Dopo “Le ultime lune” e “La notte dell’angelo”, si chiude il grande progetto drammaturgico del triestino Furio Bordon da lui stesso definito “trilogia delle età indifese”: vicende familiari che ruotano attorno al nodo emozionale di vecchiaia e infanzia, le due età in cui l’individuo è più debole, vulnerabile, esposto a prevaricazioni, violenze e umiliazioni.

Lo fa con “Un momento difficile”, produzione del Teatro Stabile di Catania e di quello del Friuli Venezia Giulia tratto dalle pagine di “Stanze di famiglia”, per l’abile regia di Giovanni Anfuso e con in scena gli ottimi Massimo Dapporto, Ariella Reggio, Francesco Foti e Debora Bernardi.

Lo spettacolo narra l’ultima notte passata assieme da una madre e un figlio: lei bloccata a letto, ormai in preda alla demenza; lui a cercare di accudirla nei suoi ultimi momenti. Non porti a facili conclusioni l’apparente tenerezza della scena: come sempre nella scrittura di Bordon non si vuole restituire una versione idealizzata e idilliaca del rapporto con la malattia e la morte (madre debole ma grata, figlio devoto) quanto la cruda realtà dei fatti: quello di “tu” (volutamente non si da un nome al figlio, per aiutare l’immedesimazione dello spettatore) è un compito gravoso e doloroso, a cui sottostà con una rassegnazione in cui non mancano momenti di rabbia e di sfogo verso una madre che sembra quasi approfittarsene e prendersi gioco di lui. Emblematica in tal senso la scena dell’apparente morte della madre (in realtà solo una recita), a cui il figlio è ormai abituato e a cui risponde facendo a sua volta finta di essere disperato ma ribollendo dentro di sé di rabbia per la crudeltà nel sottoporlo a quel macabro scherzo per l’ennesima volta.

In realtà l’atmosfera iniziale è piuttosto leggera nonostante l’argomento trattato, satura di un’ironia amara che si rivela in alcune scenette quasi comiche: l’insistenza con cui l’anziana madre chiede al figlio di contare più volte le boccette sul tavolino, o i dialoghi che rasentano la surrealtà quando lei si convince che la domestica le abbia rubato qualcosa, o ancora l’urgenza di lei di andare al bagno che si risolve in una… roboante prova che il figlio aveva ragione nel dire che “era solo aria”. Ecco, tutti momenti che sanno strappare sorrisi sinceri alla platea.

Le cose cambiano però quando appariranno in scena due figure eteree vestite di bianco: sono la madre e il padre da giovani, così come resistono nei ricordi di “tu”, venuti per aiutarlo in quella notte che sarà un momento difficile.

Il dialogo con i due “fantasmi” permetterà di iniziare a leggere meglio le mille sfaccettature del rapporto tra madre e figlio e svelare pian piano la complessità di un rapporto familiare basato spesso sull’incomprensione dell’altro, e in cui alla fine i contorni tra buoni e cattivi sarà così sfumato da risultare invisibile. Come un bisturi, si andrà a incidere sempre più a fondo nei ricordi e nella vita del protagonista per recuperare traumi e dolori che “tu” si porta dietro sin dall’infanzia. Inizialmente colpevolizzando la madre – ad esempio per non aver mai cambiato i pannolini al figlio o per averlo visto solo come un peso che non le permetteva più di andare al cinema quando ne aveva voglia- e idealizzando un padre invece sempre presente. Man mano che si va avanti, però, sarà sempre più palese come questa sia solo la visione che il figlio ha avuto di quegli eventi e di quegli anni, a cui andranno a contrapporsi le versioni dei genitori. Non in un braccio di ferro per decidere chi abbia ragione, quanto in un confronto che porterà a capire come una vicenda possa essere vissuta in modo completamente diverso dai vari protagonisti e come questo possa causare dolori e ferite interiori che poi ci si porta avanti per anni -forse per tutta la vita- senza che l’altro si sia mai reso conto di averle involontariamente causate.

E in questo confronto i sentimenti pian piano mutano: la rabbia del figlio e l’apparente distacco della madre giovane si mitigano e divengono partecipazione mentre i dialoghi riportano alla luce diversi episodi del passato che “umanizzano” sia la madre che il padre. Non è con livore ma con distacco e quasi serenità che i due rievocano i rispettivi tradimenti, perché alla fine ciò che li ha sempre fatti tornare l’uno tra le braccia dell’altro è l’amore che li legava, che ora è l’unica cosa che ha senso ricordare.

E’ quindi un percorso di “cura”, ciò che il protagonista vive? No, se si considera che gli ultimi ricordi tirati in ballo con i due fantasmi termina con uno sberleffo nei suoi confronti e con gli altri attori a danzargli attorno ricordandogli il suo nomignolo da piccolo –“pisellino”. O che quando il “momento difficile” si concretizza e la madre esala l’ultimo respiro “tu” si ritrova completamente solo sul palco, a ripetere tra le lacrime il nome della defunta.

Non è un percorso di cura, perché non c’è cura possibile di fronte a certi drammi. E’ solo un modo per mostrare l’aleatorietà e inutilità di antichi rancori, rimorsi e desideri. Perché alla fine ciò che ci rimane sono solo i ricordi e la cosa migliore -per la nostra stessa anima- è che continuino a trasmetterci serenità. Come sottolineano i due fantasmi, ormai solo voci a riecheggiare sul palco a fine spettacolo, “ora sei rimasto solo tu a testimoniare il nostro passaggio. Continua a farlo, se puoi. Pensa ogni tanto a quei due ragazzi innamorati che ti hanno messo al mondo e tienili in vita finché vivi tu”.

Vista la gravità e complessità degli argomenti presentati, serviva grande tatto sia nella regia che da pare degli attori. Possiamo certamente dire “missione compiuta”: Massimo Dapporto è un “tu” che si lascia sì andare ogni tanto a scatti d’ira ma si porta dietro un’aura di mesta sopportazione che lo rende a tutti gli effetti uno sconfitto e che fa nasce grande empatia nello spettatore. Bravissimi anche Debora Bernardi e Francesco Foti nei panni dei genitori, che riescono con efficacia a mutare lentamente da ruoli apparentemente stereotipati (madre cattiva lei, padre buono lui) a personaggi profondamente umani, con quei lati sia positivi che negativi che tutti ci portiamo dietro. Deliziosa infine Ariella Reggio, che pur rimanendo costretta a letto per quasi tutta al durata dello spettacolo e non potendo quindi contare sulla gestualità sa comunque restituire una madre anziana adorabile. A cui -nonostante alcuni momenti davvero crudeli nel confronto del figlio- non si può fare altro che voler bene.

Convincente anche la regia, che fa un uso molto sapiente di una scenografia semplice (ma con alcuni elementi di sicuro impatto, come la parete tagliata a metà) e di bei giochi di luce per sottolineare la mobilità degli attori. In particolare dei due genitori giovani, che per tutto lo spettacolo si muovono fuori, dentro e anche sopra la stanza (tramite una scala celata alla platea) a trasmettere l’irrealtà di una notte vissuta a confrontarsi con sé stessi e con i fantasmi del passato.

Luca Valenta / © Instart