”, e i testi, alla maniera della canzone cabila, rivendicano libertà, dignità, giustizia, uguaglianza e diritto all’autodeterminazione”.

E’ questo che il pubblico comodamente sdraiato sui propri tappetini sul prato di Villa Manin ha potuto sentire dal palco. Forse non tutti si sono accorti che quello che sentivano non era puro intrattenimento ma il grido di libertà di un popolo intero che da decenni sta lottando anche con la musica per la propria sopravvivenza non rivendicando solo il solito pezzo di terra.

Il deserto non può appartenere a nessuno, ma è sacrosanto il diritto di spostarsi liberamente tra un confine e l’altro, continuando a vivere come hanno fatto per migliaia di anni, nomadi, erranti e transumanti, senza padroni e senza linee di divisione che tracciate arbitrariamente sulla sabbia del deserto hanno ancora meno valore che altrove. Lo spazio desertico che i Tuareg considerano come matrice delle varie etnie che li compongono è compreso a nord tra Algeria e Libia e a sud tra Niger, Mali e Burkina Faso. Il chitarrista, originario del Niger, nella sua vita, è stato spesso costretto a lasciare tutto e a spostarsi con la famiglia per le persecuzioni subite toccando praticamente tutti questi paesi nella condizione di profugo o di richiedente asilo.

Bombino canta in lingua Tamasheq che è l’idioma che unisce le genti tuareg. Nel suo repertorio troviamo le dolcissime canzoni d’amore come Tamiditine (Mia piccola cara) che esprimono quell’indefinibile sentimento che ognuno è in grado di sentire dal profondo della propria anima se solo si mette in ascolto. Così come molto presente è il tema della nostalgia della propria casa e la voglia di tornare ai propri luoghi d’origine come in Ahulakamine Hulan: “Ricorda i giorni e i momenti che abbiamo trascorso insieme…tornerò un giorno, accompagnato dalla nostalgia per quei giorni. Naturalmente largo spazio è dedicato alle canzoni contro la guerra come Imuhar (Uomo libero) che rivendica la pace per il suo popolo e per tutti gli uomini di buona volontà: “Svegliati mio popolo, alzati in piedi, combatti le difficoltà che hai davanti, una lunga strada ti aspetta”.

I testi delle canzoni sono in realtà molto semplici e brevi, di per se non hanno versi straordinari o memorabili. Non è di certo poesia accademica o troppo sofisticata, è espressione di sentimenti autenticamente popolari fatti di emozioni schiette dai colori accesi. A chi si ama, in fondo non servono molte parole, basta un bacio e a chi soffre per la propria patria è sufficiente un grido e una mano chiusa a pugno levata.

Bombino non si risparmia e sotto il sole cocente intona un motivo dietro l’altro seguito da Viterbini che gli fornisce sempre un ottimo bordone senza mai strafare da perfetto sideman. La sua chitarra regala profondità ai suoni del leader senza mai sovrapporsi in un gioco studiato e affascinante nel quale viene sottolineato non tanto il virtuosismo dell’uno o dell’altro ma le melodie e i ritmi che i chitarristi hanno cura di far risaltare sempre. Bombino, pur essendo una superstar riconosciuta, possiede un’innata umiltà e quello che possiamo chiamare “spirito di servizio”, non è lui a primeggiare tra le note ma il messaggio che vuole lanciare attraverso la sua musica.

Le scale spezzate, le brevi frasi ripetute all’infinito senza soluzione di continuità sembrano in grado di provocare quasi una leggera trance ipnotica. Le note liberano la mente ed “è colpa dei pensieri associativi se non riesco a stare adesso qui” come diceva sempre il poeta Battiato. Quella di Bombino è una seduzione che non ha bisogno di molte interpretazioni, colpisce il cuore e le viscere, sono ritmi di una dimensione musicalmente arcaica che possediamo già dentro di noi e che l’ascolto evoca e ricorda. Il deserto è anche una condizione interiore ed è proprio quell’idea di spazio disanimato che le note della chitarra finiscono per suggerire.

Tra il pubblico, probabilmente, l’unico ad aver capito fino in fondo, le parole e la musica di Bombino era un vero tuareg che per l’occasione vestiva gli abiti tradizionali degli uomini blu del deserto, turbante compreso e che alcune volte ha interagito in lingua con il chitarrista che garbatamente rispondeva. E’ stato l’uomo più fotografato del concerto. Quei vestiti e quel copricapo suscitano in noi immediatamente degli stereotipi irresistibili, perciò non stupisce che molti abbiano voluto portarsi a casa un pezzettino di deserto formato pixel. Se ci pensiamo un attimo però quell’uomo, immigrato in Italia, sposato con una donna italiana e con dei bellissimi figli che erano lì sul prato con lui, in quel momento, stava testimoniando della diaspora di un popolo perseguitato che molto spesso sia per motivi politici, sia per motivi economici è costretto a lasciare le proprie case, la propria terra per cercare di sopravvivere in luoghi lontanissimi, spesso ostili nei quali la loro cultura è ignorata. Bombino ha regalato a quell’uomo e a tutto il suo pubblico attimi di libertà che ognuno ha potuto interpretare a proprio modo, secondo sensibilità, origine e cultura. Certo è che il linguaggio è stato quello della pace e della fratellanza che, al di là delle differenze fonetiche e grammaticali, tutti gli uomini universalmente comprendono con il cuore. As Salam Alaykom!

© Flaviano Bosco per instArt