“Sbarcando a Costantinopoli il 13 maggio 1506 Michelangelo sa che sta sfidando la collera di Giulio II, papa guerriero e cattivo pagatore: ha lasciato il cantiere per l’edificazione della sua tomba a Roma. Ma come non rispondere all’invito del sultano Bajazet che gli propone, dopo aver rifiutato i progetti di Leonardo da Vinci, di costruire un ponte sul Corno d’Oro?”

Così dice la quarta di copertina di “Parla di battaglie, di re e di elefanti” di Mathias Énard.

Lo scrittore francese, protagonista della 28° edizione del Dedica Festival, a partire da questa ipotetica permanenza del grande artista a Istanbul, costruisce un racconto in cui scardina lo stereotipo del ponte come metafora del contatto tra mondi e culture del tutto diverse.

È una simbologia davvero presente nella cultura europea che ancora una volta si rivela egoriferita. Un ponte presuppone due sponde separate e distinte che sono e rimangono distanti anche dopo che forzatamente sono state “violate”. Nel senso comune, due culture diverse trovano così un punto di contatto ma, fatalmente, è la cultura egemone che decide le proprie architetture e le proprie strade.

Giusto per fare un esempio, forse un po’ banale ma di certo efficace, nel greve pensiero coloniale anche di bassa lega si dice che gli europei sono andati in Africa a costruire ponti e strade per migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti favorendo così cultura e civiltà.

Considerazioni di questo tenore dimenticano uno dei grandi romanzi dell’alba del XX° sec. “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad e soprattutto le critiche allo stesso di Chinua Achebe.

Énard ritiene che non esistano culture completamente staccate le une dalle altre, nessuna di esse è un’isola, dobbiamo cominciare a considerare le culture dell’umano come contigue e facenti parte di una medesima sterminata “Pangea” che è necessario percorrere, riscoprendone sentieri di collegamento e gradazioni di consapevolezza.

Il Capitol di Pordenone ha accolto, gremito in ogni ordine di posti, i meravigliosi suoni dell’Oud del tunisino Dhafer Youssef, uno dei musicisti più innovativi e influenti di questi ultimi anni per quanto riguarda le contaminazioni tra tradizione delle musiche del Maghreb, Jazz, Rock e Etno-folk. Ogni definizione è comunque riduttiva, l’arte di Dhafer Youssef rimane sfuggente, multiforme, fluida, affascinante proprio come dovrebbe sempre essere. L’esibizione è stata calda, avvolgente, piena di energia, un vero viaggio nei ritmi e nelle suggestioni di una musica senza confini che, scaturendo da molte tradizioni e “latitudini”, si rivela libera di appartenere a tutti e a nessuno.

Tra i musicisti dell’Ensemble che capitanava, spiccava il percussionista friulano Marco d’Orlando che è stato aggregato all’ultimo istante per sostituire il titolare Adriano Dos Santos, ma faceva il paio con l’immaginifico chitarrista Eivind Aarset e con Raffaele Casarano ai sassofoni.

D’Orlando ha letteralmente entusiasmato il pubblico con le sue bacchette e i suoi poliritmi forsennati world, reggae, jazz, rock, funky e chi più ne ha più ne metta. A dire la verità non è stata nemmeno una grande sorpresa per gli appassionati, ma un’ennesima conferma di un talento straordinario che negli ultimi anni “batte” i palcoscenici locali e internazionali facendo parte integrante di molte formazioni e progetti musicali.

La nostra regione è da sempre, fortunatamente, una grande fucina di talenti musicali in cui ultimamente si sta facendo strada una nuova generazione di grandissimi talenti.

L’ensemble di Dhafer è davvero particolarissimo e speziato, il musicista tunisino presentava uno dei suoi ultimi lavori “Sounds of Mirrors” uscito prima del covid e ancora bisognoso di essere conosciuto dal grande pubblico.

Non poteva esserci migliore conclusione per la rassegna Dedica 2022, un bel modo di rendere il giusto tributo a Mathias Énard da sempre attento alle contiguità e alle contaminazioni fra le culture del Mediterraneo.

Il sax alto con gli effetti di riverbero e di eco sembrava a tratti percorrere i sentieri già battuti da Jan Garbarek parecchi anni fa ma con un piglio del tutto nuovo soprattutto perché, puntualmente, proprio accanto a quel sound così intimo e malinconico, esplodevano d’un tratto le ritmiche indiavolate e martellanti di D’Orlando, trasformando un pensiero triste per oud e sax in una danza che splendeva tra i chiaroscuri dei Suk. Non sembri una follia ma tra l’Oud e le percussioni esiste un antico legame tribale che data dalle profondità più remote del tempo; i due strumenti si sorreggono, si affiancano e compenetrano.

Quando Raffaele Casarano, il fratello di Lecce, passa al sax soprano l’effetto Garbarek si fa ancora più intenso e non c’è di che lamentarsi. A dare ancora più profondità al suono del gruppo è la chitarra di Eivind Aarset che rafforza e rende tridimensionali i suoni d’insieme. I brani sono lunghissimi, dilatati in estese suite che esprimono ritmi e suoni ipnotici e ossessivi, fino ad estenuarsi e a sfibrarsi in ripetitive e piacevolissime improvvisazioni ritmiche e melodiche.

Presentando il proprio gruppo, Dhafer ha salutato in modo particolare il proprio chitarrista Eivind Aarset descrivendolo come il più grande di tutti, un Gesù Cristo biondo con gli occhi azzurri, con un ironico accenno al fatto che uno scuro di pelle come lui non potrebbe mai impersonare il nazareno che era notoriamente di etnia scandinava.

Parte integrante del successo dei musicisti sono stati il fonico Giulio Gallo e il tecnico delle luci Stefano Bragagnolo, senza il loro preziosissimo aiuto si sarebbe persa buona parte di quelle suggestioni che il concerto ha regalato. Predisporre l’amplificazione, testare la brillantezza dei volumi e impreziosire le tonalità così come progettare e dirigere uno spettacolo di luci e di colori non è qualcosa di cui è possibile fare a meno, la buona riuscita dell’esibizione dipende anche da questi fattori che sono vera arte essi stessi tanto quanto il talento dei musicisti.

Naturalmente, al fascino degli strumenti e dei ritmi si è unita anche la straniante vocalità di Dhafer che esprime qualcosa di davvero indefinibile con altri linguaggi che potremmo definire di “sofferta felicità”. Ha timbri allo stesso tempo suadenti e caldi, malinconici e tristi; poi di colpo vertiginosamente sale luminosa come un “bengala”per poi di nuovo placarsi.

La chitarra di Aarset produce, grazie agli effetti del processore, suoni che ricordano il Ney, il fantastico flauto che soffia tutte le storie del Maghreb e anche quelle mediorientali proprio come gli arpeggi dell’Oud. E’ una miscela di vibrazioni esplosive ad alta potenza; suoni e sensazioni davvero unici tutti da ascoltare e da sognare che Dhafer contamina senza sosta con ritmi ed atmosfere del tutto contemporanee, molto spesso vicine al jazz-rock o all’alternative più acido e sperimentale.

Al neofita la tradizione maghrebina e il rock potrebbero sembrare inconciliabili ma non lo sono per niente, datano una matrice comune almeno fin da quando William Burroughs e Brion Gising accompagnavano Brian Jones o Jimi Hendrix ai concerti Gnawa dei Masters Musicians of Joujouka nel Kif marocchino sul finire degli anni ‘60, oppure da quando i Led Zeppelin incisero Kashmir che forse non c’entra proprio con la medesima regione geografica ma che riguarda di certo l’influsso della musica di matrice orientale su quella europea contemporanea nel senso più vasto del termine.

Da allora di acqua sotto i ponti della storia del Mediterraneo ne è passata tantissima ma l’energia non è andata perduta. Dhafer e i suoi musicisti sono anche in grado di esprimere atmosfere sospese e fluttuanti facendo vibrare la sala di attesa e di impazienza in momenti che non è un azzardo definire estatici.

A qualcuno potrebbe sembrare semplicemente la realizzazione di un sogno d’unità tra il nord e il sud del mondo attraverso la musica ma si sbaglierebbe di grosso. Nella musica di Dhafer non c’è alcuna volontà di costruire ponti tra una cultura e l’altra perché, proprio come dicevamo più sopra di Énard, non c’è niente di diviso che aspetta di ricongiungersi o che debba riallacciare i legami.

La cultura è esattamente la stessa così come l’unica razza è quella umana che si manifesta in diverse gradazioni con tutti i suoi colori e sfumature, a volte sgargianti altre opalescenti; quello che è certo è che la volontà è di rendere indefinibile ogni confine tra i generi e le tradizioni proprio come dovrebbe essere sempre.

Non c’è alcuna contraddizione tra innovazione e riproposta di antichi stilemi, mentre si suona tutto diventa contemporaneo e ogni barriera spazio-temporale viene abbattuta mentre la vibrazione si trasforma in realtà delle cose. Possiamo davvero guardarci in quei suoni ed essere riflessi dalle loro superfici liquide e translucide.

“Sound of mirrors” evoca quei suoni che ci guardano dal nostro riflesso fin giù nel lago del nostro cuore; pizzicato dal plettro di Dhafer, l’Oud rivela le sue mille radici e arborescenze, la sua origine d’Africa, nipote lontana della Kora, antica madre di tutti i cordofoni. In alcune melodie si sente il sostegno e un particolare incedere funkeggiante che diverte e fa battere il tempo con le mani e con i piedi.

Mille marchingegni elettronici trasformano il bis, roccheggiante e roccioso e perfino psichedelico, nel blues destrutturato di un brano che il pubblico adora come tutto il resto del concerto. Un’altra prova che con l’Oud e un po’ di elettronica si può fare qualunque cosa, piccante come l’harissa, luminosa come la luce del deserto. Un altro successo per il Capitol di Pordenone che è indiscutibilmente la più bella sala della regione per sentire la musica che ci piace.

Flaviano Bosco © instArt