Continuiamo, in questa seconda parte, la recensione di alcune delle esibizioni più significative della XXXI edizione della storica e vivacissima rassegna pordenonese.
Sugar Blue “The Colors of Blues”, Damiano Della Torre (Tastiere) Ilaria Lantieri (basso e voce) Sergio Montaleni (chitarra, voce) CJ Tucker (batteria) Solo Diabate (balafon e djembe).
Sugar Blue, è entrato in scena, da par suo, come un sovrano mentre la band aveva già iniziato a suonare; il vero “King of Harmonica Blues” era bardato con la sua cartucciera di armoniche a bocca, in un vestito total black con basco in testa, sembrava un combattente della Rivoluzione Messicana o della Guerra di Spagna oppure meglio uno dei Black Panthers.
La sua bassista a sei corde era proprio degna di essere chiamata tale e, per inciso è anche sua moglie. Il sound era decisamente cambiato in meglio e si sentiva nettamente. Dopo qualche piccolo problema all’amplificazione risolto immediatamente dall’efficientissimo service del festival, il concerto è partito al galoppo con una teoria di brani divertenti e serratissimi.
Si è fatta notare una versione del classico “Hoochie Coochie Man” molto dilatata che lasciava tutto il tempo a Sugar Blue di sfoggiare i suoi assolo all’armonica davvero coinvolgenti ed evocativi. Spettacolo nello spettacolo è stato anche il lungo inciso del percussionista africano al Balafon e ai tamburi; non è troppo frequente sentire il classico di Muddy Waters ritmato con le pelli e i legni d’Africa.
Bisogna anche dire però che il Balafon è un tipico xilofono pentatonico dell’Africa Occidentale, quindi perfettamente in linea con le modalità tonali del blues del quale, molto probabilmente, è un lontano antenato.
Tra i brani in scaletta, spesso molto jazzy, funkeggianti e tropicali, uno in particolare può riassumere l’arte di Sugar Blue ed è “Blues Man” che non manca mai nelle sue esibizioni, in questo caso, con il percussionista africano che continuava a regalare fragranze e afrori d’Africa che inebriavano facendo sentire tutti ancora più felici. Canta: “Well I’m a bluesman, I was born to be. My greatest love is to be free. I’m a bluesman, that’s what I am. If you don’t like it I don’t give a dam”.
Per tutto il tempo del concerto, uno scatenato bambino, di forse 12 anni, ha corso, ballato, scalciato come un vero terremoto nello spazio di cortesia tra il palco e le transenne, proprio sotto gli occhi delle prime file e degli steward. Alla fine l’hanno fatto salire sul palco per presentare la band, così si è finalmente scoperto l’arcano, era il figlio della bassista e di Sugar Blue. E’ stato un momento molto tenero, anche in questo caso il blues è un affare di famiglia.
Scaletta approssimativa: Hoochie Coochie Man, Cotton Tree, Blues man, Bad boys heaven, Don’t start me talkin’, Time, Miss you, Messing with the kid.
Fantastic Negrito (voce) The Professor (tastiere) The Chilean (chitarra) The Lone star (basso) The raeson (batteria).
Xavier Amin Dphrepaulezz aka Fantastic Negrito è un James Brown dei nostri giorni, magnetico e istrionico allo stesso modo. E’ un bluesman davvero sui generis, psichedelico in acido che viene proprio da un altro pianeta, con influenze perfino dal Glam Rock alla T-Rex e poi Sly and Family Stone e ancora Parliament-Funkadelic. Nel suo sound c’è un’eco molto precisa e presente della grande arte di Prince, che era in grado di riassumere in se una lunga tradizione di musica afro-americana di tutti i colori possibili.
Negrito ha chiesto al suo pubblico ad inizio concerto: What time is it in your life? Do you ever feel to getting away? Running Away?
Le sue canzoni e la sua vita travagliata, dai bassifondi dello spaccio fino alle vette delle superstar della musica cui ormai appartiene, testimoniano di una profonda riflessione interiore politica e sulle proprie origini.
Per restare all’album che sta portando in tour mondiale in questi mesi e che ha fatto tappa a Pordenone Blues, “White Jesus, Black Problems” è stato generato da lunghe ricerche genealogiche che lo hanno portato a scoprire la drammatica storia delle sue origini.
Come si vede anche nell’interessante breve film legato all’album, in una piantagione del sud una serva bianca e uno schiavo nero s’innamorarono, naturalmente in gran segreto dai loro padroni, da quel fausto incontro origina la sua famiglia.
Fantastic Negrito scrive sul suo sito: “Parte storia d’amore e parte approfondimento storico, il nuovo album, è un’estatica ode al potere della famiglia e alla straordinaria resilienza dell’umanità. E’ ispirato all’illegale, romantica relazione interazziale dei suoi antenati della settima generazione, una serva indigente e uno schiavo di colore nella Virginia del 1750”.
Le meravigliose, incendiarie canzoni del disco che dal vivo diventano ancora più dirompenti e telluriche sono una denuncia contro ogni forma di razzismo, schiavismo e contro il nostro abbruttente sistema economico capitalistico che ha la propria origine più moderna, senza dubbio, nella “tratta negriera”. Non è però semplicemente un velleitario e un “arrabbiato”.
Scrive ancora: “In fin dei conti, è un disco sull’Amore…C’è un sentimento attorno a noi che non riusciamo a cogliere perché siamo polarizzati, distratti dalle nostre ideologie e bloccati dalla logica e dai cosiddetti “fatti”, Voglio condividere la storia della mia famiglia perché penso che spezzi la solita drammatizzazione narrativa sull’argomento. Nonostante le orribili sfide che i miei due antenati dovettero affrontare, riuscirono a trovare una via per essere insieme e i benefici effetti di quell’atto d’amore si sono riverberati per centinaia di anni… Sono sulle spalle dei miei antenati, bianchi e neri, che hanno dimostrato che tutto è possibile…c’era molta bruttezza nella loro storia ma anche tantissima bellezza, è proprio per questo che alla fine hanno vinto, L’Amore vince”. (www.fantasticnegrito.com)
Fantastic Negrito è un prodigio instancabile, teatrale, immaginifico, colorato e luminescente fa cantare e ballare il pubblico senza alcuno sforzo, dimostrandosi un eccellente snodato ballerino. Dice che vuole raggiungere il cuore delle persone non solo le orecchie, e ci riesce perfettamente con potenti dosi di afrobeat, funky lisergico, soul e un hard rock spesso ai confini con lo stoner e perfino con il punk per volumi e riff ossessivi, tutto shakerato in un cocktail infuocato che inebria e stende ancora prima di venire ingollato.
Tutta la sua afronautica la esprime in un meraviglioso brano che è il viaggio nello spazio di il brano Nibbadip e poi in Afrobeat. E’ proprio vero: “Space is the place”.
Scaletta: Transgender biscuits, Oh Betty, Chocolate samurai, Ain’t no sunshine, An honest man, Man with no name, About a bird, Nibbadip, Trudoo, In the pines, They go low, Bulshit anthem, A boy named Andrew, Afrobeat, Highest Bidder, Virginia soil, Plastic Hamburgers, The duffler, Lost in a crowd.
Il festival ha presentato con successo molti altri eventi ma a noi non resta che ringraziare ancora l’organizzazione di Pordenone Blues che, di certo, nutrirà ancora a lungo i nostri sogni di “Sons of a Gun” nell’attesa della prossima edizione che sarà decisamente la migliore come ognuna di tutte le altre.
Flaviano Bosco – instArt 2022 ©