Dirty Honey all’Alcatraz

I Dirty Honey from Los Angeles, seppur di fresca formazione (2017) hanno già acquisito un importante ruolo nel panorama rock mondiale, grazie al loro sound energico, a un repertorio che contiene alcuni gioielli e alla voce tagliente e versatile di Marc LaBelle. La band è formata, oltre che da Marc LaBelle, dal chitarrista John Notto, da Justin Smolian (basso) e dal batterista Jaydon Bean. I californiani approdano all’Alcatraz di Milano nella giornata internazionale della donna grazie a Barley Arts (è l’unica data nazionale del loro tour) e si esibiranno in Svizzera, Spagna e Francia per poi volare in Australia. Il sound, dicevamo. E’ decisamente fresco anche se ricalca tracce dei grandi gruppi storici, tra i quali citerei sicuramente i Black Crowes e i Led Zeppelin. Riff efficaci, canzoni ben scritte e ben suonate, una ventata di aria pura in un contesto sempre più colonizzato dall’Hip Hop e dal Pop ben mascherato in forma rock. Dopo l’omonimo EP di esordio del 2019 (molto convincente) i Dirty Honey hanno da poco pubblicato l’album Can’t find the brakes, registrato in Australia, confermando le buone impressioni del primo lavoro, a cominciare dal brano di apertura Don’t put the fire, che fa l’occhiolino ai titanici AC/DC. I Dirty Honey sfornano una serie di brani che ricercano l’anima e il groove dei mostri sacri, ma non c’è traccia di emulazione o, peggio ancora, copiatura. Insomma, gli ingredienti per creare un’atmosfera di fremente attesa ci sono tutti. Entriamo all’Alcatraz; è un bel vedere, un palazzo delle meraviglie, uno scenario speciale che fa da contenitore al popolo che ama ascoltare buona musica live e divertirsi. Dovrebbero essercene tanti di più Alcatraz, e meno Talent Show. Si registra il tutto esaurito, c’era da aspettarselo, certo, ma l’affluenza fa ben sperare in un futuro ove il rock’n’roll continuerà a sopravvivere ad ogni forma di aggressione e di standardizzazione dei “gusti” musicali, chiamiamoli così, eufemisticamente. L’età del pubblico oscilla dai 30 in su, a occhio e croce, con presenza meno folta ma entusiastica dei più giovani; il popolo del rock invecchia ma c’è ancora chi abbraccia questo genere che, in teoria, come è stato detto e scritto, mai dovrebbe morire. L’opening act è affidato ai The Pillheads. Una manciate di buone canzoni con testi in italiano e inglese che accompagnano l’attesa del gruppo americano. Sulle note di Rock’n’roll damnation alle 21:00 in perfetto orario entrano in scena i Dirty Honey.

Lo stage: sullo sfondo il loro simbolo, un paio di labbra stile Stones con il nome del gruppo, il centro palco ovviamente occupato da LaBelle, amplificatori ai lati del palco. Un Marshall per Notto con la sua Gibson Les Paul e Smolian che sfoggia un look stile Gene Simmons-Slash con un Fender Jazz Bass d’annata, strumentazione classica di un gruppo che rispetta appieno l’esigenza di ricercare il suono ideale per liberare la giusta energia. Can’t find the brakes – che dà il titolo all’ultimo album – apre il concerto e infiamma subito il pubblico: Hold on, shorty can’t find the breaks / Hold on, babe, I do whatever it takes. California dreamin’ è a mio avviso una delle canzoni più riuscite del quartetto californiano. Un riff a cavallo tra i Led Zeppelin e i Guns’n’Roses e un refrain azzeccato la rendono un vero e proprio cavallo di battaglia del gruppo. Poi Heartbreaker, Get a little high, Scars, Dirty mind, Tied up in un crescendo di applausi. Fuori piove, qui c’è il sole! Ci muoviamo alla ricerca del posto dove si possa sentire meglio, i bassi sembrano un po’ troppo invadenti, mistero dei nostri giorni, mistero dei fonici dei nostri giorni. Nonostante ciò, i Dirty Honey sprigionano energia allo stato puro. Coming home è una bellissima ballata acustica che (azzardo) richiama certe atmosfere dei primi Rush e, anche se pare assurdo l’accostamento, melodie dei primi Doobie Brothers, soprattutto nell’uso delle soluzioni corali. Un bel pezzo è sempre una magia, molto toccante. A sopresa (almeno per noi) c’è spazio anche per un omaggio ai granitici Rolling Stones con l’esecuzione di Honky tonk woman. Don’t put out the fire, brano di apertura dell’ultimo CD, si conferma un pezzo di grande presa anche dal vivo, anche senza le sovraincisioni presenti nell’album. Usano pochi trucchi i Dirty Honey; nessun aiutino, massima onestà. La voce ha pochi effetti, forse nessuno: è la voce vera di un cantante poco interessato a fare bella figura. Uno che cerca solo di emozionare i suoi fans: complimenti Marc. LaBelle lascia il palco, fa una passeggiata e canta anche nella zona bar, uno spettacolo nello spettacolo. Il set si chiude con Roam, The wire, Another last time e When I’m gone. Un piccolo commento su Another last time: è un blues che evidenzia l’abilità di John Notto, che propone soluzioni chitarristiche tutt’altro che banali, molto efficaci. La versione live sembra più potente di quella prodotta in studio di registrazione. Il bis è affidato a tre brani: You make it all right profuma di Black Crowes. Nell’album è presente un hammond, è un bel pezzo, forse troppo dolce per i miei gusti, comunque una ballata raffinata. Wan’t take me alive e Rolling 7s chiudono il concerto. Peccato sia mancata Take my hand – molto Led Zeppelin, anche nel drumming, molto trascinante e basata su un bellissimo riff suonato all’unisono da chitarra e basso. E’ uno dei pezzi più convincenti contenuti del primo EP, mi sarebbe piaciuta ascoltarla dal vivo. Lasciamo l’Alcatraz molto soddisfatti e c’è tempo per raccogliere le osservazioni del popolo dei fans, molti sfoggiano la t-shirt del gruppo. Sentiremo parlare a lungo di questo gruppo. La strada è lunga ma i Dirty Honey posseggono tutte le carte per giocare una partita che può portarli ai massimi livelli. Bellissimo concerto.