Il Festival Internazionale di Musica di Portogruaro 2020 ha chiuso in bellezza e ha restituito pienezza a quel vuoto che, nei mesi della pandemia, la musica dal vivo aveva lasciato. Una vera e propria ferita, non solo per gli appassionati, ma per ogni persona. Perché la musica guarisce. Unisce. E il concerto finale di giovedì 17 settembre, tenutosi presso il Teatro Comunale “Luigi Russolo”, con l’Orchestra di Padova e del Veneto – Francesco D’Orazio, violino solista e maestro concertatore, Mario Folena, flauto solista, e Roberto Loreggian, clavicembalo solista – ne è stata un’ulteriore conferma.

Un Festival che ha certamente vinto i timori e si è presentato in gran forma al suo pubblico. «Nonostante molti allievi non abbiano potuto raggiungere l’Italia per frequentare le nostre masterclass» ha dichiarato il Presidente della Fondazione Musicale Santa Cecilia di Portogruaro introducendo la serata finale, “Trasfigurazioni Celesti”, dedicata a Olga e Giano Petrin, mecenati cui è stata intitolata proprio nel pomeriggio la galleria del teatro «abbiamo ricevuto adesioni da molti allievi italiani, permettendoci così di eguagliare i numeri dell’anno scorso». Un bel traguardo, viste le premesse non proprio incoraggianti. E il programma dei concerti ha dato spazio sia a giovani solisti già affermati, sia a nuove proposte del panorama musicale; ad ensemble già “navigati” e a nuovi esperimenti di musica d’insieme. Con una qualità sempre di altissimo livello che conferma il Festival come una delle manifestazioni musicali più importanti a livello nazionale ed internazionale. Molto buona la risposta del pubblico che non si è fatto attendere e, anzi, nel massimo rispetto delle normative sanitarie ordinatamente e con la passione di sempre, che nemmeno la mascherina è riuscita a celare, si è presentato puntuale e trepidante ad ogni appuntamento.

L’esecuzione del Concerto brandeburghese n. 5 in re maggiore BWV 1050 di Johann Sebastian Bach, in apertura di serata, ha immediatamente creato un’atmosfera di ascolto attento e profondo. Da far trattenere il respiro. Tutti appesi alle acrobazie del violino di Francesco D’Orazio – delicato ed incisivo al tempo stesso e nell’esecuzione e nella direzione – ai voli pindarici di Mario Folena con il suo flauto traverso e alla precisione quasi metronomica del clavicembalo di Roberto Loreggian, timone sicuro dell’orchestra. Incantevole l’equilibrio dei volumi tra solisti e sezioni di archi. Giungeva dal palco un misto di gioia e delicatezza. La gioia di suonare nuovamente insieme unita alla delicatezza e al rispetto tra i musicisti e verso la partitura tutt’altro che semplice di un concerto che, meraviglia bachiana, in alcune parti è così conosciuto da far ondeggiare le teste del pubblico nella penombra del teatro.

Notevole e di grande impatto emotivo anche il Concerto per violino e archi in la maggiore D 96 di Giuseppe Tartini, che ha visto D’Orazio inerpicarsi su vette quasi irraggiungibili di virtuosismo, pur non facendolo sembrare tale grazie alla leggerezza dei passaggi e alla padronanza totale dello strumento. In una formazione più ampia rispetto all’esecuzione di Bach, anche qui l’orchestra ha trasmesso grande coesione e affinità, oltre che gusto per lo stare insieme a “masticare” musica, contaminandosi in un continuo scambio di sguardi e di reciproco sostegno.

Il finale, affidato alla Sinfonia n. 40 in sol minore K 550 di Wolfgang Amadeus Mozart, ha riunito sul palco l’orchestra in formazione completa, con i fiati (corni, oboi, flauti e fagotti) schierati nell’ultima fila e D’Orazio in veste di direttore. Un’esecuzione, anche questa, di altissimo livello, anche se, forse, non emersa in tutte le sue potenzialità sonore ed emotive o almeno non con lo stesso impatto delle precedenti. Lunghi e scroscianti gli applausi finali del pubblico, al quale l’orchestra ha concesso anche il “bis”.

La musica è tornata. E solo il cuore di ciascuno sa quanto ne avevamo sentito la mancanza.

© Luisa Pozzar per instArt