Dopo più di un anno (lo spettacolo avrebbe dovuto debuttare prima del lockdown del 2020) arriva finalmente sul palco del Rossetti un testo molto atteso: “Il delirio del particolare” di uno degli scrittori considerati più eclettici e interessanti sul panorama italiano, Vitaliano Trevisan. Romanziere, drammaturgo ma anche sceneggiatore, regista teatrale e attore, Trevisan si è già più volte messo in luce soprattutto quando decide di irridere, mettere -con nonchalance e in maniera leggera, quasi facendolo solo di sottecchi- alla gogna, un po’ come nei famosi “roast” americani.
“Il delirio del particolare” appartiene a pieno titolo a questo filone e il “roastee” di turno è Carlo Scarpa, uno dei più grandi architetti del Novecento, morto il 29 novembre del 1978 a Sendai, in Giappone, cadendo da una scala. “Protagonista morale” che però non appare mai: la vicenda si svolge infatti qualche decennio dopo e vede l’anziana vedova di un ricco imprenditore tornare nella villa sul lago in cui non metteva piede dalla morte del marito. Villa costruita proprio da Scarpa assieme al cimitero fatto edificare dal consorte. Il rapporto professionale e di amicizia tra il defunto marito e Scarpa e l’evidente antipatia della vedova per il lavoro dell’architetto sono i due elementi che vanno a creare il fil rouge del leggero e vago “roast”.
Un fil rouge che, a onor del vero, si prende mille pause e deviazioni: il monologo della vedova (che in realtà dialoga a tratti con il badante e un esperto di architettura, ma è evidente come i due siano solo presenza vacue all’interno del suo monologo) si fa presto ampio e diventa una riflessione sulla sua vita, sul suo rapporto col marito, sui bei tempi andati. Tutta la prima parte, in particolare, quasi nomina appena l’architetto (il nome di Scarpa non viene mai pronunciato) e si concentra sullo svelare pian piano i ricordi della vedova, mentre di pari passo il badante Cechin toglie le lenzuola bianche da poltrone, sedie e mobili rimasti abbandonati per decenni. La memoria ricompone così il mosaico di una vita: attrice ma senza una vera vocazione (bella la sezione in merito all’essere assente sul palcoscenico, con un’intera platea a guardarti e ignara del fatto che tu non sia realmente lì), moglie ma chissà se per vero amore. È bravissima Maria Paiato a tenere la scena pur raccontando solo questo, e facendo provare sentimenti contrastanti nei confronti della vedova man mano che si procede nel racconto, tratteggiandola ora come lievemente cinica (ad esempio nel suo interrompere continuamente Cechin ogni volta in cui lui -per rispondere a sue domande- cerca di dirle qualcosa della sua vita) ora come fragile; ora come fredda nel voler tener fuori le memorie che la casa comporta, ora come smarrita di fronte all’ondata di ricordi. Nonostante la presenza di due comprimari questo è chiaramente un “one woman show” e la Paiato dimostra di saper vincere la sfida.
Solo nella seconda parte ci si concentra maggiormente sull’architetto, quando nella casa arriva un esperto di architettura per visionare assieme alla vedova i progetti originali della casa. A quel punto si deve giocoforza parlare di lui e il “roast” diventa più benevolente: se nella prima parte la vedova ha mostrato tutta la sua poca considerazione dell’architetto, parlando solo dei pettegolezzi e delle indiscrezioni sulla sua vita, ora -complice anche la presenza di un comprimario che mostra tutta la sua evidente ammirazione per il lavoro di Scarpa- si vanno a confrontare diverse opinioni sul suo lavoro, sulla sua ecletticità, sul suo essere una figura davvero unica. Fino a un finale che vuole virare verso una nota poetica, sia da un punto di vista scenico (molto d’effetto l’uso dei vasi, delle luci e degli effetti sonori) che nello sciogliersi delle ritrosie della vedova ai suo ricordi, che finalmente fa affiorare dalla memoria anche ciò che di positivo l’architetto aveva.
Per quanto riguarda regia e parte tecnica, tutto funziona bene: la casa sembra un luogo fuori dal tempo e i pochi effetti sonori aumentano questo senso di astrazione. Ottimo anche l’apporto di Alessandro Mor nei panni di Cechin, che coi suoi gesti lenti accentua ulteriormente quest’atmosfera e fa da contraltare all’iperattività di pensiero della vedova.
C’è però qualcosa che non convince appieno e non riguarda questa particolare produzione (che -ricordiamo- è del Teatro Biondo e del Centro Teatrale Bresciano) quanto piuttosto il testo originale. Che di certo riserva un’ottima scrittura e tratti metafisici, evocativi, poetici; ma che allo stesso tempo pare girare quasi a vuoto per più di metà spettacolo, perdendosi nel racconto dei ricordi della vedova senza dare l’impressione di avere un vero punto di approdo. Certo, il dialogo finale tra la vedova e l’esperto di architettura assume finalmente una direzione più concreta e quei venti minuti hanno un buon ritmo in cui è chiaro dove si voglia puntare. Ma la risoluzione dell’intreccio di memorie tessuto fino a quel momento si ha solo nel malinconico “è musica, è architettura” ripetuto dalla Paiato mentre le luci lentamente si spengono, asciando quindi l’impressione di un netto distacco tra le due sezioni e il vago retrogusto che tutta la prima parte sia stato un po’ un girare a vuoto. Bello, affascinante a tratti, ma pur sempre un girare a vuoto.
Luca Valenta / ©Instart