Il concerto dei Sigur Rós a Padova dopo 10 anni di assenza dai palcoscenici italiani è stata un’autentica epifania, non una semplice esibizione ma una manifestazione dello spirito della musica in una forma sontuosa, emozionale, luminosa, di una bellezza accecante. Ciò che sono riusciti ad esprimere i quattro artisti islandesi in oltre due ore di performance sonora è di una tale intensità da non avere nemmeno nome, non si può dire a parole, è qualcosa di irripetibile che accade e si compie in musica nello spazio di un concerto, in quella particolare magia che si da tra il palcoscenico e il pubblico, in un’alchimia di suoni ed emozioni prodigiosi che sembrano trascendere l’ordine naturale delle cose indicandone uno superiore, spirituale, misterioso ed astratto.
Il Post Rock, in alcuni casi, ha saputo espandere oltre le frontiere del pensabile l’energia e le prospettive di un genere che sembrava essere esploso ed esaurito con il fragore del punk.
In realtà, niente finisce mai ma, attraverso un passaggio di stato e condizione, cambia, si trasforma, rigenera, rinasce in una forma diversa e non serve fare riferimento alla celebre affermazione di Lavoisier, basta avere uno sguardo lungimirante e di più ampio respiro sulle cose del mondo, aprendo il proprio cuore e la propria coscienza alla speranza e alla grazia che il nostro esistere ci regala.
Jónsi Birgisson, fondatore, cantante e chitarrista dei Sigur Rós, per esprimere in modo corretto questo intenso anelito intona i propri vocalizzi in un idioma del tutto immaginario che ha voluto chiamare “vonlenska”, traducibile, con una certa approssimazione, in “lingua e luogo della speranza”.
La particolarissima tradizione del canto dei paesi dell’estremo nord europeo, oltre ad esprimere un folklore e una cultura potentemente influenzati dall’ambiente ostile e desolato, riflettono stati di coscienza interiori e intimi che finiscono per specchiarsi negli eventi naturali e atmosferici.
Gli ambienti vicino al circolo polare artico sembrano essere i meno adatti ad una riflessione pacata sulla propria fragilità e transitorietà. E’ vero il contrario e ogni nuovo lavoro dei Sigur Rós lo dimostra.
Negli ultimi tre decenni hanno contribuito a scrivere molte nuove pagine della storia del rock facendo convergere su di se le esperienze dell’elettronica tedesca, della musica cosmica e delle più estreme avanguardie sonore del XX° sec. creando qualcosa di completamente diverso e inaudito che però, soprattutto nella pratica delle esecuzioni dal vivo, si rivela alla nostra memoria come remoto e arcaico.
La vera grande musica sa evocare e proiettarci nelle altre dimensioni cui apparteniamo, le disegna e le sostiene.
Al Gran Teatro Geox di Padova l’atmosfera è stata quella giusta fin da subito. Liberato l’enorme parterre dalle poltroncine che lo trasformano in una tradizionale platea per gli spettacoli “seduti”, i primi spettatori arrivati all’apertura dei cancelli, si sono trovati davanti quello che sembrava lo spazio vuoto di un hangar in un aeroporto abbandonato nel cui fondo era stato allestito un palco con già gli strumenti e le luci accese, immerso in una caligine eburnea dovuta alla nebbiolina artificiale tra “fumi e raggi laser”; alcuni suoni in loop creavano una sensazione autunnale e sinistra; era un’anticipazione del concerto vero e proprio nella sospesa sensazione dell’assenza e dell’attesa.
Non si sono fatti desiderare più del dovuto i quattro che, saliti sul palco pochi minuti dopo l’orario d’inizio stabilito, intonando subito in una “micidiale” sequenza Untitled #1 – Vaka, Untitled #2 – Fyrsta, Untitled #3 – Samskeyti, dal celeberrimo ( ) pietra miliare della musica contemporanea che nei due lunghi set del concerto hanno eseguito quasi per intero.
Sui tre schermi affiancati che costituivano il fondo della complessa scenografia si giocava intanto un’astratta partitura di luci, punti, suoni che evocavano distanze e desideri; la voce in falsetto di Jónsi Birgisson che si armonizzava su un elementare accordo minimale di pianoforte bastava a spalancare le voragini del cielo cui platonicamente apparteniamo. Una costellazioni di linee e punti luminosi si mutavano in un volto che appariva, si nascondeva, ruotava e riappariva in migliaia di frammenti, sculture di luce e fili d’erba di una grana rarefatta tessuta di arpeggi e di “frequenze e sequenze” nella voce di un altro tempo che, processata e distorta, amplificata e sequenziata dall’elettronica diventava un autentico, onirico “cantare la voce” e suonare la parola al di là e al di sopra della galera del senso e del significato che molto spesso non riescono a dire nulla di quello che veramente intendono. Per i Sigur Rós la musica è certamente un linguaggio non verbale, non è racconto e discorso ma esperienza sonora totalizzante.
Lo esprimono plasticamente anche quando si stringono attorno alle tastiere e suonano a distanza ravvicinata alcuni brani che a tratti ricordano il sapore cinematografico dei lavori di Michael Nyman per Peter Greeenaway.
Jónsi Birgisson come d’abitudine suona e percuote la sua chitarra con un archetto per violoncello creando suoni del tutto stranianti che spesso si vanno a sovrapporre a quelli delle tastiere di Kjartan Sveinsson che a volte hanno l’effetto un po’ sfiatato di un organo da chiesa per poi esplodere in particelle di luce nel cielo di un’emozione dolcissima talmente intensa e concreta da diventare insostenibile e sottile fino a svanire.
Alla ricerca di un ulteriore effetto di riverbero Jónsi Birgisson soffia e canta direttamente sui pick up della sua chitarra oppure appoggia il microfono sulla fronte imponendogli le vibrazioni del suo canto di testa. Le composizioni più tipiche del gruppo islandese presentano un incipit levigato e apparentemente pacificato nel quale via via s’accumulano tensioni ed energie che finiscono per compattarsi fino ad esplodere in un fragore che si esprime nel suo contrario entropico di un suono la cui essenza è indicare il silenzio dal quale scaturisce e verso il quale si dirige.
Dissonanze al piano e riverberi in una cacofonia industrial che viene dalle tenebre dell’angoscia. E’ il pensiero di una macchina che sogna pecore elettriche e scariche omeostatiche, in un suono disanimato e minerale delle profondità siderali ostili alla vita e impenetrabili ai sensi.
Sveinsson imbraccia e imbocca un trombone elettronico che risponde ai ritmi sporchi e volutamente sgraziati del basso che ricostruisce continuamente le fondamenta sulle quali può poggiarsi l’alchimia della voce. Nessun accademismo per i Sigur Rós ma un’estrema energia trattenuta a stento che finisce per liberarsi come una folgorazione che colpisce duro e in profondità.
Voce, tastiera, percussioni e chitarre, non serve molto altro per collegare la terra al cielo proprio come i tanti cavi tesi che ordiscono le quinte scenografiche sul palco cui fanno da controcanto le luci in un pentagramma verticale in cui le note della vertigine e della voragine si scrivono tra sospiri e vocalizzi.
Sul palco come nelle incisioni i quattro sanno essere drammaticamente distanti, abrasivi e lancinanti in abissi di luce muta ma al contempo sanno giocare con attimi di silenzio e poi di nuovo precipitarsi in un magma sonoro, figlio di una solitudine inconsolabile e di un maremoto, una perfetta tempesta artica.
Quasi per contrappasso dopo tanto furore appare sullo schermo un filo sul quale si posa uno stormo d’uccellini in un’immagine di straziante bellezza cui la musica s’adegua in una condivisione di spazio lineare che si conclude con una nenia infantile elettronica generata dalle tastiere. Gli uccellini sullo schermo in volo si trasformano in faville concludendo così il primo set dando spazio così all’intermission.
Il Gran Teatro Geox era pieno di un pubblico fremente e attento che sa ascoltare e perfino sentire fino a voler condividere un’esperienza intima e personale ma automaticamente collettiva.
La musica dei Sigur Rós è prima di tutto percorso interiore durante il quale può capitare di incontrare l’altro da se annegato nello specchio del nostro riflesso. A Padova ce n’erano oltre quattromila di questi frammenti di cuore che si erano perduti dentro di se seguendo la musica ma che continuavano a sorridere felici d’esprimere tutti insieme una gioia incontenibile che è come un alito di vento che accarezza il maggese in un volo lieve d’uccello in un assolato pomeriggio di nuvole passeggere.
Che cosa sono le nuvole? La straziante bellezza del creato tra i fili d’erba di un temporale che si annuncia con i colpi sordi del un tamburo di Ágúst Gunnarson e le distorsioni del basso elettrico di Georg Hólm nelle seduzioni di una pietra levigata come dice Roger Caillois nel suo “Scrittura delle pietre”, quelli del mondo minerale “sono segnali discreti, ambigui, che attraverso filtri e ostacoli di ogni tipo ricordano che deve esistere una bellezza generale, anteriore, più vasta di quella che l’uomo può intuire, in cui egli trova il proprio godimento e che è orgoglioso di produrre a sua volta. Le pietre – non loro soltanto, ma radici, conchiglie e le ali, ogni elemento ed opera della natura – contribuiscono a dare l’idea delle proporzioni e delle leggi di questa bellezza generale che è solo possibile congetturare”
E’ come traguardare le alte cime nella ruvida assenza di vegetazione attraverso una scarica d’amplificazione che dilatandosi si fa sinfonia.
La musica dei quattro uomini del nord a volte arriva impetuosa come una mareggiata oppure precisa e tagliente come un colpo di lama. Dopo, tra le lacrime e i sospiri.
Tra striduli suoni vetrosi risuona una nenia infantile che ha lo splendore di un’aurora boreale e che messa in loop fornisce il pretesto alla band per abbandonare una prima volta il palcoscenico che però riguadagnano poco dopo.
Tra le particolarità dell’esibizione alcuni attimi di ricercata sospensione durante i quali la band smetteva del tutto di suonare lasciando riverberare i suoni nello spazio del teatro sopra la testa del pubblico rapito in un religioso attento silenzio. Naturalmente, alla temporanea quiete segue sempre una tempesta durante la quale il cantante Jónsi Birgisson urlava a squarciagola seguito dagli spettatori adeguatamente provocati e stimolati tanto da sembrare uno strumento nelle sue mani che lui era capace di suonare e ritmare in un’apoteosi sonora.
Stupendo anche il light design che interpretava ogni brano con soluzioni sempre diverse e affascinanti. Nel secondo set i cavi trasversali di cui dicevamo apparivano dritti, perpendicolari al palcoscenico facendolo apparire come uno stupendo, bizzarro, enorme strumento musicale, una qualche specie di cordofono, anzi meglio, uno spropositato salterio che i quattro musicisti simbolicamente percuotevano con le loro canzoni.
Tra le immagini apparse sullo schermo quella che riassume meglio la poetica della band è un enorme monolito di pietra scura tipo “2001: a space odyssey” impenetrabile e nera come “lo specchio oscuro della pietra d’ossidiana”, la materia pura inconcepibile e inumana di cui parla sempre Caillois nel saggio che abbiamo citato.
In un fragore assordante di applausi, sono usciti di scena avvolti nel tricolore che gli era stato lanciato dal pubblico, visibilmente soddisfatti e forse perfino commossi dal calore e dall’affetto del pubblico entusiasta, sicuro di aver assistito a qualcosa di una bellezza inarrivabile e cristallina; un miracolo non accade tutti i giorni.
In scaletta anche: Svefn-g-englar, Rafmagnið búið, Ný batterí, Gold 2, Fljótavík, Heysátan, Untitled #7 – Dauðalagið, Smáskifa
Set 2: Glósóli, Untitled #6 – E-Bow, Ekki múkk, Sæglópur, Gong, Andvari, Gold 4, Festival, Kveikur, Untitled #8 – Popplagið
© Flaviano Bosco – instArt 2022