Ai Dry Cleaning, in esclusiva estiva nazionale, è toccato il compito di chiudere nella serata dell’11 luglio la diciottesima edizione di Sexto ‘Nplugged. Si potrebbe dire degna conclusione, visto l’hype tributato da varie parti all’ultimo disco (Stumpwork del 2022) del quartetto londinese, che quasi fa il paio con la band della settimana scorsa, i King Hannah.
Diciamo quasi perché tra i due gruppi, oltre alla provenienza dall’Inghilterra ed alla composizione (basso, batteria, chitarra e voce femminile), c’è ben poco in comune. La band dell’imperturbabile Hannah Merritt tende infatti l’orecchio a certi suoni slowcore-psichedelici d’oltreoceano (con una spruzzata di Portishead), mentre quella di Florence Shaw è stata esposta alle radiazioni di Fall, Wire e di certo krautrock (Can e Neu in primis). Stupisce semmai che non ci sia stato il pienone in Piazza Castello. Che sia da imputare alla data infrasettimanale ed al fatto che, probabilmente, anche nel rock (indie ? Alt ?) hanno maggior seguito i nomi affermati da tempo (nel caso di Sexto 2023, i Verdena)? Prima dei set,obbligatorio il passaggio nello spazio Sexto Lounge dove Starcriss ha mixato rock di ieri e di oggi con gusto (come si fa a resistere poi a “Sugarkane” dei Sonic Youth?) ed ha preparato il palato (musicale) alle esibizioni di Piazza Castello, dove hanno aperto gli sloveni Balans, gruppo attivo da dieci anni formato da base ritmica basso-batteria e voce femminile. Su una ritmica incalzante, a tratti tribale, la vocalist Kristin Čona ha inscenato uno show degno dei primi Siouxsie and The Banshees, dimostrandosi una front woman coi fiocchi. Il problema è dato dal ridotto numero di soluzioni che offre una formazione sostenuta solo dalla ritmica senza il contrappunto di chitarra o tastiere, le quali fornirebbero sia un sostegno adeguato sia una maggior varietà ad un suono che alla lunga mostra limiti intrinsechi. Non hanno questi problemi i Dry Cleaning, che si sono presentati sul palco sulle note di “Viking Hair”: Florence Shaw inanella strofe ieratica, in contrapposizione al chitarrista Paul Dowse, che ha irrorato il palco di vapori elettrici, entrambi coadiuvati dalla granitica sezione ritmica di Lewis Maynard (basso) e Nick Buxton (batteria). La scaletta del concerto era incentrata su “Stumpwork” ed infatti è arrivata “Kwenchy Kups” con le tonalità quasi sixties della dodici corde di Dowse, mentre in Gary Ashby i ritmi sono diventati più sostenuti mentre la Shaw declamava le avventure della tartaruga fuggita di casa.
Dal vivo la band ha un approccio più aggressivo e diretto, lo si è notato dall’atteggiamento di Dowse, partecipe allo svolgimento del brano come un Pete Townshend senza smanie distruttive, che ha inanellato riff torridi e spigolosi. Il bassista, che sembrava uscito da una band death metal norvegese, ha assecondato sia le volute chitarristiche, sia il furore ritmico del batterista. Il risultato è stato un mantra elettrico, accompagnato dal salmodiare della vocalist, apparentemente distante dalla potenza sonora che si riversava su una platea rapita ed ammirata. Su “Liberty Log” la chitarra ha urlato come una sirena, per dirigersi su coordinate quasi industrial, mentre “Goodnight” ha mostrato un piglio quasi punk, ma è sulle note plumbee di “Unsmart Lady” che si è consumata una sorta di catarsi di feedback, distorsioni, basso e batteria pesanti. Una psichedelia deflagrante nella successiva “Scratchacard Lanyard”, tesa e dura, ma quasi solare rispetto al brano precedente. Tanta roba, stemperata nel bis che ha visto “Anna calls from the Arctic” concludere la performance su toni da Cocteau Twins sotto codeina, con la voce insinuante della Shaw ad accompagnarci nell’oscurità della notte.
© Daniele Paolitti – InstArt 2023
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