A Létezés Eufóriája L’euforia dell’esistenza di Réka Szabó
L’euforia dell’esistenza, miglior documentario di questa edizione del Trieste Film Festival, è il primo lungometraggio di Réka Szabó direttrice artistica di una delle maggiori compagnie di danza in Ungheria, la The Symptoms. Il film segue cronologicamente la nascita della performance che ruoterà attorno alla figura di Éva Fahidi. Éva, oggi novantenne, è sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz Birkenau dove 49 dei suoi parenti, tra cui la sua sorellina 11enne, hanno trovato la morte.
Il documentario si apre con la posa di tre pietre d’inciampo in memoria di alcuni dei parenti di Éva uccisi dal nazismo. Immediatamente però vira in un’altra dimensione e partendo dai ricordi della donna va a ricercarne l’essenza come persona più che come vittima. Una catarsi che passa attraverso la danza e soprattutto il corpo.
La Szabó, pur molto presente in voce off, non entra quasi mai in scena, ed affianca ad Éva la ballerina Emese Cuhorka che assumerà diversi ruoli nella performance e che fisicamente la ricorda. Cardine del film i primi piani di Éva che di volta in volta racconta, guarda ed ascolta e che cercano di indagarne, a volte insistentemente, le reazioni.
Ci sono delle immagini forti nel documentario che ritornano in più forme: nelle parole, nella musica e amplificate nei gesti. La più persistente, quella che ritornerà nella bella sequenza finale, trova le sue radici in un ricordo ben individuato. Viene chiesto ad Éva quale sia il suo rapporto con la danza. Per lei la danza è libertà, libertà di ballare per strada, ma soprattutto di ballare di fronte ad uno specchio, uno specchio a tre ante in grado di abbracciare il suo corpo, il suo corpo nudo. Éva si ricorda giovane, bambina, spogliarsi davanti allo specchio e iniziare a ballare, ricorda lo sguardo di sua madre su di lei mentre balla. È una forte immagine di rivendicazione di sé e stride violentemente con la parallela descrizione del campo di sterminio: di corpi che scompaiono per la magrezza, si accatastano nelle camere a gas o vengono brutalmente bruciati, di corpi che si svuotano della loro umanità e sacralità . Rivendicare la propria presenza fisica diviene rivendicazione della propria esistenza e della gioia che questo comporta. La necessità di essere felici nonostante tutto, passa per il concedersi di essere felici. Per Éva ritrovare quella bellezza fiera e quella intensità indiscutibilmente femminile che ancor oggi la connotano.
Éva ha perdonato, forse forzosamente dimenticato, tutti quei soldati, esecutori materiali del massacro di cui la sua famiglia è stata vittima, “ non avevano la testa, avevano fatto loro il lavaggio del cervello” sono le sue parole. Non vale lo stesso per i mandanti, per chi ha concepito quelle torture, quell’abominio. Sorprende e turba scoprire che c’è un’altra persona che Éva non riesce a perdonare. Suo padre. Nella performance Emese, fasciata in una tuta nera che la nasconde interamente balla più volte da sola e con Éva. Solo molto tardi capiremo che quella figura, inquietante e senza volto rappresenta quel padre che avrebbe potuto salvare la sua famiglia fuggendo dall’Ungheria, ma non ha voluto abbandonare il suo denaro e la posizione faticosamente raggiunta. È quell’uomo, per Éva, ad aver condannato a morte la sua famiglia, tutta la sua famiglia. A quell’uomo nero sputerà in faccia il suo rancore per poi abbracciarlo e ballare insieme a lui.
È la radice del trauma. Lo scandisce chiaramente “Finire sempre nello stesso posto, questo è il trauma, per il resto del tempo continui a vivere felicemente”. Il desiderio di sopravvivere è più forte di tutto il resto, è la vita che spinge. Quell’euforia dell’esistenza che da il titolo a quest’opera, quel desiderio di libertà insopprimibile che da settant’anni la sostiene.