L’interessante rassegna del circolo Controtempo Musiche dal Mondo, dopo alcune dolorose cancellazioni dovute all’epidemia, ha visto la presenza straordinaria in concerto di una delle star emergenti della musica africana: Dobet Gnahoré.
Nel suo ottimo “Musica Migrante” il musicologo Luca D’Ambrosio definisce la storia dell’High Life come un genere musicale sviluppatosi inizialmente in Africa Occidentale tra il Ghana e la Costa d’Avorio come musica da ballo che univa ritmi e melodie occidentali a quelli delle tradizioni autoctone. Nella sua lunga storia il genere ha subito molti cambiamenti e contaminazioni, l’ultimo viene definito come Burger High Life “una specie di technopop africano (incentrato su varianti rap, reggae e house)” sviluppatosi dapprima in Europa nei locali frequentati dai giovani africani immigrati e poi di rimando diventato famoso anche nei rispettivi paesi d’origine.
Esattamente questo, in una delle sue tante varianti, si è sentito nell’incantevole giardino di Villa Attems a Lucinico attraverso la voce di Dobet Gnahoré e la musica del suo quartetto.
“Couleur” il recente album (04/06/2021) che la cantante ivoriana ha presentato in concerto per la prima volta in Italia segna un deciso cambiamento nel suo stile in precedenza più acustico, ricercato e sognante in favore dei suoni del moderno Afropop. Come dice l’influente sito africanmusicguide.co.uk: “Couleur è un album infuocato, peno di grooves ballabili, beats elettronici, e intriganti melodie che ti catturano piene dell’energia urbana dell’Africa Moderna”.
Anche se viene a volte accostata alle regine della musica africana come Angelique Kidjo, Fatoumata Diawara, Rokia Traorè, la pur ottima cantante ha dimostrato ultimamente di avere altri interessi musicali che mirano ad un contesto decisamente più commerciale e che non guarda alla musica di ricerca, forse anche per una sorta di generale disimpegno dopo la forzata immobilità e clausura dovuta alle restrizioni pandemiche. Tutti sembrano aver bisogno di leggerezza fino alla frivola fatuità del vacuo.
I fortunati che hanno potuto vedere la Traoré a Tarvisio nel 2016 per No Borders, la Diawara nel 2018 a Il volo del Jazz di Sacile oppure ancora Les Filles De Illighadad (2018) o Shingai Shoniwa al Teatro Miela di Trieste nel 2020, possono ben capire che la Gnahoré nonostante si sia esibita in modo energico e dignitoso rimane ancora lontana dall’essere una regina d’Africa. Le si farebbe quasi un torto ad affermarlo.
Per di più la band con cui si è presentata a Lucinico, a parte il batterista, non è sembrata all’altezza del compito assegnatole anche a causa di alcuni problemi tecnici non dipendenti dalla loro volontà. Solo in alcuni momenti del concerto virati verso il Funky e il Reggae sono sembrati risvegliarsi da un torpore francamente soporifero. Con i ritmi in levare non si sbaglia mai, conservano tutto il loro fascino in qualunque situazione se ben scanditi. I musicisti erano Julien Pestre (chitarra e voce) Mike Dibo (Batteria) Louis Hassler (Basso, tastiere, voce). Pur essendo dei professionisti, non sono gli stessi che si sentono sul disco che è stato inciso ad Abidjan (Costa d’Avorio) arrangiato da Tam Sir, un giovane talentuoso ivoriano sulla cresta dell’onda nel suo paese. In un’intervista a afropop.org la cantante ha dichiarato:
“Con lui c’è stata subito un’ottima intesa. E’ aperto a molti stili, e li conosce profondamente. Immediatamente ha capito lo stile preciso che volevo per ogni diverso pezzo. Così come pretendo in tutti i miei album. Non ho uno stile particolare. Ho avuto molte influenze in quello che ho fatto fin dal mio primo album. Così ho mescolato molti stili in questo disco, ma c’è un’idea unica che li accomuna che è quella del ballare…i messaggi contenuti sono di speranza. E’ la nuova energia che ho voluto metterci. Chiunque senta quei suoni deve avere la voglia di muoversi”.
La Gnahoré non si è certo risparmiata per l’appunto ballando, suonando le congas, il tamburo, lo Shekere, lo jam Block, le tastiere con grande energia ma a volte le buone intenzioni non bastano.
La band le fa da bordone ma non la sostiene e soprattutto non osa, i musicisti presi uno per uno, probabilmente avrebbero qualcosa da dare ma è insieme che non funzionano perfettamente. E la questione non è il rodaggio del gruppo ma l’interpretazione che ognuno da alla propria parte. Il basso sei corde Hassler non ha fatto quasi sentire la propria voce e le proprie infinite possibilità limitandosi ad un accompagnamento minimale e scolastico. La chitarra di Pestre impegnata addirittura in rari assolo, non dimostra grande afflato pur facendo la propria parte come da contratto.
Il quartetto ha convinto solamente quando si è messo a spingere sui ritmi più Roots e tribali, ipnotici e violenti. Allora il sound complessivo è sembrato decisamente migliorare. Purtroppo si sono sempre tutti tenuti ben lontano dalle sonorità più scure e ossessive, a favore di tonalità più solari e fluide, perfino festose e disimpegnate.
La Gnahoré ha molto di più da dare ma con una band così scompagnata non è certo facile. Di certo il suo grande talento risalterebbe molto di più se si fosse contornata di musicisti grintosi, energici e fantasiosi come lei; invece, di una chitarra e un basso legnosi e incatenati ad un accompagnamento elementare. Probabilmente anche loro sarebbero in grado di fare meglio ma, per amore o per forza, si devono attenere ai più semplici accordi e ritmi della electro-dance cub music.
La Gnahoré è figlia d’arte, suo padre è Boni Gnahoré tra i fondatori in Costa d’Avorio di una sorta di villaggio campus della cultura e della musica (Kiyi Mbock), laboratorio di moltissime attività artistiche. Il fratello è un famoso rapper dal nome d’arte di Black K e il suo gruppo è Kiff No Beat.
“Dedico questo album alle giovani donne che hanno paura di affrontare il mondo, che sono esitanti nel muovere il primo passo, sia in amore, sia sul lavoro o ancora nel rivendicare i propri diritti. Parlo alle ragazze che stanno pensando di emanciparsi nelle loro vite. Voglio essere un esempio per loro.”
Per esempio nella canzone “Woman” dice che tutte sono belle, quando danzano, nel modo in cui si vestono, inseguono i loro ideali. Altri brani parlano di donne abbandonate che lottano per la loro indipendenza. Sono messaggi molto semplici che in realtà di tanto in tanto sembrano qualunquisti ma dobbiamo pensare alla realtà centro africana cui la cantante si rivolge, nella quale l’analfabetismo è endemico e il tasso di mortalità femminile è ancora altissimo.
Per veicolare meglio il suo messaggio ha deciso perciò di abbassare i toni semplificando gli arrangiamenti con canzoni molto brevi e rendendo la propria musica molto radiofonica e adatta al largo consumo. Tutto questo di certo amplificherà la sua già grande notorietà e moltiplicherà gli ascolti dei suoi brani sulle piattaforme ma come si è potuto vedere nel concerto di Lucinico, abbassa notevolmente il livello della sua musica e quello delle esibizioni. E’ evidente che al grande pubblico questa versione della cantante piace di più e gli spettatori hanno sempre ragione, ma è davvero uno spreco di talento.
Molto dolce il bis e poi: “Thank you so much and God bless you”.
Flaviano Bosco © instArt