Sono davvero pochi i luoghi così suggestivi come la grotta di San Giovanni in Antro. La musica suonata in quell’antico, misterioso luogo di culto si accorda con le vibrazioni che vengono dalla profondità dei secoli.

Estensioni Jazz Club diffuso aggiunge un altro luogo incantato alla lunga serie di misteri in musica che ha officiato. Lo spirito di questa iniziativa nomade è quello di raggiungere i luoghi per la musica d’improvvisazione più impensati e meno usuali per sposare la bellezza della musica allo splendore dei microcosmi che il nostro paesaggio sa celare soprattutto a chi non si sforza di guardare con il cuore.

La grotta di Antro, esplorata per 5 chilometri, contiene diversi piccoli laghi ed è visitabile per 350 metri, è una bocca che si apre verso le profondità della terra e dello spirito, un luogo nel quale non è difficile immaginare l’antico “descensus ad inferos” che come tutti sanno sprofonda nelle tenebre dell’abisso primordiale, ma punta alle voragini del cielo.

In modo più profano e leggero quella grotta, come tutte le altre, nell’immaginario dei moderni, fa subito venire in mente quei coraggiosi del “Viaggio al centro della terra” di Jules Verne, soprattutto quando dalla volta della grotta stilla qualche goccia d’acqua che è filtrata dentro tutta la montagna soprastante e ci è caduta proprio sulla testa.

L’imboccatura della profonda grotta è stata fin dai tempi più immemorabili un luogo di culto, prima pagano, ora cristiano, con un meraviglioso altare ligneo barocco al centro di quella che possiamo definire la navata centrale e con una suggestiva cappella laterale che riporta simboli solari e altre antiche immagini esoteriche di difficile, misteriosa interpretazione.

In questo luogo così straordinario si è esibito il chitarrista sardo di lungo corso Paolo Angeli, classe 1970 che, partendo dall’incantevole Gallura, ha raggiunto una fama internazionale per la raffinatezza e unicità della sua ricerca musicale, tra lo sperimentalismo, il jazz e la musica antica contemporanea.

Il musicista, contrito, dopo aver aperto il proprio concerto intonando dal Salmo 50-51 “Miserere Mei Deus, secundum magnam misericordiam tuam. Et secundum multitudinem miserationum tuarum dele iniquitatem meam.”, salmodiando, alle spalle del pubblico, procedeva dall’imboccatura della grotta verso il fondo dov’era rivolto lo sguardo e l’attenzione di tutti. Un brivido alla nuca di ognuno e un moto di stupore sorgeva mentre Angeli continuava a cantare lungo la “navata” naturale fino a posizionarsi davanti all’altare come un supplice.

Da seduto ha poi cominciato a pizzicare le corde della sua incredibile chitarra sarda così inusuale e particolare da lasciare sbalorditi e irretiti anche gli spettatori più preparati.

Il suono delle corde era pura magia alchemica amplificata dalle volte della grotta con in sottofondo lo scorrere delle acque del ruscello che viene dalle profondità della roccia e che sgorga pochi metri più sotto l’imboccatura dell’antro.

Angeli sfregava le corde della chitarra anche con un archetto, creando suoni molto simili a quelli di un violoncello, con toni acuminati e taglienti che profumavano di antico e sembravano affiorare anch’essi dai recessi della cavità.

Era un suono di straordinaria profondità, perfino vagamente inquietante e sinistro, che sembrava venire da un altro tempo. Il musicista vi si sovrapponeva con i propri vocalizzi tra sacro e profano. La chitarra era anche collegata ad una pedaliera meccanica ed elettronica; Angeli teneva con la prima alcuni bordoni ritmici di grandissimo effetto con veri e propri colpi sulla cordiera, invece, con i synth sequenziava dei loop creati al momento.

Il risultato era una vibrazione sciamanica che produceva un’azione psicomagica come quelle di cui parla Jodorovski. Quella che si sprigionava dalle dita e dalle corde di Angeli era precisamente una “danza della realtà” come se tutto il visibile e l’invisibile cominciassero a vorticare spinti da quegli accordi che sprigionavano le forze telluriche e ctonie.

In alcuni momenti le sensazioni erano talmente vivide e drammatiche da essere insostenibili e l’eco dei suoni trasformava gli accordi in vere e proprie urla disumane, mugugni e alte grida.

Ad accompagnare l’esecuzione lo svolazzo occasionale di un pipistrello e anche i versi provenienti da un nido di balestrucci sotto la volta dell’altare laterale della cappella dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista realizzata dal Maister Andre von Lach, dalla slovena Skofja Loka e dallo scultore Jacob.

A quest’ultimo sono attribuibili le figure umane di pietra su cui poggiano i costoloni che sostengono la volta. Quei mezzibusti, che, secondo il gusto neoclassico, sono rozzamente sbozzati nella dolomia, in realtà possiedono un fascino straordinario perché restituiscono un’arte autenticamente popolare che ci fa guardare direttamente negli occhi gli abitanti di quei luoghi del tardo medioevo.

Uomini barbuti che bevono, pastori con i loro animali, ma soprattutto suonatori di cornamusa e gusla. Molto probabilmente le figure avevano anche un significato simbolico, magari più di uno, che per noi è ormai inattingibile. Quello che ci resta è il fatto che in quel luogo sacro i nostri progenitori hanno voluto che li vedessimo suonare, bere e lavorare.

A sostegno della volta e iperbolicamente del cielo dal quale viene la grazia di dio hanno messo la gioia della musica, la sacralità del frutto che l’uomo trae dal creato e il vino che è il sangue della vita.

La chitarra di Angeli, se si vuole credere alla persistenza nel tempo e nei luoghi dei simboli, suonava insieme a quella antica cornamusa e ancor di più si combinava con le arcaiche vibrazioni dell’unica corda di quello strumento, derivato dalla lira bizantina, che ci svela una parte dell’identità di quelle genti. La Gusla è dai tempi più antichi diffusa in tutti i Balcani e soprattutto nell’antica Illiria, ancora oggi è usato nel folklore serbo, montenegrino, albanese, bosniaco e via di seguito.

Il cordofono ha una cassa armonica di legno o è una zucca intagliata, ricoperta di pelle magari di un ovino dello stesso gregge allevato dal pastore scolpito che forse avrà fornito anche l’animale per l’otre della cornamusa. Il manico innestato tende una sola corda fatta di crini di cavallo che viene sfregata con un archetto anch’esso di crine.

Questo strumento perde la sua origine nella notte dei tempi tanto da essere molto simile al Morin Khuur mongolo o al Igil tuvano. Sono gli stessi strumenti musicali che i guerrieri di Gengis Khan portavano appesi ai cavalli dell’Orda d’oro che prese i Balcani e minacciò molto seriamente l’Europa guardando la pianura friulana forse da non troppo lontano, dalle selle dei passi tutt’attorno a San Giovanni d’Antro.

Ogni accordo di Angeli scolpiva nella pietra di questo tempo immemorabile come solo la musica può fare, tra i linguaggi dell’uomo che sono in grado di fare da tramite tra la realtà fisica e le dimensioni dell’immateriale che non hanno bisogno di esistere per essere “sentite”.

Angeli, sotto il piede sinistro, aveva anche un semplice sacchetto di plastica con il quale produceva fruscii e suoni ambientali a proprio modo seducenti e strani per qualcosa che può essere definito, a voler fare proprio gli accademici, “ musica concreta.”

Al di là delle stucchevoli etichette sempre arbitrarie e inutili, è proprio vero che l’arte di Angeli fa scomparire le differenze tra suono e quello che sembra non essere altro che rumore, “materializzando” emozioni e memorie ancestrali.

E’ in grado di spaziare dalla musica liturgica di devozione popolare, agli intarsi barocchi, fino alla rumoristica di stampo contemporaneo e ambient in un continuo percorso sinusoidale di elevazione spirituale guidati dal mistero ineffabile della musica delle sfere e di tutte le cose.

Le sue melodie hanno la forza delle lacrime proprio come quelle che incessantemente filtrano dalla volta della grotta dopo aver attraversato gli strati geologici superiori, dopo essere cadute dalla volta celeste superiore e da quelle nubi cui verranno restituite dopo essere scivolate nel fiume e da questo nel mare.

Quando Angeli colpisce ritmicamente con le dita la cassa armonica della sua chitarra sembra chiamare a raccolta le anime del tempo e comandarle a suo arbitrio come Prospero con l’aereo Ariel.

Batte le corde anche con due archetti dalla parte del crine e con i dorsi, il suono corrisponde a quello di una selva di percussioni popolari, ad un ritmo che ricorda una pazza tarantella lisergica. In alcuni brani attinge a piene mani dalla tradizione del canto in Re tipico della Sardegna e poi al flamenco e alla musica andalusa in generale; canta sia in falsetto sia con emissioni gutturali e di gola senza amplificazione emettendo suoni ciclici e circolari minimali e ripetitivi.

Una delle ultime incisioni di Paolo Angeli si ispira al dramma “Nozze di Sangue” di Federico Garcia Lorca che prese spunto, a propria volta, da un tragico fatto di sangue accorso in Andalusia negli anni ’30. Parte dell’esibizione del chitarrista è stata dedicata a quelle complesse e stratificate composizioni. Lorca in quel dramma “Bodas de Sangre” racchiuse tutta la propria visione tragica dell’esistenza in cui la sacralità dell’amore, del desiderio e dell’impulso vengono assassinati dalle regole sociali, dai legami familiari, dalla cupidigia e dalle invidie.

Il poeta andaluso voleva rappresentare il periodo tragico che la Spagna stava vivendo con il fascismo di Franco che l’avrebbe portata alla catastrofe della sanguinosa Guerra civile, mostruoso antefatto della Seconda Guerra mondiale.

Certo oggi la situazione è cambiata parecchio forse anche in Italia, ma i dolori sono i medesimi, il fascismo che fucilò il poeta, forse ha cambiato casacca e aspetto, ma il ghigno, il grugno di quei mascalzoni, di allora e di oggi, è sempre il medesimo.

Attraverso il teatro e la poesia, Lorca voleva far ben comprendere al più largo pubblico possibile il pericolo imminente o già in atto. La storia di un amore impossibile che si trasforma in un bagno di sangue permette a Lorca di far interagire e mettere in dialogo due forze che dominano la sfortunata esistenza degli uomini: la Morte e la sua livida messaggera la Luna.

Nel primo quadro dell’atto III: “la Luna lascia un coltello abbandonato nell’aria, che come piombo in agguato sarà dolore e sangue. – Fatemi entrare. Son ghiaccia d’andar fra vetri e pareti. Scoprite i petti e le case in cui io possa scaldarmi. Ho freddo queste mie ceneri di sonnolenti metalli vanno per monti e per strade cercando creste di fuoco”.

Quello del chitarrista sardo è un unico set senza alcuna interruzione in un flusso continuo e ininterrotto di emozioni che colpisce gli spettatori come una cascata. Le vibrazioni del suo strumento sono elettroacustiche, acide e spesso ruvide oppure affilate e taglienti come i cocci di bottiglia sui muri di Montale.

Un’altra fonte di ispirazione per il chitarrista è stata la contemplazione della statua del satiro che danza come un derviscio del museo di Mazzara del Vallo. L’incredibile scultura bronzea greca databile tra il IV sec. a.C. fu recuperata fortunosamente da un pescatore solo nel 1998.

È un torso umano ritratto mentre s’inarca in un passo di danza che faceva parte probabilmente di un totale che rappresentava un orgiastico corteo, oggi perduto, in onore di Dionisio. Lo possiamo immaginare, con una coppa di vino in mano, brindare alle nostre esitazioni e paure.

Ha continuato a danzare invasato dal suo dio, ubriaco di luna, di vino e di musica per almeno due millenni, in fondo al mare; nell’estasi della sua ebrezza, ha continuato a guardare da sotto in su la storia del Mediterraneo che gli passava sopra, forse senza che gliene importasse niente come l’assassino di Baudelaire con la sua sbronza.

“Eccomi sono libero! Stasera sarò sbronzo del tutto; e allora senza paura né rimorso, sulla terra mi stenderò a dormire come un cane. Il carro dalle enormi ruote, carico di fanghiglia e di pietre, il furibondo treno schiaccino pure la mia testa colpevole o mi taglino per mezzo; me ne infischio di dio come del diavolo e così pure della sacra mensa”.

Il satiro in fondo al mare non è forse mai stato così folle e morboso ma non dimentichiamoci che è un devoto di Dioniso che contempla gli smembramenti rituali, i sacrifici umani, la ferocia bestiale così come l’innocenza dei fanciulli, il candore degli animi e la gentilezza dei fiori…dionisiaco e apollineo vanno insieme come avrebbe detto quel baffone tedesco.

Il chitarrista sardo nella grotta di Antro con il suo fantastico strumento ha saputo cogliere ed esprimere perfettamente questa ambiguità di fondo, una vera e propria tensione tra l’uomo, la bestia e il dio in fondo all’abisso, amplificando queste suggestive contraddizioni, facendone emergere di ulteriori attraverso la musica.

Sul fondo del Mediterraneo la processione dell’antico corteo di Dioniso, negli ultimi tragici decenni, si è trasformata in una mostruosa “danse macabre” frutto di un autentico genocidio di cui l’Europa e il mondo sono responsabili e colpevolmente fingono di non rendersene conto.

Danzano in fondo al mare gli scheletri di centinaia di migliaia di migranti assassinati dalle leggi internazionali, inique e criminali, che di fatto ne impediscono il recupero e salvataggio.

Quello di Angeli non è stato solo però un semplice: “Requiem aeterna dona eis Domine, et lux perpetua luceat eis. Requiescat in pace”. Le diciotto corde della sua chitarra preparata hanno gridato, urlato, pregato e bestemmiato questa infame realtà nella quale la nostra indifferenza si chiama strage.

Il bronzeo satiro danzante è stato il punto d’incontro simbolico delle più diverse civiltà, popoli, esperienze, senza nemmeno rendersene conto. Continua ad esserlo anche oggi nell’enorme spazio tecnologico ipermoderno del museo di Mazara del Vallo, costruito apposta per lui.

Come dicono i Marlene Kunzt sembra “nuotare nell’aria”:

“Un grammo di gioia del tuo sorriso e non mi basta nuotare nell’aria per immaginarti, se tu sapessi che pena. Intanto l’aria intorno è più nebbia che altro”.

Alla fine del concerto tra gli applausi il chitarrista ha ringraziato gli spettatori lasciando loro in custodia il proprio cuore.

Fuori dall’antro, nella notte estiva, la luna piena splendeva davvero con i propri lividi raggi, sembrava la madre delle luci nel cielo e nella valle.

© Flaviano Bosco – instArt 2023